30 gennaio: “Presidio di solidarietà allə carceratə”
Ci arriva notizia che sono molte le iniziative in tutto il territorio nazionale di sostegno alla protesta di Dana, Fabiola e le altre detenute che hanno intrapreso uno sciopero della fame per i diritti fondamentali in carcere. Di seguito alleghiamo via via gli eventi delle varie iniziative:
Con Valerio nel Cuore
Avanti No Tav
PADOVA – Sabato 30 – ore 10:30
Invitiamo tuttə a partecipare al presidio di solidarietà organizzato per Sabato 30 gennaio sotto la Casa Circondariale di Padova alle ore 10.30
Non possiamo non pensare a tuttǝ lǝ detenutǝ che in questi mesi di pandemia si sono vistǝ privare ulteriormente dei pochi diritti che ancora sono garantiti.
Ancora non ci si è posti di mettere in atto un piano di vaccinazione per detenutǝ e reclusǝ per garantire la loro sicurezza, visto che sono sotto la responsabilità dello stato, come molte associazioni stanno chiedendo nel nostro paese e non solo.
«Il grado di civiltà di un paese si vede dalle sue carceri» diceva Voltaire; in quelle italiane in questo momento è come se vigesse la pena di morte senza processo.
– indulto subito per tuttǝ
– istituzione del garante dei diritti dellǝ detenutǝ in tutte le città
– misure preventive non carcerarie per i reati minori
– priorità all’accesso ai vaccini a tutta la popolazione carceraria.
DAI NOTAV AI NODAL MOLIN un filo rosso ci unisce: contro soprusi ed ingiustizie oltre il COVID, oltre le SBARRE.
Sabato 30 gennaio, h. 11.30, abbiamo organizzato un presidio di solidarietà con Dana e le altre detenute in lotta al carcere delle Vallette.
In fondo all’appello trovate anche il link per firmarlo.
Le lotte contro le grandi opere segnano, in Italia, una nuova stagione di consapevolezza diffusa: la terra non è e non deve essere merce di scambio nelle mani di chi ha soldi e potere.
Per noi NOdalMolin i NOTAV sono stati, per noi, fonte di ispirazione e coraggio. Dana l’abbiamo conosciuta al Presidio. Non ricordiamo più quale, se quello di Venaus, o di Caldogno, o in una delle migliaia di manifestazioni che abbiamo condiviso. Abbiamo portato avanti un orizzonte di senso, un’utopia: difendere i beni comuni. Oggi, alla luce del COVID, sappiamo che la strada tracciata è stata quella giusta. Ne usciremo solo se continueremo a difendere i nostri territori. Dallo smantellamento della sanità pubblica, dallo scaffale polveroso in cui sembra sia stato archivjato il diritto all’istruzione, dai disastri ambientali, dai cambiamenti climatici.
Dana da alcuni mesi è in carcere. Subisce la stessa sorte di altre e altri che hanno osato mettere in discussione sfruttamento e malaffare. A livello repressivo la procura di Torino non è seconda a nessuno e il movimento NOTAV è stato fortemente criminalizzato. Così come altri compagni e compagne prima di lei, che hanno subito detenzioni ingiuste, dure, spropositate ai fatti imputati, Dana deve scontare due anni, per aver bloccato un casello autostradale e usato un megafono, durante una protesta NOTAV.
Il carcere è il peggio che ci si possa augurare. Lo è in condizioni normali. In periodo COVID non è nemmeno lontanamente tollerabile. Già dal primo lockdown detenuti e detenute, in tutta Italia, si sono visti togliere i pochi diritti concessi, con la scusa della pandemia, mentre il problema del sovraffollamento non è stato neanche lontanamente preso in considerazione. Stiamo parlando di annullamento delle visite, delle attività ricreative, educative e lavorative. Stiamo parlando di igiene, di contatti sociali tra detenuti, di un piano di vaccinazione per garantire sicurezza a chi è dietro le sbarre, visto che vive sotto la responsabilità dello Stato. Dopo quasi un anno di pandemia ancora non si è intervenuti come hanno fatto altri paesi: amnistie, indulti e sconti di pena per ridurre l’affollamento, se non in una misura insignificante.
Per questo, Dana ed altre detenute hanno messo in piedi uno sciopero della fame che è durato sei giorni ed ha costretto la direzione del carcere Le Vallette di Torino a parlare pubblicamente dei problemi della prigione in Italia.
Abbiamo deciso di unirci al movimento NOTAV nell’appello alla solidarietà oltre le sbarre, nonché alla campagna DANA LIBERA TUTTI, e convocare un presidio al carcere di Vicenza per le 11.30 si sabato 30 gennaio.
A Dana, alle sue compagne, ai NOTAV vogliamo dire: grazie. Ancora una volta ci indicate un percorso. Così come abbiamo fatto per le strade di montagna, per difendere la valle, o attorno al cantiere del DAL Molin per denunciarne la prepotenza invasiva, non possiamo che camminare fianco a fianco.
Ai detenuti e alle detenute di tutte le carceri, in particolare qui a Vicenza, vogliamo dire: non siete soli. Doveva andare tutto bene, dovevamo uscirne migliori. Invece, oggi parlare di diritti dei detenuti equivale ad affrontare un discorso scivoloso e impopolare. Non ci interessa. Grazie alla lotta di queste detenute, all’associazione Antigone, al Movimento NOTAV, oggi chi non ha voce torna ad averla.
Chiediamo che vengano garantiti i diritti ai colloqui e all’affettività di detenuti e detenute.
Chiediamo indulto subito.
Chiediamo un piano di vaccinazioni prioritario per chi è detenuto, l’ istituzione del garante dei diritti dei detenuti in tutte le città, misure preventive non carcerarie per i reati minori.
Chiediamo a chi legge, a chi ha lottato con noi contro le grandi opere, a chi oggi si batte per sanità e scuola gratuite, pubbliche e sicure, di sottoscrivere questo appello e di venire sotto il carcere con noi.
Una parte di noi ha dato vita ad un progetto, il Caracol Olol Jackson, che guarda in questa direzione: ambulatori popolari pubblici e gratuiti, sportello di consulenza sanitaria, caf e sindacato. Alla popolazione carceraria e ai loro familiari vogliamo dire che siamo a disposizione con i servizi che offriamo e che vogliono essere un bene comune. La solidarietà è un’arma e noi vogliamo continuare ad utilizzarla, oltre il covid, oltre le sbarre.
Avanti Dana
Avanti NOTAV
Libertà per tutte e tutti
Per sottoscrivere l’appello: https://forms.gle/oTDJTtafoMRKgQW29
Ma la solidarietà arriva anche dai paesi baschi, con un’azione di solidarietà alla lotta No Tav presso il consolato italiano di Pamplona
Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà
Forse ricorderete le rivolte che hanno attraversato un centro d’accoglienza a Treviso tra giugno ed agosto e i 4 arresti che ne sono seguiti. Ad oggi uno di loro non c’è più , Chaka, due sono ancora in carcere (a Treviso e Vicenza) e per un’altra persona è stata trovata un’abitazione a Treviso per i domiciliari. Il primo aprile comincia il processo.
Come Campagne in lotta siamo sempre in contatto con tutti e tre e da qualche giorno, anche in seguito al confronto con loro, abbiamo fatto partire una campagna di solidarietà, che vi incollo qui.
Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà
Il 19 agosto Mohammed, Amadou, Abdourahmane e Chaka vengono arrestati per devastazione, saccheggio e sequestro di persona e portati nel carcere di Treviso. Il 7 novembre Chaka, 23 anni, viene trovato morto nel carcere di Verona.
Secondo le accuse, sono colpevoli di aver “capeggiato” le proteste che tra giugno e luglio hanno travolto il Cas ex caserma Serena di Treviso.
In un periodo in cui per molti il lockdown sembrava finito, le persone costrette a vivere dentro i luoghi di reclusione continuavano a restare ammassate, senza che venisse presa nessuna misura di tutela della loro salute.
Questo è il caso dell’ex caserma Serena di Treviso, adibita a Cas e gestita dalla cooperativa Nova Facility, dove ancora a giugno, più di 300 persone continuavano a vivere in spazi sovraffollati, senza che venisse loro fornita alcuna informazione sui contagi né alcuna protezione come mascherina e disinfettante. Molti di loro lavorano sfruttati in diversi settori della zona, dalla logistica all’agricoltura. Già da ben prima dell’emergenza Covid chi era costretto a vivere in quel luogo aveva denunciato le terribili condizioni di vita all’interno della struttura: le condizioni igieniche degradanti, le cure mediche assenti, le camere-dormitorio, la rigidissima disciplina con cui sono applicate le regole dell’accoglienza, la collaborazione tra operatori e polizia, il lavoro volontario all’interno del centro. Un luogo perfetto per la diffusione del Covid.
L’ex caserma Serena, infatti, nel giro di 2 mesi diventa un focolaio,e i contagiati passano da 1 a 244. E’ proprio per questo che prima a giugno, poi a fine luglio e infine ad agosto si susseguono proteste da parte degli ospiti della struttura. Le ragioni sono molto chiare, nonostante le notizie sui giornali e le inchieste giudiziarie vogliano storpiarle in tutti i modi possibili: si protesta perché non viene fornita nessuna informazione sugli aspetti sanitari, né alcuna misura di tutela della salute, perché da un giorno all’altro viene comunicato a tutti l’isolamento, ma senza che venga data alcuna spiegazione. Solo dopo due giorni di vero e proprio sequestro degli ospiti si scopre che la ragione è il contagio di un operatore. Si protesta perché molti perdono il lavoro senza poter nemmeno comunicare coi propri padroni; perché vengono fatti a tutti i tamponi, ma poi positivi e negativi vengono rinchiusi insieme e quindi l’isolamento si rinnova continuamente. Si protesta perché chi lavora lì continua ad entrare e uscire, mentre i contagiati all’interno aumentano di giorno in giorno, ad alcuni vengono fatti anche 4 o 5 tamponi ma nessuno, tra operatori, personale sanitario e polizia, si interessa di fornire informazioni a chi dentro la caserma ci vive e di virus si sta ammalando. Ad alcuni è anche impedito di vedere l’esito del proprio tampone. Si protesta anche perché gli ospiti chiedono di parlare coi giornalisti per raccontare le loro condizioni, e polizia e operatori glielo impediscono.
Nel frattempo, già dopo le prime manifestazioni di giugno, la prefettura preannuncia 3 espulsioni e almeno una ventina di denunce pronte per quando finirà l’isolamento. L’annunciata repressione si avvera il 19 agosto, quando quattro persone che vivono dentro l’ex caserma vengono arrestate. Altre 8 risultano indagate. Le accuse sono pesanti, ed è molto chiaro che l’intento è punire Abdourahmane, Mohammed, Amadou e Chaka in modo esemplare, per dare un segnale a tutti gli altri. Per trovare dei colpevoli, dei capi, degli untori, per spostare la responsabilità dal Ministero dell’Interno, dalla Prefettura, dalla cooperativa e dal comune agli immigrati. Tutti e 4 vengono portati nel carcere di Treviso. Mohammed viene ricoverato in urgenza allo stomaco proprio per l’assenza di cure, Amadou si ammala di Covid in carcere.
Dopo un mese circa – per ordine del Ministero dell’Interno- vengono trasferiti in 4 carceri diverse e messi in regime di 14bis (sorveglianza particolare). Il 7 novembre il più giovane di loro, Chaka, viene trovato morto nel carcere di Verona. Su di lui viene spesa qualche parola in qualche articolo di giornale, si parla di suicidio e poi, come per tantissime altre morti, cala il silenzio.
Le ragioni di questa protesta, la repressione che ne è seguita e la morte di Chaka sono un’espressione molto chiara di quanto è accaduto nell’ultimo anno e dell’ordine assassino a cui vogliono sottoporci. Se abbiamo conoscenza di questa storia è soltanto grazie al fatto che delle persone continuano a lottare. E per questo ora stanno pagando, rischiando di rimanere isolate e sole.
Dall’inizio della pandemia nei centri di accoglienza di tutta Italia si sono susseguite proteste scatenate da ragioni del tutto simili a quelle di Treviso: la mancanza di informazioni chiare, l’ammassare positivi e negativi insieme in una tendopoli, in un centro o su una nave, le quarantene continuamente rinnovate, la mancata tutela della salute. Le proteste, le fughe, gli scioperi della fame non si sono mai interrotti, contro uno Stato che nei mesi ha noleggiato 5 navi-prigione, ha inviato militari a presidiare i centri di accoglienza, ha stretto accordi di rimpatrio con la Tunisia, ha denunciato ed espulso centinaia di persone, avallato da fascisti e rappresentanti locali che gridavano all’untore, all’espulsione, agli sgomberi.
A marzo, in seguito alle lotte per i documenti che le persone immigrate soprattutto nelle campagne portano avanti con coraggio, lo stesso governo ha varato una sanatoria che ha coinvolto solo poche persone, lasciandone tantissime altre in condizione di irregolarità o semi-irregolarità. Eppure di questa sanatoria le istituzioni si sono fatte vanto, così come della modifica dei decreti sicurezza di Salvini (in realtà questi prevedono ancora misure per favorire la repressione dei reati commessi dentro i cpr, mentre è stata lasciata completamente intatta tutta la parte relativa alla criminalizzazione delle lotte in generale).
Così nelle carceri, dove dopo le rivolte di marzo e le morti, si è cercato di imporre in tutti i modi un muro di silenzio. Mentre le prigioni continuano ad essere focolai, i contagiati raddoppiano (come ad esempio il carcere di Vicenza dove tuttora è rinchiuso Amadou), e aumentano i morti di Covid tra i detenuti, sulle rivolte di marzo e sui 14 detenuti morti nelle galere di Modena, Bologna e Rieti si cerca in tutti i modi di far calare il silenzio; levando di torno le persone e mettendo a tacere in qualsiasi modo la voce dei detenuti e dei testimoni delle violenze e torture che si sono consumate in questi mesi nelle galere. Non a caso proprio le persone straniere che hanno partecipato alle rivolte di Modena sono state espulse.
Ma per quanto si voglia liquidare tutte queste morti, da quella di Salvatore Piscitelli a quella di Chaka Outtara, come dovute a overdose o suicidi, sono proprio le denunce, i racconti e le lotte di questi mesi ad aver permesso di non farne dei casi singoli. Per quanto si voglia dividere e isolare chi ha lottato nei campi, nei centri di accoglienza, nei cpr, sulle navi, nelle carceri con enorme coraggio in tutti questi mesi, i legami di solidarietà e di lotta non smettono di intrecciarsi.
La morte di Chaka, come quella di tanti altri, non deve essere dimenticata, perché quello di Chaka è un omicidio e gli assassini sono l’accoglienza, le leggi razziste che governano la vita delle persone immigrate, lo sfruttamento, il carcere.
Attualmente Mohammed e Amadou sono nelle carceri di Treviso e Vicenza, mentre Abdourahmane è agli arresti domiciliari. Invitiamo a scrivere loro e a far sentire la nostra vicinanza in tutti i modi possibili, perché continuare a lottare significa anche non lasciare solo nessun davanti alla repressione, e non lasciare che la morte di Chaka si aggiunga solo ad una lista ormai troppo lunga.
Per Chaka
Mohammed, Amadou e Abdou liberi! Tutti e tutte libere!
Sanatoria per tutti, repressione per nessuno!
Per scrivere loro:
Mohammed Traore
Via S. Bona Nuova 5/b
31100 Treviso (TV)
Amadou Toure
Via B. Dalla Scola 150
36100 Vicenza (VI)
Torture nel carcere di San Gimignano, il video agli atti del processo
In aula il 27 gennaio viene mostrato un video che ritrae solo in parte il pestaggio brutale ad opera di numerosi agenti su una persona di origine tunisina di 30 anni, seminuda e trascinata di peso. Le immagini del video risalgono all’11 ottobre 2018, ma sono state rese pubbliche solo 2 giorni fa.
Sono cinque gli agenti a processo in uno dei primi casi giudiziari in cui pubblici ufficiali vengono accusati di tortura, lesioni aggravate, falsi ideologici, minacce aggravate e abuso di potere. A processo, la cui prima udienza è fissata per il maggio di quest’anno, ci sono un ispettore superiore, due ispettori capo, due assistenti capo coordinatori. Altri 10 agenti hanno chiesto il rito abbreviato, così come il Il medico del carcere, che è stato condannato a 4 mesi di reclusione con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato il ragazzo vittima del pestaggio.