dalla stampa
Il 25 Aprile di Torino e gli inglesi che sospesero l'attacco dei partigiani: volevano essere loro a liberare la città
L’atteggiamento rigido e non negoziabile degli inglesi che volevano evitare che Torino venisse liberata dai partigiani di sinistra prima del loro arrivo in città
Quella che per tutti noi costituisce la data della vittoria, della liberazione del nostro Paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca, il 25 aprile 1945 cioè, è in realtà una data convenzionale, scelta perché il 24 aprile 1945, Radio Londra e poi tutte le piccole Radio clandestine della resistenza, avevano ripetuto la frase in codice: «Aldo dice 26 × 1». Era il segnale dell’insurrezione generale che doveva scattare all’una di notte del 25 indirizzato a tutte le unità partigiane dal Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia. A Milano, nel pomeriggio, in Prefettura, dopo l’incontro tra i rappresentanti del Cln Alta Italia e Mussolini, con la mediazione del cardinale Schuster, si prende atto dell’impossibilità di un accordo. Sarà l’ultimo incontro prima della decisione del Duce di lasciare una Milano ormai liberata e con i tedeschi che si stavano ritirando senza scontri a fuoco verso nord. A Milano, dunque, la liberazione avviene proprio in coincidenza del 25 aprile. A Torino, invece, la situazione è ben diversa, tutt’altro che chiara e definita.
I comandi militari della Repubblica Sociale Italiana, avendo avuto notizia dei movimenti partigiani di avvicinamento a Torino pongono in allarme le truppe e predispongono 22 posti di blocco intorno alla
città, con militi sia della Guardia Nazionale Repubblicana sia della Brigata Nera, in tutto circa 30.000 uomini. Quel 25 aprile, i quotidiani torinesi concentrano la loro attenzione, da un lato, sul messaggio di Adolf Hitler a Benito Mussolini e sulla situazione sui fronti in Europa orientale (a Berlino si combatte ormai casa per casa) e occidentale (gli americani e gli inglesi non riescono a sfondare sulle rive dell’Alto Danubio); dall’altro, sull’avanzata degli alleati nella pianura padana con la avviata occupazione di Bologna e di gran parte della Romagna.Il messaggio di Hitler è farneticante: «Il popolo tedesco e quanti altri sono animati dei medesimi sentimenti, si scaglieranno alla riscossa, per quanto dura sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno mutare il corso della guerra in questo storico momento, in cui si decidono le sorti dell’Europa per i secoli a venire». I giornali torinesi, dopo una prima pagina che fotografa la drammaticità della situazione militare in tutta Europa passa, quasi inerzialmente, a dare informazioni sugli spettacoli cinematografici e teatrali, come se niente fosse.
Il partito fascista vuole che passi un messaggio di normalità! Cominciavano, però, a scarseggiare gli alimenti: quelli disponibili con il tesseramento erano diventati insufficienti. Il mercato nero era sempre più caro, ma continuava a prosperare. In questo contesto di attesa angosciosa, ma anche di speranza, i comandanti delle brigate partigiane devono assumere una decisione difficile, contraria, come abbiamo visto, alla volontà degli alleati. «La mattina del 25 — scrive Paolo Greco, il liberale presidente del Cln torinese — si apprende che il colonnello Stevens è di avviso contrario, ma il Cln, per il tramite del maggiore Creonti, all’unanimità, conferma al comando militare l’ordine di attuare immediatamente il piano E-27».
Vale la pena, a questo punto, ricapitolare la disposizione delle formazioni partigiane secondo il piano «Aldo 26 + 1». Era previsto l’impegno di due gruppi: quello cittadino articolato in cinque settori con circa 1860 uomini di pronto impiego e 7130 di secondo impiego; quello dei partigiani provenienti da fuori città: quattro divisioni Autonome (Giovane Piemonte, Monferrato, Di Vitis, Val Chisone) per un totale di 1100 uomini; cinque divisioni Garibaldine (la 1a, la 2a, la 3a, la 4a e la 13a) con 3300 uomini; cinque divisioni di Giustizia e Libertà (la 3a, la 4a, la 6a oltre ad un gruppo operativo mobile) con 1500 uomini; tre divisioni Matteotti (la Canavese, la Collina, la Monferrato) con 1500 uomini. Le forze autonome, le garibaldine delle Langhe ed eventualmente le due divisioni Giustizia e Libertà del cuneese per un complesso di 3900 uomini che dovevano servire come riserva strategica.
All’ora di pranzo viene notificato a tutti i reparti coinvolti nell’operazione l’ordine di mobilitazione. Alle 21 il colpo di scena, temuto ma non creduto, almeno dai più. Arriva, come un fulmine, un contrordine che ferma l’attacco: «Non procedere verso gli obiettivi in città, se non dietro specifico ordine del comando Piazza». Un tono perentorio che non ammette repliche. Le minacce di Stevens hanno ottenuto l’obiettivo di fermare le brigate d’assalto. Il maggiore inglese Dodson, alle 19. 45, fa recapitare al comando di «Barbaro» un telegramma che impone la sospensione dell’attacco. In particolare, conferma ai partigiani di attaccare i tedeschi in ogni zona si trovassero; di non iniziare alcun movimento verso Torino senza l’autorizzazione del comando Piazza che ha la responsabilità di dirigere la battaglia; di «vegliare ai loro fianchi e alle loro spalle, per evitare il rischio di essere accerchiati dalle due divisioni tedesche in movimento»; «il comando alleato non vuole che i partigiani attacchino Torino in queste ore perché l’opposizione nemica è ancora troppo forte».
L’alibi per questa «sventurata» decisione è dunque quello della presenza in loco delle due divisioni tedesche con 35.000 uomini in perfetto assetto di guerra e con armamento pesante. Bisogna evitare, secondo gli inglesi, che le brigate partigiane siano massacrate dai tedeschi in ritirata. Il comandante Barbaro ricorda di aver dato immediatamente direttive alle sue brigate di coprirsi le spalle ed incominciare a monitorare i movimenti delle avanguardie tedesche che giungevano da Cuneo e dal Monferrato. Quello che preoccupava i comandanti partigiani era l’atteggiamento rigido e non negoziabile degli inglesi che, in realtà, come abbiamo detto, volevano evitare che Torino venisse liberata dai partigiani di sinistra prima del loro arrivo in città.
La sospensione dell’attacco lasciava al loro destino gli operai e i commandos partigiani, già asserragliati negli stabilimenti cittadini. Era incominciata, tra l’altro, la reazione nazifascista con l’accerchiamento di alcune fabbriche da parte di mezzi blindati. Sono ore drammatiche, con continue e concitate discussioni fra i comandanti partigiani che si pongono il tema del cosa fare in quella precaria e contraddittoria situazione. Barbaro manda i suoi emissari a tutti i comandi delle brigate partigiane in attesa nei dintorni della città. Mentre a Torino oltre 13.000 fascisti e tedeschi si stanno organizzando per liberare con le armi, la mattina dopo, le fabbriche occupate, il Corpo dei Volontari della Libertà (non dimentichiamoci che dal 2 aprile tutte le brigate partigiane avevano modificato le loro denominazioni originarie, rinunciando ai loro fazzoletti colorati e assumendo tutte la denominazione di reparti del Corpo Volontari della Libertà) attende con trepidazione istruzioni definitive.
Torino, il 26 aprile 1945 e la strenua resistenza operaia nelle fabbriche: fu il giorno più critico di tutta l’insurrezione
Quel giovedì primaverile di ottant’anni fa si rivelò il momento in cui anche i più ottimisti vedevano incrinare le loro certezze
Doveva essere il giorno dell’offensiva: il D-Day della liberazione di Torino. La data compariva, come abbiamo visto, nella famosa frase in codice «Aldo dice 26x1» che dava il via alla battaglia finale. Invece quel giovedì primaverile di ottant’anni fa si rivelò il giorno più critico di tutta l’insurrezione. Il momento in cui anche i più ottimisti vedevano incrinare le loro certezze.
Da un lato, le squadre dei gappisti e dei sappisti avevano sbarrato i cancelli degli stabilimenti, ostruendo i passaggi con blocchi di ghisa e piazzando le mitragliatrici in punti cruciali. Ma doveva essere soltanto una fase transitoria di poche ore perché poi sarebbero arrivate le brigate d’assalto partigiane che avevano circondato la nostra città. Dall’altro lato, c’erano tutte le brigate facenti parte del Corpo Volontari della Libertà, che erano state fermate nella loro offensiva dal contrordine scritto dagli inglesi. Con il passare del tempo, però, l’entusiasmo iniziale si stava trasformando in angoscia, in brutti pensieri che portavano i protagonisti a sentirsi isolati e quasi abbandonati da coloro che avrebbero già dovuto essere in città. Alle donne fu permesso di rientrare a casa e sarebbero rimasti in fabbrica soltanto gli operai che avessero voluto restare fino alla fine. Ma vediamo la cronaca di quella giornata attraverso gli avvenimenti più rilevanti accaduti in quella città sospesa tra la speranza di una liberazione e l’incubo della continuazione del regime di polizia.
Fin dall’alba del 26 aprile, le polizie fasciste e il comando tedesco torinese organizzano delle missioni all’esterno del centro cittadino, con carri armati e armamento pesante, per dare un segnale che non avrebbero mollato la lotta. Il prefetto Grazioli convoca i giornalisti volendo tranquillizzare la cittadinanza che la situazione era sotto controllo e che gli insorti sarebbero stati cacciati fuori dalle fabbriche al più presto e arrestati.
Alle 10 il presidente del CLN torinese, l’avvocato liberale Paolo Greco, convoca la prima riunione pubblica del Comitato dopo tanti mesi di clandestinità. Non nella conceria Fiorio di via Donati perché in quella zona era in corso un conflitto a fuoco tra le parti, ma in Via Peyron, a casa di Aldo da Col. Sono confermate tutte le direttive già discusse e condivise tra i partiti e che ricomprendevano anche i nomi dei candidati alle cariche istituzionali cittadine come il Sindaco, il Questore, il Prefetto dopo la liberazione.
A mezzogiorno, con la mediazione del vescovato, arriva al comando militare del CLN
una proposta di tregua da parte dei tedeschi, respinta immediatamente. I
tedeschi volevano evitare inutili spargimenti di sangue e chiedevano di
poter passare attraverso Torino garantendo che non ci sarebbero stati
disordini. In Svizzera era in corso da giorni una trattativa con gli
alleati per una resa delle armate germaniche in Italia. La
notizia era circolata e ormai anche i comandi tedeschi secondari avevano
come obiettivo principale di tornare il più in fretta possibile in
patria.
Il pomeriggio di quel 26 aprile è segnato da numerosi scontri in diverse parti della città.
Per il CLN era fondamentale riuscire a conservare il presidio sia della
rete ferroviaria, sia delle sedi delle società torinesi operanti nei
settori dell’energia elettrica e di tutte le comunicazioni. Fin dalla
notte del 25 furono fatti esplodere alcuni vagoni fermi nelle stazioni
ferroviarie cittadine, in modo tale da bloccare il traffico dei treni.
Le sedi dell’Aem (l’Azienda Elettrica Municipale) e della SIP (azienda della telefonia cittadina) erano ubicate in una zona centralissima, in via Bertola, molto vicine l’una all’altra. Le istruzioni fornite ai Gap e Sap
sono precise e rigorose: i commandos devono limitarsi a presidiare i
luoghi, difendendoli da eventuali attacchi nemici, evitando qualsiasi
tipo di gesto che avesse potuto causare ritorsioni o reazioni militari
dei nazifascisti.
L’obiettivo era quello di salvaguardare sia la rete elettrica sia la rete telefonica
per impedire che finissero nelle mani dei nemici. I commandos non solo
riescono in questa impresa limitandosi a usare le armi soltanto se
attaccati, ma grazie alla occupazione della SIP possono ascoltare molte
delle conversazioni telefoniche tra i comandi fascisti e quelli tedeschi, acquisendo in tal modo preziose informazioni sulle loro azioni in corso. Anche le sedi dei giornali cittadini,
la Gazzetta del Popolo e La Stampa devono essere occupate: si voleva
bloccare la propaganda nazifascista, presidiando la pubblicazione
quotidiana dei fogli delle due testate, ormai ridotte a un foglio unico
con due pagine scritte. Qui le cose vanno meno bene: la Gazzetta del Popolo,
in corso Valdocco, è rioccupata da un reparto fascista che cattura
tutti gli insorti, portandoli nella vicina caserma Valdocco. I Sap sono
costretti anche a cedere il possesso del Palazzo del Municipio,
circondato da carri armati con la minaccia di sparare ad altezza uomo.
Tutto quel pomeriggio del 26 aprile è costellato di scontri tra le parti
con un’altalena di successi e di sconfitte per entrambi. Certo, più il
tempo passava più la fiducia degli insorti diminuiva. Non si hanno
infatti notizie delle brigate partigiane ed è sempre più difficile
gestire il nervosismo degli operai e la loro voglia di farla finita.
Si chiede al CLN un intervento politico:
c’è bisogno di autorevoli esponenti dei vari partiti che ci mettano la
faccia per tranquillizzare le maestranze. I politici che riescono a
superare i blocchi e a parlare agli operai ottengono ottimi risultati…
guadagnando tempo. Il panico è anche dettato dalla mancanza di armi e soprattutto di munizioni. Sono proprio queste le ore più difficili di tutta l’operazione legata alla liberazione della città.
La resistenza eroica degli occupanti delle fabbriche
si caratterizza anche con delle azioni miracolose. Alla SPA di corso
Ferrucci alcuni operai riescono in poche ore a completare la produzione
di tre carri armati leggeri tipo 15-47, uno addirittura con un pezzo da
75. Ma non basta: una volta finita la costruzione dei tre mezzi, un
operaio si installa alla guida di uno dei tre carri issando una bandiera
del CLN, che sventola sulla carrozzeria del veicolo. Esce
improvvisamente dalla fabbrica, sorprendendo gli assedianti che si
ritirano pensando a un contrattacco importante di forze corazzate.
Un gesto eroico che ha permesso di mantenere il presidio dello stabilimento.
Finalmente, intorno alle 18 arriva l’ordine di riprendere l’iniziativa e di allinearsi intorno alla città per l’attacco finale. Alle 22.30 arriva anche la conferma scritta di quello stesso colonnello Dodson che aveva mandato le istruzioni di sospendere il piano E-27 il giorno prima. La strenua resistenza nelle fabbriche torinesi non era stata vana.
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