Kofi, un giovane ugandese fuggito dalle persecuzioni nel suo Paese, era a Ellebæk da meno di una settimana quando si è reso conto che la paga giornaliera che guadagnava nel centro di detenzione danese, dove attendeva la deportazione, bastava appena per pochi minuti di telefonata con la famiglia. “Lavoriamo perché non abbiamo scelta. Se non lo facciamo, restiamo seduti tutto il giorno in cella”, ci ha detto. Nel centro di detenzione danese, detenuti come Kofi non sono incarcerati per aver commesso reati, bensì per il loro status migratorio. Queste persone sono tuttavia spinte a lavorare con turni fissi e condizioni simili a quelle dei programmi di lavoro carcerario. Una situazione che, secondo gli esperti, rientra nella definizione di lavoro forzato indiretto.
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