Molti particolari li ho rimossi, li voglio dimenticare. Le prigioni in Libia sono così, quelli non sono uomini, sono bestie. Tentare ancora la fortuna in barcone verso l’Italia? La mia famiglia non mi avrebbe mandato un centesimo dopo che sono scappata di casa perché non volevo sottopormi a mutilazioni genitali”. La lucidità con cui Isatu ricorda l’inferno della detenzione nei lager delle milizie in Tripolitania è disarmante.
Lo stupro, etnico e di massa, riconosciuto come arma di guerra e parte dell’accusa nel processo genocidiario durante il conflitto nei Balcani nella prima metà degli anni ’90, oggi ormai è di drammatica attualità. Come migliaia di donne vittime di questa pratica disumana in decenni di violenze nei conflitti più cruenti della storia, dal Ruanda alla Cecenia passando per quanto accade ogni giorno in Congo, Centrafrica e così via, Isatu la conseguenza degli stupri se la porta in grembo. Lei ha 28 anni, originaria di un villaggio della Sierra Leone ed è scappata dalle imposizioni della sua famiglia e della sua comunità.
“Quando la Guardia nazionale ce l’ha portata qui nel centro di Medenina, Isatu era incinta di pochi mesi, adesso è al settimo circa e stiamo cercando di capire con lei la sua volontà. Conoscendo l’origine della sua gravidanza, al tempo le abbiamo chiesto se volesse interrompere il processo, in fondo la legge nel nostro Paese lo consente. Lei ha voluto proseguire, ora il dubbio è legato alla sua volontà o alla necessità che quel figlio, o figlia che sia, resti con lei”. Mongi Slim è il responsabile della Mezzaluna Rossa tunisina del governatorato di Medenina e Zarzis. Tocca a lui gestire coi pochi fondi che il governo di Tunisi garantisce una mezza dozzina di centri di accoglienza dove, soprattutto dall’inizio del 2019, i migranti in fuga da una Libia fuori controllo arrivano ormai quotidianament