La
battaglia sulle “parole” usate per definire fatti, eventi, processi, è
quasi sempre decisiva perché ogni definizione contiene una impostazione
che è contemporaneamente politica, ideologica, espressione di interessi
concreti che non devono apparire in primo piano. Favorisce insomma una
“declinazione” che facilita od ostacola la formazione di un’opinione che
abbia qualche corrispondenza con la realtà.
I nostri lettori più costanti ricorderanno la polemica sull’uso del termine “sovranismo“, usato come stigma al posto di “nazionalismo” nella contrapposizione tutta ideologica tra una Unione Europea “buona e progressiva” e una visione più angusta e tradizionale, soggettivamente molto reazionaria e spesso fascista. Ma anche con qualsiasi impostazione rivoluzionaria che faceva i conti con la vera natura di una “istituzione” che ha sequestrato la democrazia, i diritti e i salari dei lavoratori, il “modello sociale europeo”.
In quella sostituzione di termini scompariva, o assumeva una valenza tutta negativa, il concetto stesso di “sovranità”, che pure è il cuore di ogni discussione politica.
Detto in estrema sintesi: “sovrano” è chi ha il potere di decidere in un determinato ambito territoriale e di popolazione. Può essere un monarca, un gruppo di oligarchi, una democrazia liberista o una democrazia popolare, ma il potere di decidere sovranamente (“senza nessuno al di sopra“) esiste a prescindere dalla forma istituzionale che assume.
In pratica, dicevamo già allora, chi accusa di “sovranismo” ogni voce critica nei confronti dell’Unione Europea non sta sostenendo che “la sovranità” debba scomparire (è semplicemente impossibile), ma che questa sia da trasferire ad un soggetto diverso da quelli storicamente esistiti (monarchi, oligarchi, popoli).
E che questo nuovo soggetto, grazie all’azione della forma istituzionale chiamata “Unione Europea”, debbano essere “i mercati”, in primo luogo finanziari, e “l’impresa” in ogni sua declinazione. Ovviamente secondo una scala gerarchica formata dalla potenza economica. Non “i popoli”, in ogni caso, considerati sia individualmente che in forma associata. Una “nuova sovranità”, come si vede, basata su una divisione di classe, anziché su altri criteri.
Per la parola “genocidio“, usata da quasi tutto il mondo per definire quel che Israele sta facendo a Gaza,
la battaglia è ovviamente ancora più intensa. Coinvolge infatti non solo le fondamenta dell’identità delle democrazie liberali dopo la Seconda guerra mondiale, ma la partizione tra il “male assoluto” rappresentato dal nazifascismo e qualsiasi altra sciagura colpisca l’umanità.E’ noto che il termine “genocidio” è stato di fatto “sequestrato” in accoppiata con “olocausto” per disegnare una sorta di dominio esclusivo del dolore e dell’orrore, unico e irripetibile, tale da mettere il popolo ebraico in una posizione paradossalmente “superiore” rispetto ad ogni altro.
Quando si è trattato di definire quello che sta facendo, a Gaza e altrove, lo Stato di Israele – recentemente ribattezzato in “Stato ebraico“, non più laico -, si è alzata una barriera mediatica e ideologica pronta a negare che si potesse parlare di “genocidio”, suggerendo sempre altri termini quasi altrettanto gravi come “massacro”, “omicidio di massa”, “punizione collettiva”, “pulizia etnica”, ecc, ma comunque simbolicamente meno esclusivi.
A livello di media e quaquaraquà politici, l’argomentazione prodotta non è particolarmente raffinata. In buona sostanza si dice “quello a Gaza non è un genocidio perché gli ebrei” – ma Israele è uno Stato, per quanto religiosamente connotato – “sono stati vittime di un genocidio, solo quello può essere definito tale e dunque non possono a loro volta compierne un altro“.
Sul piano logico, oltre che su quello storico, non si capisce perché dei discendenti di vittime di un genocidio “non possano” a loro volta diventare dei genocidi nei confronti di qualcun altro. Certo non è un modo particolarmente coerente di trarre lezione dalla Storia, anzi, ma non c’è alcuna “impossibilità” materiale o psicologica.
Un’altra argomentazione un tantino meno grossolana suggerisce invece che la differenza con il genocidio nazista consisterebbe nel fatto che nei lager sia stata pianificato lo sterminio di massa con “criteri industriali”, mentre a Gaza si usano bombardamenti e truppe di terra, con un maggiore margine di casualità nella composizione delle vittime civili, considerate benevolmente come “effetti collaterali”.
Per ridicolizzare questa pseudo-obiezione basterebbe rileggere i reportage israeliani sull’uso di Lavender, il programma di intelligenza artificiale che guida le scelte di bombardieri e droni, contenente anche il singolare “tariffario” sul numero delle vittime civili “accettabili” pur di colpire (o solo tentare) un qualsiasi “graduato” di Hamas, proporzionale alla sua importanza. Siamo ben oltre i “criteri industriali” novecenteschi e pienamente gettati in un incubo distopico…
A questo punto si è soliti ricordare che davanti alla Corte Internazionale di Giustizia è aperto, su iniziativa del Sudafrica, un procedimento legale teso ad accertare se Israele stia o no compiendo un genocidio. Il fatto stesso che questo procedimento sia iniziato implica che la Corte abbia già esaminato molti eventi bellici nella Striscia di Gaza e li abbia trovati “compatibili” con l’accusa.
Sul piano strettamente legale, infatti, secondo la convenzione delle Nazioni Unite, è legittimo parlare di genocidio quando una serie di azioni vengono compiute con il “proposito di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale“. In cui “la colpa”, insomma, non è aver fatto qualcosa, ma avere quell’identità lì. Insomma: la colpa di essere palestinesi, proprio come secondo i nazisti gli ebrei erano “colpevoli” di essere tali.
A questo punto, però, proponiamo la lettura dell’articolo di Amos Goldberg – titolare della cattedra Jonah M. Machover di Studi sull’Olocausto presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, uno dei massimi studiosi mondiali in materia, certamente non imputabile di “antisemitismo” (anche se, di questi tempi, potremmo sentire anche questa…) – che ricostruisce con grande attenzione la discussione sull'”intento” (o il “proposito”) come chiave decisiva per poter parlare di genocidio.
Ed è abbastanza scontato, per chi mastica qualcosina di logica giuridica, che “provare l’intenzione” è estremamente complicato. O si trovano documenti che dimostrano come determinati atti siano stati “premeditati”, anche a prescindere da ogni evento casuale favorevole o contrario, oppure quella “intenzione” resta poco più di un sospetto o una convenzione retorica. Non bastano insomma le centinaia di dichiarazioni pubbliche apertamente favorevoli al genocidio pronunciate dai vari Netanyahu, Smotrich o Ben-Gvir, peraltro censite e prodotte a L’Aja dal Sudafrica.
Persino i discorsi di Hitler – ricordano sia Goldberg che numerosi altri studiosi – da soli non “dimostrano” che ci fosse un “intento genocidiario” prima che i forni crematori entrassero in funzione. Ma il genocidio c’è stato…
Non a caso, la riflessione storica più matura sull’Olocausto ha lentamente abbandonato l’impostazione “intenzionalista” e giuridica per adottare una chiave di lettura storica più articolata, quindi più corrispondente alla realtà dei fatti orrendi di cui stiamo parlando. E allora, per esempio, tutte quelle dichiarazioni omicide vengono giustamente inquadrate nella “costruzione di un clima” in cui cresce il consenso di massa per la “soluzione finale” nei confronti del “nemico ebreo” allora. E di quello palestinese oggi.
In quella stessa slavina che porta verso la pratica del genocidio entrano anche il bisogno di “sicurezza” – che Hitler agitava additando i “banchieri ebrei” quali responsabili della lunga crisi della repubblica di Weimar, nonché della “bolscevizzazione” del movimento operaio – e addirittura la “percezione della necessità di autodifesa” e infine la “disumanizzzione dell’Altro” (“Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza“, aveva promesso un anno fa Yoav Gallant, ministro della difesa di Tel Aviv).
“Israele deve potersi difendere“, ripetono tutti i sionisti di complemento, accettando come oro colato persino le psy-op dell’esercito sulla “borsa di lusso della moglie di Sinwar“, fugacemente inquadrata mentre cammina in un tunnel, come se nei mercatini mediorientali – o anche solo napoletani – mancassero le imitazioni di Vouitton e Birkin…
Stiamo parlando di una società intera che precipita nel gorgo della sete di sangue, che cerca di spegnare nel terrore altrui il terrore che prova nel vedersi senza un futuro di pace; che segue un branco di assassini senza uno straccio di strategia realistica – Israele che “dice al mondo quel che deve fare” è un delirio per cui mancano psichiatri all’altezza – come venivano seguiti i santoni delle sètte suicide.
Tra
le poche teste pensanti in questo delirio, dalla lunga sofferenza
vissuta studiando l’Olocausto, Amos Goldberg ci consegna la sua
conclusione quasi disperata:
“A mio avviso, tragicamente, è in corso un genocidio a Gaza, anche se in futuro dovesse emergere che gli eventi non soddisfano completamente i requisiti legali di tale crimine.
Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio, secondo me, perché il livello e il ritmo delle uccisioni indiscriminate, della distruzione, delle espulsioni di massa, degli sfollamenti, della carestia deliberata, delle esecuzioni, della cancellazione di università, istituzioni culturali e religiose, della repressione delle élite (incluso l’uccisione di giornalisti) e la continua disumanizzazione dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, cioè la distruzione intenzionale e consapevole dell’esistenza palestinese a Gaza.
La Gaza palestinese, come entità geografica, politica, culturale e umana, non esiste più. Il genocidio è la distruzione deliberata di un collettivo o di una sua parte, non di tutti i suoi membri individuali – e questo è ciò che sta accadendo oggi a Gaza.“
*****
Il ritorno problematico dell’”intenzione”
Ogni
pochi anni, insegno ai miei studenti il famigerato discorso di Hitler
al Reichstag, pronunciato il 30 gennaio 1939, per commemorare il sesto
anniversario della presa del potere da parte del Partito Nazista. In
questo lungo discorso (dura più di due ore), Hitler rivede con grande
soddisfazione i successi della rivoluzione nazista. Il discorso tocca
molti argomenti, principalmente nell’ambito della politica estera, e
gran parte di esso è carico di retorica ferocemente antisemita.
Verso la fine del discorso, Hitler dichiara: “Oggi
sarò ancora una volta un profeta. Se i finanzieri ebrei internazionali,
dentro e fuori l’Europa, dovessero riuscire a far precipitare ancora
una volta le nazioni in una guerra mondiale, allora il risultato non
sarà la bolscevizzazione della terra, e quindi la vittoria
dell’ebraismo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa!”
Nel
filmato d’archivio di questa parte del discorso, si vedono i delegati
del Reichstag, tutti uomini, molti in uniforme, alzarsi in piedi ed
esultare con grande entusiasmo alla “profezia” di Hitler.
L’importanza di questo discorso risiede nel fatto che fu la prima volta che Hitler parlò pubblicamente ed esplicitamente della possibilità dell’annientamento degli ebrei. Ma cosa significa questa dichiarazione e cosa intendeva Hitler con essa?
In
passato, storici come Eberhard Jäckel credevano che questo discorso
rivelasse i piani di Hitler per annientare gli ebrei, piani che si
sarebbero formati nella sua mente già negli anni ’20. Al Museo
dell’Olocausto Yad Vashem a Gerusalemme, il discorso occupa uno spazio
considerevole nel passaggio dalla sezione sull’epoca della Germania
negli anni ’30 a quella sull’invasione della Polonia e la creazione dei
ghetti, dopo lo scoppio della guerra. Il discorso è mostrato in evidenza
su uno schermo, con sottotitoli in inglese ed ebraico. In questo modo
si dà l’impressione che, già nel gennaio del 1939, cioè prima della
guerra, Hitler avesse un piano chiaro per l’annientamento degli ebrei.
Tuttavia, la ricerca degli anni ’80 e ’90 ha chiaramente dimostrato che non si può attribuire a Hitler nel 1939 una tale intenzione concreta, poiché l’omicidio di massa degli ebrei iniziò solo nel 1941, con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, e si trasformò nell’annientamento totale degli ebrei – ciò che chiamiamo la “Soluzione Finale” – solo più tardi nello stesso anno.
Gli storici differiscono sulla natura esatta della decisione e sulla data in cui fu presa. Le ricerche hanno anche mostrato quanto fosse graduale il passaggio dall’uccisione di massa all’annientamento totale, e che implicò una dinamica costante di richieste e autorizzazioni, insinuazioni e conferme, tra i ranghi sul campo e la leadership a Berlino.
Questo
processo si concretizza pienamente nella prima metà del 1942. Se è
così, come dobbiamo interpretare il discorso di Hitler del gennaio 1939,
in cui egli affermò di “profetizzare” l’annientamento degli ebrei?
Questa è la domanda che discutiamo in classe.
Per prepararsi alla discussione, gli studenti leggono due articoli, uno di Hans Mommsen e l’altro di Ian Kershaw. Mommsen attribuisce poca importanza alla “profezia” di Hitler e al discorso in generale, sostenendo che la retorica minacciosa di Hitler fosse intesa a fare pressione sugli Stati Uniti e su altri paesi occidentali affinché accogliessero più ebrei, nel contesto delle difficili trattative sull’argomento in corso all’epoca, e per avvertire gli Stati Uniti di non entrare in guerra contro la Germania.
Kershaw
ammette che le parole di Hitler non rivelano un piano concreto per
l’annientamento degli ebrei, e riconosce il fatto che pochi nel 1939,
inclusa la stessa Germania, diedero particolare importanza al discorso.
Tuttavia, egli lo vede come una tappa cruciale nella formazione della
mentalità genocida di Hitler nei confronti degli ebrei, e quindi come un
passo importante verso la Soluzione Finale.
La maggior parte degli studenti generalmente adotta la posizione di Kershaw. È difficile per gli studenti in generale, e per gli studenti israeliani in particolare, credere che Hitler “non intendesse” ciò che ha detto, che è, di fatto, l’argomentazione di Mommsen. Una dimostrazione così palese di antisemitismo è esattamente ciò che gli studenti israeliani si aspettano da Hitler, che, ne sono certi, ha rivelato le sue vere intenzioni in questo discorso.
Ciò che di solito li sorprende è il fatto che Hitler non si fosse mai espresso prima in termini così espliciti, nemmeno in Mein Kampf, e che i nazisti avessero una varietà di “soluzioni” per il “problema ebraico“, basate sull’emigrazione e l’espulsione, che cercarono di attuare tra il 1939 e il 1941. Gli studenti vedono solitamente la posizione di Mommsen come una sorta di incapacità di apprezzare appieno il significato dell’antisemitismo in generale e dell’antisemitismo nazista in particolare.
Quest’anno non ho insegnato questo discorso. Tuttavia, ho partecipato a un seminario per studenti di master e dottorato sull’antisemitismo nazista, in cui questo discorso è stato discusso. La discussione mi ha sorpreso. Molti dei partecipanti israeliani (a mio avviso, più del solito) sembravano disposti ad accettare la “posizione di Mommsen”, sostenendo che si deve fare una distinzione tra parole e azioni.
Uno
dei partecipanti, che durante il seminario aveva spesso sottolineato
l’antisemitismo, ha persino iniziato dicendo che, alla luce delle
opinioni espresse durante il seminario, ci si sarebbe aspettato che
sostenesse la “posizione di Kershaw”, ma in questo caso riteneva che
quella che io chiamo “la posizione di Mommsen” fosse la più convincente
delle due.
Non potevo fare a meno di pensare che le opinioni dei partecipanti israeliani fossero state influenzate dalla discussione avvenuta poche settimane prima presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), dove Israele era accusato di genocidio contro il popolo di Gaza. Uno dei principali punti di contesa durante la discussione era la questione dell’”intenzione”, poiché la definizione di genocidio nella Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio del 1948, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, richiede “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale“.
Il Sudafrica, che ha intentato la causa contro Israele, ha citato numerose dichiarazioni di natura genocida, fatte da politici israeliani di alto livello, tra cui il primo ministro, il presidente dello Stato e il ministro della difesa, oltre che da comandanti militari di alto e basso rango. I giuristi sudafricani hanno sostenuto che queste dichiarazioni soddisfacevano chiaramente il requisito dell’intento della Convenzione sul Genocidio.
Israele,
al contrario, ha sostenuto che queste dichiarazioni non costituivano
dichiarazioni di intento, come richiesto dalla convenzione, ma erano
semplicemente espressioni naturali di rabbia in seguito al massacro del 7
ottobre. Questo spiegherebbe la tendenza inaspettata degli studenti
israeliani a identificarsi con la “posizione di Mommsen”, che non
necessariamente attribuisce un significato pratico alle dichiarazioni
palesi di annientamento di Hitler.
Questo aneddoto potrebbe mostrare fino a che punto le interpretazioni di studenti e persino studiosi potrebbero essere, almeno in parte, influenzate da premesse esterne e contesti politici attuali, nonché la relativa facilità con cui possono cambiare.
Ulteriore prova di ciò può essere trovata in una lettera aperta pubblicata dagli storici nella New York Review of Books l’8 dicembre 2023, che collegava gli orrori del 7 ottobre all’Olocausto, in particolare l’antisemitismo nazista a quello di Hamas. I firmatari hanno offerto la seguente giustificazione per l’analogia: “Trovare somiglianze e differenze tra eventi storici è sempre stato essenziale per comprendere il passato e il presente.”
Ciò che è interessante è che tra i firmatari ci sono studiosi come Alvin Rosenfeld, Elhanan Yakira, Meir Litvak e altri, che sono tra i più convinti sostenitori dell’idea che l’Olocausto sia unico e non debba essere paragonato a nessun altro evento. Di solito, considerano qualsiasi analogia o confronto tra l’Olocausto e altri eventi una banalizzazione dell’Olocausto o persino antisemitismo.
Ora,
però, sembrano aver cambiato approccio storico, sostenendo
effettivamente la necessità di trarre analogie e confrontare il nazismo e
l’Olocausto con Hamas e l’attacco del 7 ottobre.
È interessante notare che il contrario è vero in una certa misura. Una risposta di altri storici a questa lettera aperta (a scanso di equivoci: sono stato tra i redattori della lettera di risposta), che includeva le firme di numerosi studiosi identificati con gli studi comparativi sull’Olocausto, ha respinto il confronto tra Hamas e i nazisti, poiché ciò “relativizza i crimini nazisti“, tra le altre ragioni.
Questi studiosi (me compreso) generalmente sostengono che la contestualizzazione ampia degli eventi dell’Olocausto è essenziale per la loro comprensione e non costituisce relativizzazione. Sembrerebbe quindi che, nel contesto politico attuale, questi gruppi di studiosi abbiano cambiato posizione, o almeno linguaggio. Coloro che tendono a sottolineare l’unicità dell’Olocausto hanno sostenuto un approccio analogico, mentre quelli più inclini alla ricerca comparativa hanno visto questo come una relativizzazione dei crimini nazisti.
È
interessante notare che negli ultimi mesi si è discusso della natura di
un pensiero analogico appropriato, rispetto a un pensiero analogico
inappropriato.
L’aneddoto sui partecipanti al seminario, con cui ho iniziato, potrebbe anche segnare qualcosa di molto più importante per il campo della ricerca storica sull’Olocausto, il genocidio e la violenza di massa, ovvero il ritorno della questione dell’intento diretto come componente centrale della nostra comprensione degli eventi genocidi. Come ho osservato, la questione legale decisiva riguardo al crimine di genocidio è quella dell’intento.
Un evento di uccisione di massa senza il “proposito di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”
non può essere considerato genocidio secondo la convenzione delle
Nazioni Unite. Si noti che l’intento deve essere di distruggere il
gruppo in quanto tale. Cioè, il motivo dell’omicidio deve risiedere
nella stessa identità del gruppo.
Nel suo articolo del 13 ottobre 2023, che ha in gran parte avviato la discussione sul genocidio a Gaza, Raz Segal ha dedicato ampio spazio a dimostrare che le parole di alti funzionari israeliani indicano un chiaro intento di distruzione, e ha quindi definito l’evento “un caso da manuale di genocidio“.
La squadra legale sudafricana presso la CIJ ha poi dedicato molto tempo a dimostrare l’esistenza di uno speciale intento di distruzione, come riflesso nelle parole di figure politiche, militari e dei media israeliane di alto livello. La stessa corte, nella sua decisione di indicare misure provvisorie, ha sottolineato le parole di figure israeliane di spicco come prove di un presunto intento di commettere genocidio.
In un articolo pubblicato all’inizio della guerra a Gaza nella Boston Review, Dirk Moses ha affrontato la questione dell’intento. In questo articolo, Moses sostiene che lo standard legale dell'”intento” è così alto che difficilmente può essere soddisfatto in un tribunale. Egli sostiene quindi, in linea con il suo recente libro The Problems of Genocide, che non vi sia motivo di insistere specificamente sul concetto di genocidio. Anche senza la capacità di dimostrare un chiaro intento di “distruggere” i palestinesi “in quanto tali,” “in tutto o in parte,” Israele sta comunque commettendo crimini moralmente riprovevoli, derivanti da quello che egli considera il principale motore della maggior parte della violenza statale di massa, che definisce come l’aspirazione alla “sicurezza permanente“.
Tuttavia, la questione dell’intento continua a dominare la discussione sugli eventi a Gaza. La questione dell’intento è tornata al centro del dibattito.
La questione dell’intento come elemento centrale per comprendere l’Olocausto è stata al centro di un lungo dibattito tra “intenzionalisti” e “funzionalisti” nella storiografia dell’Olocausto.
I primi sostenevano che la chiave per comprendere l’Olocausto e la Soluzione Finale risiedesse nell’intento antisemita dei nazisti (principalmente di Hitler) di uccidere gli ebrei. I secondi, invece, si concentravano sulle condizioni locali, su calcoli apparentemente razionali, sui meccanismi della burocrazia moderna e sulle dinamiche della psicologia sociale.
La storiografia ha successivamente abbandonato entrambe le posizioni estreme e unidimensionali, preferendo un approccio molto più complesso e raffinato che combina i fattori affrontati dagli intenzionalisti e dai funzionalisti con aspetti quali i contesti più ampi di violenza di massa, l’affinità alla violenza coloniale, fattori linguistici e antropologici, geografia, circostanze locali, inclusi i popoli non tedeschi e gruppi etnici, e altro ancora.
La discussione storica, sia negli studi sull’Olocausto che nello studio del genocidio e di altre forme di violenza statale di massa (come la pulizia etnica o gli omicidi di massa), è progredita notevolmente negli ultimi anni, superando la questione unidimensionale dell’intento.
Oggi, tuttavia, mentre si combatte per definire la violenza israeliana a Gaza come genocidio nei tribunali e nell’opinione pubblica, la questione dell’intento, nel suo senso più diretto e unidimensionale, è tornata ad essere il centro della discussione per comprendere un genocidio. È come se fossimo tornati indietro di un’intera generazione.
Inoltre, il concetto di intento nella ricerca storica è molto diverso da quello nel discorso legale. La legge richiede un momento in cui la componente mentale (l’intento: mens rea) corrisponde all’azione (actus reus) e i due elementi si fondono per costituire il crimine di genocidio. Gli storici, al contrario, capiscono che l’intento è dinamico, non lineare e pieno di contraddizioni e complessità. Citerò alcuni esempi.
Nel 1991, Götz Aly e Susanne Heim pubblicarono un libro che sconvolse la comunità storica, suggerendo che una parte significativa della Soluzione Finale emerse da calcoli razionali di scienziati e ingegneri che cercavano di attuare un programma di rapida modernizzazione in Europa orientale. Sostenevano che considerazioni economiche e di pianificazione fossero una parte importante della Soluzione Finale. Argomentazioni simili sono state avanzate da storici come Christian Gerlach.
Inoltre, un motivo centrale dietro l’assassinio degli ebrei, discusso da Dirk Moses e molti altri, era la “sicurezza”. Gli ebrei erano visti – in modo completamente illusorio – come una quinta colonna, che metteva in pericolo l’impero nazista dall’interno. Erano percepiti come un focolaio di partigiani.
Quando Himmler scrisse, dopo un incontro con Hitler il 18 dicembre 1941, che gli ebrei dovevano essere distrutti come partigiani, lo intendeva in senso letterale. Spiegazioni complesse di questo tipo, che non sono radicate esclusivamente nell’intento di distruggere gli ebrei “in quanto tali,” ma piuttosto nell’intenzione di perseguire lo sviluppo economico o obiettivi di sicurezza, rendono forse l’atto genocida dei nazisti meno genocida?
Se esaminiamo lo sviluppo del genocidio armeno, come delineato, ad esempio, da Donald Bloxham (pur notando che altri studiosi ne hanno descritto lo sviluppo in modo diverso), l’intento di distruggere gli armeni in quanto tali si è creato lentamente e, come nel caso dell’Olocausto, all’interno di un sistema di interazioni a feedback dall’alto verso il basso e viceversa.
Altrove, Bloxham solleva anche la possibilità che l’intento ideologico di odio verso le vittime si sviluppi in realtà dopo l’omicidio, come giustificazione per esso, piuttosto che come motivo. Ciò rende forse l’atto meno genocida?
Inoltre, molti storici vedono le soluzioni territoriali naziste, come il Piano Madagascar, come genocidi perché avrebbero creato condizioni che non avrebbero permesso a un gruppo di sopravvivere nel tempo. Ma questo era molto prima della decisione sulla Soluzione Finale in cui si poteva rilevare un chiaro intento di annientare gli ebrei in quanto tali.
Al centro di questo forum c’è la questione se il campo degli studi sull’Olocausto e sul genocidio sia attualmente in crisi, alla luce degli eventi di Gaza. Suggerirei che, se la questione dell’intento, la cui predominanza è radicata nel discorso legale, prende il sopravvento sugli studi sull’Olocausto e sul genocidio, ci riporterà indietro di decenni. E, infatti, nel contesto israelo-palestinese attuale, sembra che il discorso storico stia collassando in quello legale, in un modo che minaccia l’intero campo, che si era già liberato della questione dell’intento come unico o principale punto di vista da cui studiare e comprendere gli eventi di genocidio e violenza di massa.
Intenzione nel Diritto e nella Storia
La
differenza tra gli approcci legali e storici alla questione
dell’intento può essere illustrata dai diversi modi in cui si
relazionano alle molte dichiarazioni genocidarie di figure israeliane di
alto livello. Sono stati documentati più di cinquecento casi fino a
gennaio 2024, alcuni dei quali trasmessi in prima serata televisiva.
Queste voci rappresentano una larga parte dell’opinione pubblica e
corrispondono a ciò che sta effettivamente accadendo sul campo.
Come notato, i giuristi sudafricani hanno argomentato in modo convincente che queste dichiarazioni indicano un chiaro intento di distruggere Gaza – un punto su cui si basa l’intero caso. Israele ha sostenuto che si tratta semplicemente di espressioni di rabbia.
In termini legali, queste due opzioni – intento e mera espressione di rabbia – sono diametralmente opposte. Dal punto di vista di uno storico, tuttavia, la distinzione può essere molto meno netta.
La Nakba, ovvero la pulizia etnica avvenuta in Palestina nel 1948, ha seguito un processo simile. Come ha mostrato Confino nel suo libro più recente sul villaggio palestinese di Tantura, non vi era un piano articolato per espellere i palestinesi, ma gli eventi non furono nemmeno completamente incidentali.
La Nakba avvenne come risultato dell’immaginario e delle fantasie politiche condivise e date per scontate da quasi tutti gli abitanti ebrei della terra – che tutti o la maggior parte degli arabi dovessero scomparire, poiché sarebbe stato impossibile fondare uno stato ebraico in cui gli arabi costituivano il quarantacinque per cento della popolazione, come proposto dalle Nazioni Unite nel piano di spartizione della Palestina.
Fu questa consapevolezza a portare alla pulizia etnica della Palestina nel 1948, piuttosto che un chiaro e preesistente intento di realizzarla. L’immaginario politico dato per scontato fu il fattore decisivo, e non un’intenzione precisa e un piano dettagliato, come richiedono gli studiosi del diritto.
In questo senso, le centinaia di dichiarazioni documentate da leader politici e militari israeliani, opinionisti e figure mediatiche, così come dal pubblico in generale, nelle conversazioni private e sui social media, dimostrano che un immaginario politico costruito nel corso degli anni ha dato vita, il 7 ottobre, all’idea che Gaza dovesse essere completamente distrutta.
È da un’atmosfera di questo tipo che emergono crimini di massa come genocidi e pulizie etniche, e non necessariamente da una decisione inequivocabile e globale, presa in un momento preciso, con l’intento chiaro di uccidere e distruggere. Un tale piano potrebbe esistere o meno. Non lo sappiamo ancora. Ma, dal punto di vista che propongo qui, ciò è di importanza secondaria.
La disumanizzazione sistematica e decennale dei palestinesi, culminata dopo lo shock e le atrocità del 7 ottobre in un immaginario politico di distruzione totale, potrebbe essere molto più rilevante.
Un’altra differenza tra il discorso legale e quello storico sulla questione dell’intento riguarda il rapporto tra l’intento e il concetto di “autodifesa.” Seguendo in gran parte Dirk Moses, ho sostenuto altrove che, nel discorso legale, “autodifesa” e genocidio sono mutualmente esclusivi.
L'”autodifesa” è l’unico casus belli legittimo secondo il diritto internazionale, mentre il genocidio è il “crimine dei crimini“.
Per gli storici, tuttavia, queste categorie non sono mutualmente esclusive, ma complementari, poiché uno dei motivi centrali che conducono al genocidio e, talvolta, persino il motivo primario, è la percezione dell’autodifesa. Lo vediamo in quasi ogni caso di genocidio.
A Srebrenica, i serbi bosniaci erano convinti di difendersi contro i musulmani bosniaci “jihadisti” nel mezzo della sanguinosa guerra civile scoppiata in seguito alla decisione unilaterale di croati e musulmani bosniaci di separarsi dalla Jugoslavia e stabilire uno stato bosniaco indipendente, in cui i serbi erano una minoranza. I serbi bosniaci, perseguitati dai ricordi delle persecuzioni e degli omicidi della Seconda Guerra Mondiale, si sentivano minacciati.
Nel caso del Ruanda, una brutale guerra civile scoppiò nel 1990, quando il Fronte Patriottico Ruandese, composto principalmente da Tutsi fuggiti dal Ruanda dopo la caduta del regime coloniale, invase il paese. Gli Hutu iniziarono quindi a identificare tutti i Tutsi come combattenti nemici.
Anche il caso dei Rohingya, che l’amministrazione Biden ha recentemente riconosciuto come genocidio, è rilevante. Il genocidio dei Rohingya seguì gli attacchi del 2016 a stazioni di polizia in Myanmar da parte di membri di un movimento clandestino Rohingya.
Anche gli armeni furono percepiti dal regime ottomano come una minaccia esistenziale.
E il primo genocidio del ventesimo secolo, quello delle popolazioni Herero e Nama nel sud-ovest dell’Africa, fu anch’esso visto dai coloni tedeschi come un atto di autodifesa.
In tutti questi casi, i perpetratori del genocidio percepirono una minaccia esistenziale (giustificata in misura maggiore o minore), e le loro azioni genocidarie derivarono, almeno in parte, da questa percezione. La distruzione del collettivo delle vittime non è quindi antitetica all’autodifesa, ma autenticamente motivata da essa. Questo tema mostra un significativo divario tra il diritto e la storia nei rispettivi approcci all’atto di genocidio.
In conclusione, vorrei evidenziare un’ulteriore differenza tra il modo in cui il concetto di genocidio è visto dalla storia e dal diritto.
Per i giuristi, il genocidio è una categoria distinta da altre categorie criminali, come i crimini di guerra (la convenzione si applica in tempo di pace così come in tempo di guerra), i crimini contro l’umanità, e persino la “pulizia etnica,” che non è una categoria separata di crimine di guerra, ma uno degli atti considerati un crimine contro l’umanità.
Gli storici che studiano il genocidio sanno che i confini non sono sempre chiari, tra genocidio e “pulizia etnica” o “massacro” o “omicidio di massa.” E che il genocidio potrebbe essere perpetrato contro un gruppo politico, ad esempio, che non rientra tra i gruppi elencati nella convenzione (nazionale, etnico, razziale o religioso) – scelti per ragioni politiche, in linea con gli interessi delle potenze al momento dell’adozione della convenzione da parte delle Nazioni Unite nel 1948.
Per decenni, gli studiosi hanno dibattuto la definizione precisa di genocidio, sapendo che la convenzione stessa è piena di lacune, motivo per cui hanno coniato una serie di termini complementari, come democidio, etnocidio, politicidio, ecocidio e altri. Alla fine, tuttavia, gli studiosi sono giunti alla conclusione che questi dibattiti sono in gran parte inutili.
Norman Naimark (in alcune fasi dei suoi scritti) e Michael Mann, ad esempio, hanno preferito concentrarsi sul concetto di “pulizia etnica,” di cui il genocidio è un caso estremo, perché hanno visto in questo concetto, che nega l’esistenza dell’altro e della società multietnica, la chiave per comprendere questo fenomeno.
Nel suo affascinante libro, Claudio Saunt rifiuta il termine genocidio riferito alla distruzione delle popolazioni nativo-americane. Benjamin Valentino ha quantificato eventi che ha definito “uccisioni di massa” piuttosto che genocidio come l’omicidio di almeno cinquantamila vittime disarmate entro cinque anni.
Pertanto, mentre la questione dell’intento è cruciale per i giuristi, gli storici e gli studiosi di altre discipline possono permettersi di allontanarsi, almeno in parte, dalla questione giuridica dell’intento, per esplorare il fenomeno della violenza di massa statale moderna in modo più complesso e multidimensionale.
Gli eventi attuali a Gaza costituiscono un genocidio? Giuridicamente, la questione è oggetto di dibattito e la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia emetterà la sua sentenza a tempo debito. Nel frattempo, la corte ha adottato una serie di misure preventive temporanee contro Israele, approvate dalla stragrande maggioranza dei suoi membri, basate sul presupposto che Israele potrebbe già essere responsabile del crimine di genocidio a Gaza o che ci siano motivi per credere che possa commetterlo in futuro.
Il procuratore della Corte Penale Internazionale cerca – almeno per il momento – di incriminare i leader israeliani per crimini di guerra e crimini contro l’umanità (incluso, forse, il crimine di “sterminio“), piuttosto che per genocidio.
Tuttavia, senza abbandonare completamente la prospettiva giuridica, credo che dobbiamo anche essere cauti nel non lasciarci completamente vincolare da essa. A mio avviso, tragicamente, è in corso un genocidio a Gaza, anche se in futuro dovesse emergere che gli eventi non soddisfano completamente i requisiti legali di tale crimine.
Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio, secondo me, perché il livello e il ritmo delle uccisioni indiscriminate, della distruzione, delle espulsioni di massa, degli sfollamenti, della carestia deliberata, delle esecuzioni, della cancellazione di università, istituzioni culturali e religiose, della repressione delle élite (incluso l’uccisione di giornalisti) e la continua disumanizzazione dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, cioè la distruzione intenzionale e consapevole dell’esistenza palestinese a Gaza.
La Gaza palestinese, come entità geografica, politica, culturale e umana, non esiste più. Il genocidio è la distruzione deliberata di un collettivo o di una sua parte, non di tutti i suoi membri individuali – e questo è ciò che sta accadendo oggi a Gaza.
Questo, come già accennato citando il lavoro di Confino, è un’altra fase in una lunga storia dell’immaginario politico sionista di un Grande Israele senza (o con molti meno) palestinesi.
Il risultato è indubbiamente genocida, e questo è ciò che conta dal mio punto di vista, da una prospettiva storica che non è né completamente staccata né identica a quella legale, la quale pone “l’intento di distruggere… come tale” al centro della scena.
La domanda posta a questo forum è se il campo degli studi sull’Olocausto e sul genocidio stia ora affrontando una crisi. Molti in questo forum hanno affrontato la questione da una prospettiva politica ed etica, che potrebbe essere ciò di cui c’è più bisogno in questo momento.
Qui vedo come questo campo, in particolare, abbia reso possibile evidenziare fin dall’inizio la gravità della violenza criminale israeliana. Questo ambito ha fornito a Raz Segal, così come a Martin Shaw, il quadro concettuale per scrivere, già il 13 ottobre, su dove stessero andando le cose, e ha permesso a molti altri nel settore di firmare una petizione definendo le azioni di Israele come genocidio già nel dicembre 2023.
Allo stesso tempo, e dalla prospettiva metodologica che ho cercato di adottare in questo articolo, se il campo – che è riuscito a liberarsi dalle catene dell’intenzionalismo estremo e dalle definizioni legali strette e in gran parte arbitrarie imposte dalla Convenzione sul Genocidio – tornasse alla gabbia concettuale legale della necessità di provare l’intento, arretrerebbe di decenni e rischierebbe di perdere la propria rilevanza come disciplina complessa e dinamica, non staccata dai contesti politici in cui opera, ma nemmeno identica a essi.
Notes
1 Adolph Hitler, “Discorso del 30 gennaio 1939: Berlino, Reichstag,” in My New Order, ed. Raoul de Roussy de Sales (New York: Reynal & Hitchcock, 1941), 559–94.
2 Ibid., 584–5.
3 United States Holocaust Memorial Museum, “Discorsi di Hitler prima del Reichstag,” Holocaust Encyclopedia. https://encyclopedia.ushmm.org/content/en/film/hitler-speaks-before-the-reichstag-german-parliament.
4 Eberhard Jäckel, L’Hitler di David Irving: Una storia sbagliata dissezionata, trans. H. David Kirk (Port Angeles, WA: Ben-Simon Publications, 1993), 24. See also Lucy Dawidowicz, The War Against the Jews 1933–1945 (Harmondsworth: Penguin Books, 1977), 206.
5 See Amos Goldberg, “The ‘Jewish narrative’ in the Yad Vashem Global Holocaust Museum,” Journal of Genocide Research 14, no. 2 (2012): 187–213, e in particolare sul discorso, 195.
6 La letteratura su questo è vasta. Vedi un buon riassunto delle varie posizioni in Dan Stone, Histories of the Holocaust (Oxford: Oxford University Press, 2010), 64–112. Si veda anche un riassunto del processo stesso che portò alla Soluzione Finale, che evidenzia questa dinamica, in Ian Kershaw, Fateful Choices: Ten Decisions That Changed the World, 1940–1941 (New York: Penguin Press, 2007), 431–70.
7 Hans Mommsen, “Hitler’s Reichstag Speech of 30 January 1939,” History and Memory 9, nos. 1-2 (1997): 147–61; Kershaw, “Hitler’s Prophecy and the ‘Final Solution’,” in On Germans and Jews under the Nazi Regime, ed. Moshe Zimmermann (Jerusalem: Magnes University Press, 2006), 49–66.
8 Jeffrey Herf et al., “An Exchange on Holocaust Memory,” The New York Review of Books, 8 December 2023, https://www.nybooks.com/online/2023/12/08/an-exchange-on-holocaust-memory/.
9 Vedi Alvin Rosenfeld, The End of the Holocaust (Bloomington: Indiana University Press, 2011); Elhanan Yakira, Post-Zionism, Post-Holocaust: Three Essays on Denying, Forgetting and the Deligitimation of Israel (Cambridge: Cambridge University Press, 2011); Meir Litvak and Esther Webman, From Empathy to Denial: Arab Responses to the Holocaust (New York: Columbia University Press, 2009).
10 Michael Rothberg, “Holocaust Remembrance and the Ethics of Comparison,” The Massachusetts Review, 26 January 2024, https://www.massreview.org/node/11743.
11 Raz Segal, “A Textbook Case of Genocide,” Jewish Currents, 13 October 2023, https://jewishcurrents.org/a-textbook-case-of-genocide.
12 A. Dirk Moses, “More than Genocide,” Boston Review, 14 November 2023, https://www.bostonreview.net/articles/more-than-genocide/.
13 A. Dirk Moses, The Problems of Genocide: Permanent Security and the Language of Transgression (Cambridge: Cambridge University Press, 2021).
14 Sul dibattito tra intenzionalisti e funzionalisti, vedi Philip Burrin, Hitler and the Jews: The Genesis of the Holocaust (London: Edward Arnold, 1994); Ian Kershaw, The Nazi Dictatorship: Problems and Perspectives (London: Arnold, 2000), 69–92; Richard Evans, In Hitler’s Shadow: West German Historians and the Attempt to Escape from the Nazi Past (New York: Pantheon Books, 1989); Amos Goldberg, “One from Four: On What Jaeckel, Hilberg and Goldhagen Have in Common and What is Unique about Christopher Browning,” Yalkut Moreshet 3 (2005): 55–81.
15 Aly and Heim, Architects of Annihilation: Auschwitz and the Logic of Destruction (London: Phoenix, 2003).
16 Gerlach, The Extermination of the European Jews (Cambridge: Cambridge University Press, 2016).
17 Moses, The Problems of Genocide. See also Saul Friedländer, The Years of Extermination: Nazi Germany and the Jews 1939-1945 (New York: Harper Collins), 280.
18 Si veda più recentemente, per esempio, Taner Akçam, Killing Orders: Talat Pasha’s Telegrams and the Armenian Genocide (Cham: Springer International, 2018).
19 Donald Bloxham, “The Armenian Genocide of 1915-1916: Cumulative Radicalization and the Development of a Destruction Policy,” Past and Present 181 (2003): 141–91. Vedi anche Donald Bloxham and Fatma Müge Göçek, “The Armenian Genocide,” in The Historiography of Genocide, ed. Dan Stone (London: Palgrave, 2010), 344–72.
20 Donald Bloxham, The Final Solution: A Genocide (Oxford: Oxford University Press, 2009), 265.
21 Dan Stone, The Holocaust: An Unfinished History (London: Penguin Random House, 2023), 98, 100–1.
22 “Database of Israeli Incitement to Genocide,” Law for Palestine, 4 January 2024, https://law4palestine.org/law-for-palestine-releases-database-with-500-instances-of-israeli-incitement-to-genocide-continuously-updated/.
23 Carolina Landsman, “Don’t Blame the Gatekeepers for the Genocide-inciting Extremists in Israel’s Government,” Haaretz, 5 January 2024.
24 Confino, Chof tantura: Churbano shel kfar palestini, 1948 (Haifa: Pardes, 2023).
25 Confino, A World Without Jews: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide (New Haven, CT: Yale University Press, 2014). See my analysis in Goldberg, review of A World without Jews: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide, by Alon Confino, H-Judaic, H-Net Reviews (January 2015).
26 Moses, The Problems of Genocide.
27 Amos Goldberg, “Yes it is Genocide,” Medium, 18 April 2024, https://thepalestineproject.medium.com/yes-it-is-genocide-634a07ea27d4.
28 Si veda per esempio Naimark, “A Study of Genocide and Ethnic Cleansing,” interview by Jim Bettinger, Alexander Street, 2000, https://video-alexanderstreet-com.eu1.proxy.openathens.net/watch/a-study-of-genocide-and-ethnic-cleansing; Michael Mann, The Dark Side of Democracy: The Modern Tradition of Ethnic and Political Cleansing (Cambridge: Cambridge University Press, 2005).
29 Claudio Saunt, Unworthy Republic: The Dispossession of Native Americans and the Road to Indian Territory (New York: W.W. Norton, 2020). Vedi anche Saunt, intervista di Alon Confino, nell’ambito di “Encounters” series, 20 April 2021, https://www.youtube.com/watch?v=fkaSRTt_BXA.
30 Benjamin Valentino, Final Solutions: Mass Killing and Genocide in the 20th Century (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2014). Anche Valentino richiede l’“intenzione” perché un evento sia considerato “omicidio di massa”, ma in un senso molto meno rigido rispetto alle convenzioni. See 12–13.
31 “Statement of ICC Prosecutor Karim A.A. Khan KC: Applications for arrest warrants in the situation in the State of Palestine,” 20 May 2024, https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications-arrest-warrants-situation-state.
32 See also Aryeh Neier, “Is Israel Committing Genocide?” New York Review of Books, 6 June 2024, https://www.nybooks.com/articles/2024/06/06/is-israel-committing-genocide-aryeh-neier/.
33 Segal, “A Textbook Case of Genocide”; Martin Shaw, “Israel Gaza and the Spectre of Genocide,” Byline Times, 13 October 2023, https://bylinetimes.com/2023/10/13/israel-gaza-and-the-spectre-of-genocide/.
34 Raz Segal et al., “Statement of Scholars in Holocaust and Genocide Studies on Mass Violence in Israel and Palestine Since 7 October,” Contending Modernities, 9 December 2023, https://contendingmodernities.nd.edu/global-currents/statement-of-scholars-7-october/.
35 Sono a conoscenza di recenti tentativi di colmare il divario tra la prospettiva giuridica e quella storica. Si veda ad esempio: Rosenberg, Sheri P. “Genocide Is a Process, Not an Event,” Genocide Studies and Prevention: An International Journal 7 no. 1 (2012): 16–23; Pauline Wakeham “The Slow Violence of Settler Colonialism: Genocide, Attrition, and the Long Emergency of Invasion”, Journal of Genocide Research, 24 no. 3 (2022): 337–356. Francesca Albanese’s, (Il rapporto del Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967) dell’ottobre 2024 va nella stessa direzione. Questi tentativi, tuttavia, hanno avuto uno scarso impatto sulla dottrina giuridica tradizionale sul Genocidio. Da qui la mia preoccupazione che l’“intento” nel suo senso più stretto possa ridominare il campo degli studi sull’Olocausto e sul Genocidio. Ringrazio Raz Segal che mi ha spinto a riflettere su questo punto.
* Amos Goldberg è titolare della cattedra Jonah M. Machover di Studi sull’Olocausto presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Tra le sue pubblicazioni, il libro coedito insieme a Bashir Bashir The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History (Columbia University Press 2018). Il suo libro recente: “Ve’Zacharta” – And You Shall Remember: Five Critical Readings in Holocaust Memory è uscito in ebraico nel giugno 2024.
Articolo pubblicato sul Journal of Genocide Research.
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