giovedì 17 marzo 2011

pc quotidiano 17 marzo - niente da festeggiare

Niente da festeggiare, tanto per cui lottare



Il 17 marzo siamo sollecitati a celebrare (con i nostri soldi, visto che ci tolgono una giornata di ferie) i 150 anni dell’unità d’Italia.

Per noi si tratta di una festa di regime in cui si chiamano i sudditi a celebrare i fasti dello stato unitario e delle sue istituzioni facendo ricorso a rigurgiti patriottici che servono a mascherare la natura di classe, dal loro sorgere, di queste istituzioni.

Il nascente stato unitario infatti servì alla borghesia e alle altre classi possidenti per creare un ambito di mercato che consentisse di fare meglio i propri affari ma soprattutto di poter meglio sfruttare il proletariato già esistente e quello prodotto dall’espulsione dalle campagne, proprio in virtù dell’affermazione delle nuove relazioni sociali che il nuovo stato era chiamato a tutelare e promuovere. Da subito lo stato italiano fu sotto il controllo monopolistico della borghesia e le sue istituzioni furono forgiate per rafforzare e proteggere il suo dominio contro le inevitabili ribellioni, individuali e collettive che lo sfruttamento e la crescente miseria sociale provocavano.

Insieme al più generale sfruttamento esercitato nei confronti dei proletari e delle classi popolari dell’intero territorio italiano, la realizzazione dello stato unitario comportò una politica di rapina e di saccheggio nei confronti delle popolazioni delle regioni meridionali, esercitato con la complicità delle locali classi dirigenti, al fine di promuovere un rapido processo di accumulazione di capitale favorendone la concentrazione in alcune aree del nord. Una politica che provocò una vera e propria guerra di sterminio nei confronti di coloro che si ribellavano contro la privazione delle poche garanzie e diritti che in precedenza almeno gli consentivano di sopravvivere. In tal modo le regioni meridionali furono trasformate in una sorta di colonia interna da cui attingere risorse umane e materiali, producendo devastazione di territori, miseria indicibile ed emigrazione di massa.

Questo stesso stato unitario aveva appena emesso i suoi primi vagiti che subito si è proiettato sullo scenario internazionale con una politica di guerre coloniali e di occupazione di territori di altre nazioni operando dei veri e propri genocidi ed un’oppressione che ne hanno macchiato per sempre la sua natura.



Il carattere classista dello stato italiano non è mai venuto meno nel corso di questi 150 anni nonostante i cambiamenti di regime succedutesi. Esso si è solo perfezionato per meglio svolgere il compito cui era preposto. Dovendo prendere atto dell’impossibilità di sopprimere lo scontro di classe, la borghesia ha modificato via via le sue istituzioni, sia introducendo il suffragio universale, sia tollerando l’esistenza delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori. Il rafforzamento del suo potere economico infatti le consentiva agevolmente di tenere sotto controllo questi istituti. Ma quando hanno visto messo in pericolo il proprio potere le classi dominanti non hanno esitato a ricorrere agli strumenti della dittatura esplicita come è avvenuto durante il ventennio fascista.

Né il periodo post-bellico ha modificato la sostanza di questo stato e delle sue istituzioni. La stessa costituzione alla quale dovremmo tutti prostrarci in venerazione, ha rappresentato in realtà il miglior involucro attraverso cui continuare a mantenere il proprio dominio nelle mutate condizioni politiche e sociali. Le poche concessioni e garanzie a tutela dei lavoratori e dell’agibilità politica in essa contenute non scalfivano il sistema di sfruttamento del lavoro salariato su cui si regge il potere delle classi dominanti ed erano il frutto conquistato sul campo dalla partecipazione alla resistenza contro il fascismo.

Dopo il ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che aveva consentito di allargare i diritti e le conquiste materiali dei proletari oggi, i padroni ed i loro rappresentati politici, stanno riprendendosi tutto quello che avevano dovuto cedere non esitando a modificare in peggio quella stessa costituzione per riaffermare in maniera ancora più brutale la propria supremazia ed i propri privilegi di classe.

Cosa avrebbero da festeggiare e da celebrare quindi i proletari? Una unità politica ed uno stato unitario che si sono dimostrati essere il migliore strumento nelle mani della classe dei capitalisti per poterli sfruttare?



Dietro la retorica degli interessi comuni del paese, del bene della nazione continua a nascondersi una realtà costituita da classi sociali con interessi contrapposti e tra di loro divergenti, in cui una parte si appropria privatisticamente della ricchezza sociale prodotta dall’altra, e dove quella stessa ricchezza viene prodotta con una organizzazione del lavoro basata sullo sfruttamento e l’alienazione.

Mentre siamo invitati a sostenere gli interessi nazionali per il bene di tutti, i padroni ed i loro capitali si spostano liberamente per l’intero pianeta andando ad investire lì dove le condizioni sono più favorevoli alla realizzazione di maggiori profitti, senza preoccuparsi se i lavoratori finiscono disoccupati e senza un reddito per sopravvivere decentemente. Oppure utilizzano come arma di ricatto la minaccia di delocalizzare la produzione per imporre condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili. Eppure, mentre loro muovono liberamente i loro capitali in giro per il mondo poi pretendono che ciò non debba valere per i proletari di altri paesi che, in cerca di una prospettiva migliore, si spostano dai loro paesi di origine in Italia.

Contro questi ultimi viene esercitata una odiosa politica di criminalizzazione, di razzismo di stato che ha il solo scopo di tenerli in una posizione di estrema ricattabilità per imporre loro di accettare condizioni di vita e di lavoro intollerabili, ma anche per utilizzare la loro debolezza come strumento di pressione nei confronti dei lavoratori italiani.



Per noi, quindi, il 17 marzo non è una data da celebrare, ma un’occasione per denunciare la natura classista dello stato unitario. Non abbiamo patrie da rivendicare o da esaltare, meno che mai se questa patria è fondata sulle disuguaglianze sociali e sullo sfruttamento al suo interno, se questa patria viene contrapposta a quella di altri proletari, nei confronti dei quali siamo chiamati a contrapporci per fargli concorrenza consentendo ai padroni di sfruttarci ancora più intensamente.

Quelle istituzioni che siamo chiamati a difendere sono le stesse che contribuiscono a mantenere il meridione del paese in una condizione di subalternità; non come retaggio di un’arretratezza ancora da superare, ma come risultato continuamente riprodotto ed alimentato per difendere gli interessi del grande capitale.

Esaurito il modello fordista di unità nazionale, in cui al sud veniva riservato soprattutto il ruolo di serbatoio dell’esercito industriale di riserva, il destino assegnato ai territori meridionali, senza che scompaiano i fenomeni migratori, sembra legato prevalentemente alle dinamiche di aggressione al territorio, di discariche per i rifiuti tossici e nucleari, privatizzazioni selvagge, enclaves di lavoro iper-precario e un processo crescente di marginalizzazione sociale accompagnata da una repressione altrettanto feroce. Con la riproduzione-moltiplicazione di modelli emergenziali e leggi speciali nei confronti dei movimenti e dei territori, poi puntualmente esportati nel resto del territorio nazionale.



Il federalismo, che tutti i partiti istituzionali dicono di voler realizzare, non rappresenterà un miglioramento per il Sud, poiché questo, lungi dal far venir meno il peso asfissiante di questo Stato, porterà solo a scaricare ulteriori costi sulle istituzioni locali ed ad un aumento della tassazione senza portare veri benefici a nessun proletario tanto del Nord quanto del Sud. Poiché le ulteriori risorse che si intende spostare verso le regioni del Nord, da una parte provocheranno una ulteriore marginalizzazione del Sud, ma dall’altra serviranno ad arricchire le classi dirigenti del Nord, amplificando nel contempo la contrapposizione tra proletari delle diverse aree del paese consentendo ai padroni di continuare a sfruttarli meglio tutti.



La bandiera che siamo chiamati ad onorare è stata utilizzata mille volte per giustificare dei soprusi, quando è stata portata in prima fila dalle truppe di occupazione coloniale seminando morte, distruzione sfruttamento e rapina. Ed ancora oggi quando dietro le insegne delle missioni umanitarie si continua a proseguire la politica delle aggressioni militari contro interi popoli, come nel caso della ex Jugoslavia e dell’Iraq o dell’Afghanistan.

Tanto più sentiamo di doverci dissociare dalla celebrazione del tricolore oggi che si ritorna a parlare di nuova missione umanitaria nei confronti della Libia, dove l’Italia si è già macchiata di crimini inauditi, ed il cui significato, nemmeno tanto velato, è solo quello di difendere gli investimenti attuali e futuri che i nostri capitalisti intendono proteggere.



Non vogliamo essere associati con l’immagine di un paese imperialista che già quotidianamente sfrutta ed opprime popolazioni di altre nazioni, attraverso l’utilizzo della finanza, l’investimento in loco di capitali e la diplomazia e che non esita a ricorrere all’aggressione militare per difendere i propri interessi travestendoli da missioni di pace. Viceversa ci sentiamo fratelli di quelle masse che stanno scendendo in piazza in questi giorni nei paesi del vicino e medio oriente, per protestare contro le proprie classi dirigenti ma anche contro una divisione del mondo in cui ad essi viene riservato il ruolo supersfruttati e di affamati.

Non è dall’unità interclassista con chi ci sfrutta e ci reprime quotidianamente che può venire un cambiamento radicale delle nostre condizioni di vita, ma dall’alleanza sempre più stretta con chi, in qualsiasi paese, subisce la stessa oppressione determinata da un sistema sociale basato sul profitto.



La data che vogliamo ricordare è invece quella del 17 marzo 2001, quando trentamila persone nella città di Napoli si rivoltarono contro i potenti del mondo e la globalizzazione capitalistica, e dove questo Stato ancora una volta sperimentò nuove forme di autoritarismo poliziesco e giudiziario, subito esportate ad alcuni mesi di distanza a Genova quando provocò la morte di Carlo Giuliani ed il massacro della scuola Diaz.

La repressione ora come allora non ha fermato la nostra determinazione ed il nostro antagonismo contro questo stato. Restiamo convinti che esso rappresenta solo una controparte per i movimenti di lotta e per quei soggetti che aspirano ad una trasformazione radicale degli attuali rapporti sociali. Non pensiamo che la radicalità delle lotte possa essere rappresentata fattivamente all’interno delle sue istituzioni che, quando anche consentono l’elezione di qualche rappresentante delle lotte, lo fanno solo per cooptarlo ed addomesticarlo ai danni dei movimenti stessi, come dimostra l’esito di tutti i tentativi compiuti fino ad ora con le migliori intenzioni.

Per tale motivo non intendiamo delegare a nessuno la rappresentanza dei nostri interessi: non abbiamo partiti o personaggi da sponsorizzare alle elezioni, ma contiamo solo sull’autorganizzazione ed il protagonismo di chi si mobilita contro le conseguenze dell’oppressione capitalistica, in quegli organismi prodotti dalla lotta stessa e dalla crescente unità tra gli sfruttati siano essi del Nord o del Sud del mondo.



Rete anticapitalista campana

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