Un
corteo come quello di ieri non aveva mai attraversato le strade di
Torino. Un corteo selvaggio di seconde generazioni, giovani immigrati e
studenti, spinto da interventi infiammati, mosso dalla rabbia e
dall’entusiasmo.
Chi
ogni giorno non può attraversare quelle stesse strade senza essere
scrutato con sospetto e indignazione, senza essere fermato e intimidito
dalla polizia, ieri si è ripreso lo spazio che gli è negato. Centinaia
di giovani immigrati africani e centinaia di ragazze e ragazzi di
seconda generazione hanno guidato il corteo per le strade della città,
attravarsando centro e periferia e concludendo la giornata con una festa
ai giardini reali. Decine e decine di persone hanno preso il microfono,
incendiando la folla da un impianto montato su un carrello trascinato e
sostenuto dalle braccia di dozzine di persone. Continui interventi,
cori e musica hanno risuonato per cinque ore, mentre cinquemila persone
attraversavano la città, mentre il temporale scaricava sul corteo una
pioggia battente, mentre le camionette della polizia arretravano dopo
ogni tentativo di bloccare il passaggio, mentre lo striscione “WE CAN’T BREATHE”
veniva issato sulla facciata del comune di Torino in piazza Palazzo di
Città, mentre il corteo attraversava i ponti sulla Dora, mentre
l’ufficio immigrazione della questura di Torino veniva assediato per
chiedere il permesso di soggiorno per tutte e tutti. La rabbia per
l’omicidio di George Floyd, la rabbia per il razzismo subito ogni giorno
per le strade della nostra città ha dato a questa giornata una carica
incontenibile.
NO JUSTICE NO PEACE!
Nessuno avrebbe potuto dire cosa ci aspettava in quella piazza.
Certo
pochi tra noi credevano che tutto si sarebbe svolto secondo il
programma ufficiale della giornata, e certo qualcuno ha immaginato quali
potessero essere degli altri orizzonti.
Ma
erano anni che non si vedeva una piazza capace di autogestirsi così,
mettendo in atto pratiche di lotta determinate e spontanee, dimostrando
la consapevolezza della propria forza, dei rapporti di forza
presenti. Far indietreggiare la polizia con la forza dei propri corpi, come di fronte al commissariato di Piazza Carlina ed in via Milano, salire sulle statue di Palazzo di Città ed issare lo striscione. Salire su quella stessa statua che ritrae un crociato soggiogare un moro. Trasformare i portici del Comune in una dance hall. Aspettare la fine del temporale e ripartire. Camminare per quattro ore. Ballare e twerkare in faccia ai celerini costretti a schierarsi in difesa dell’ufficio immigrazione della questura.
presenti. Far indietreggiare la polizia con la forza dei propri corpi, come di fronte al commissariato di Piazza Carlina ed in via Milano, salire sulle statue di Palazzo di Città ed issare lo striscione. Salire su quella stessa statua che ritrae un crociato soggiogare un moro. Trasformare i portici del Comune in una dance hall. Aspettare la fine del temporale e ripartire. Camminare per quattro ore. Ballare e twerkare in faccia ai celerini costretti a schierarsi in difesa dell’ufficio immigrazione della questura.
Eppure secondo gli
organizzatori ufficiali, autonominatosi “Black Lives Matter-Torino”, le
cose non sarebbero dovute andare così.
Un
sit-in, una flash mob, finire con un comizio e poi tutti a casa, nel
rispetto della legalità e delle indicazioni della questura. Questo il
programma ufficiale.
Appena
la piazza si è messa in moto, puntualmente gli organizzatori si sono
dissociati, condannando la manifestazione non autorizzata. Dati i
presupposti, tale presa di posizione non ci ha stupito. Ci dispiace per
loro, per essersi preclusi la possibilità di partecipare a questa
giornata storica. Ed allo stesso tempo non possiamo che riconoscergli il
merito di aver lanciato la flashmob, di aver creato un momento come
quello che abbiamo vissuto tutti insieme in Piazza Castello, una Piazza
Castello piena da un capo all’altro.
Per otto lunghissimi emozionanti minuti in migliaia abbiamo rispettato il silenzio in memoria di George Floyd, alzando il pugno.
Sono
poi seguiti gli interventi, forti nel parlare della propria vita, della
violenza del razzismo e della discriminzione, della rabbia e della
volontà di lottare. In tanti hanno parlato, e se conoscevamo le ragazze
del Collettivo Ujamaa e gli occupanti dello Spazio Popolare Neruda, e
potevamo aspettarci la forza dei loro interventi, non abbiamo potuto che
emozionarci nel sentire prendere parola decine di ragazze e ragazzi di
seconda generazione, decisi e determinati a farla finita con il razzismo
una volta per tutte. E infine ci siamo emozionati quando dall’impianto è
stato lanciato il corteo, e migliaia di persone hanno deciso che quella
giornata non si sarebbe conclusa lì.
Erano le quattro, abbiamo finito di camminare alle otto e mezza.
Questa giornata ci lascia poi alcuni elementi fondamentali da analizzare e su cui ragionare.
In primo luogo, la forza della giornata di ieri conferma la lotta al razzismo come una delle questioni fondamentali del nostro tempo.
Le dozzine di persone che hanno preso parola hanno parlato della
violenza della polizia, del ricatto dei documenti, dei CPR, del
suprematismo bianco nascosto nell’innocente credenza che non esistano
italiani neri, decine di cori hanno scandito slogan decisi contro la
polizia, e in migliaia, neri e bianchi, abbiamo scandito assieme il nome
di George Floyd.
In secondo luogo, ieri si è rotto il processo di compressione dello spazio pubblico
che ci ha tolto il fiato durante i mesi passati. Ad agire questa
rottura sono stati i soggetti che più in assoluto vivono la quotidianità
della segregazione su cui si costruisce la geografia razziale delle
nostre città, che più in assoluto sono sorvegliati mentre attraversano
lo spazio urbano. Ma rabbia ed entusiasmo non mancavano nemmeno alle
migliaia di giovani che si sono subito uniti al corteo.
In
terzo luogo, la giornata di ieri pone con urgenza la necessità di
individuare una prospettiva e di una progettualità politica che prenda
atto dei precedenti due elementi.
Dobbiamo
interrogarci su quale ruolo assumere. Come la giornata di ieri ha
dimostrato, a volte una forzatura è fondamentale. Dobbiamo quindi
trovare il modo di orientare le energie sprigionate ieri nel supportare
le lotte antirazziste che attravarsano i nostri territori, trovare il
modo di orientare questa energia nel supportare i processi di
autorganizzazione e resistenza che ogni giorno i soggetti razzializzati
mettono in campo tanto nei conflitti urbani quanto nelle campagne,
spesso nel completo isolamento. Dobbiamo evitare che le lotte
antirazziste tornino ad essere isolate, e riconoscere invece la capacità
di queste lotte di parlare a moltissimi. Ma parlare non basta. Dobbiamo
trovare il modo di trasformare queste energie in nuove lotte che
sgretolino pezzo dopo pezzo la materialità del razzismo.
Proprio
per questo lo Spazio Popolare Neruda e il collettivo Ujamaa hanno
lanciato un’assemblea pubblica a Porta Palazzo per giovedì 11 giugno
alle 17, al fine di ragionare assieme sulle lotte antirazziste
oltreoceano e su quelle in Italia.
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