Memorandum d’Intesa: dietro le espulsioni un patto segreto tra la polizia italiana e sudanese
Il 24 agosto erano a Ventimiglia, come altre migliaia di persone che, dopo essere fuggite dai propri Paesi, cercano di uscire dall’Italia. Erano 48 e venivano dal Sudan, alcuni dalla regione del Darfur. “Irregolari” perché non avevano fatto richiesta di protezione internazionale in Italia, volevano raggiungere altre nazioni europee. Sono stati prelevati al confine con la Francia dalla polizia e portati a Taranto, per un primo riconoscimento, poi di nuovo nella città ligure dove, al posto di frontiera, hanno trovato l’autorità consolare sudanese (Paese dal quale erano scappati) che ha verificato la loro
identità e dato avvio al rimpatrio.
Oltre duemila chilometri percorsi in pochissime ore, senza avere la possibilità di capire come presentare domanda di protezione internazionale. «A Taranto non siamo riusciti a capire cosa stava succedendo, avevamo paura e nessuno di noi se l’è sentita di firmare niente» ha confessato uno di loro attualmente rinchiuso al Centro di identificazione ed espulsione di Torino. Appena concluso il riconoscimento i 48 sono stati messi su pulmini e portati all’aeroporto “Sandro Pertini” di Caselle. Forse per mancanza di posti sull’aereo sette non sono partiti, ma portati al Cie di corso Brunelleschi. Quelli decollati per Khartoum, come da procedura, avevano le mani legate dalle fascette. Questione di sicurezza.
Un rimpatrio collettivo a tempo di record, facilitato da quella che potrebbe essere la prima applicazione del segretissimo Memorandum d’Intesa firmato a Roma il 3 agosto 2016 da Franco Gabrielli, capo della polizia e Hashim Osman el Hussein, direttore generale delle forze di polizia del Sudan.
Due dei rimpatriati sono stati arrestati appena sbarcati nella capitale sudanese, ma non è chiaro di cosa siano accusati. Degli altri non si hanno notizie certe. L’avvocato Dario Belluccio sta cercando di seguire il caso «ma la situazione è delicata e le comunicazioni difficili» afferma.
Quelli trattenuti al Cie sono riusciti a presentare domanda di protezione internazionale, due hanno già ottenuto lo status di rifugiato.
Luigi Manconi: «Ancora nessuna risposta dal Ministero dell’Interno»
Le criticità in questa vicenda sono molte: «Come è stato possibile procedere con tanta rapidità? Quali garanzie abbiamo che in questo lasso di tempo così breve quelle persone abbiano avuto modo di conoscere la propria situazione giuridica, di sapere che avevano la possibilità di chiedere protezione in Italia?» si chiede Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato che ritiene tale celerità nel rimpatrio un effetto del Memorandum «un tipo di accordo che non ha bisogno del vaglio dal Parlamento e su cui si hanno poche notizie. Ecco perché ho subito presentato un’interrogazione in merito. Il Ministero dell’Interno ha il dovere di far conoscere tutti i dettagli di quell’operazione di rimpatrio e di rendere pubblico l’accordo tra le forze di polizia italiane e sudanesi. Faccio fatica ad accettare l’idea che possa essersi trattato di una vera e propria “deportazione di gruppo” e, per sgomberare ogni dubbio, chiedo che si risponda quanto prima alla nostra richiesta di informazioni. Ne va della credibilità del nostro Paese». Ma a fine settembre il Memorandum d’Intesa rimane segreto.
Non è l’unico accordo di questo tipo: «Attualmente il Dipartimento di Pubblica Sicurezza ha avviato forme di cooperazione operativa con le autorità competenti di alcuni dei Paesi dai quali hanno origine i principali flussi di immigrazione irregolare (Gambia, Costa d’Avorio, Ghana, Senegal, Bangladesh e Pakistan in particolare), oltre alle intese già formalizzate con l’Egitto (2007), con la Tunisia (2011) e più recentemente con la Nigeria e il Marocco. È fondamentale essere messi nelle condizioni di monitorare l’attività del nostro governo in questo settore e vigilare» spiega Manconi.
La strategia europea per i migranti: soldi in cambio di maggiore controllo delle frontiere
L’azione dell’Europa per affrontare le migrazioni prende avvio col “Processo di Rabat” del 2007 ma raggiunge una concretezza il 28 novembre 2014, quando viene firmato a Roma l’accordo tra i 28 Paesi dell’Unione europea con Djibouti, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Tunisia a conclusione del “Processo di Khartoum”, avviato durante la Presidenza dell’Unione da parte dell’Italia. Il successivo passo nella gestione dei flussi migratori è arrivato a La Valletta nel novembre 2015, con l’istituzione del Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per l’Africa, finanziato con 1,9 miliardi di euro. Nei piani del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker la dotazione del Fondo dovrebbe salire fino a 5 miliardi coi contributi degli Stati dell’Unione e poi, per un effetto di attrazione sugli investitori privati, ampliare la capacità di investimento a 60 miliardi entro il 2020. Il Fondo fa parte della strategia avviata dal maggio del 2015 con l’Agenda europea per le migrazioni che poggia su due cardini «da una parte il rafforzamento di Frontex, con l’aumento dei finanziamenti e l’attribuzione di competenze specifiche; dall’altro la Commissione ha deciso di imprimere un’accelerazione alla definizione di forme di collaborazione con i Paesi terzi per fermare i flussi migratori verso l’Europa – afferma Luigi Manconi, che prosegue – Accanto all’obiettivo di affrontare le cause profonde della migrazione e contribuire alla creazione di pace, stabilità e sviluppo economico dei Paesi terzi viene individuata come priorità, e finanziata, la cooperazione in materia di rimpatrio e di riammissione. Che l’approccio della Commissione sia sbilanciato verso quest’ultimo aspetto è dimostrato dall’intesa tra Turchia e Ue di marzo, accordo i cui contorni formali e giuridici sono ancora tutti da chiarire. E in questo quadro va collocata la comunicazione del 7 giugno della Commissione, il così detto Migration Compact di Juncker».
“Modello Turchia” per fermare i migranti
Il misterioso Memorandum è solo uno degli atti che sanciscono la prosecuzione degli accordi con Pesi terzi sul “modello Turchia”, e poco importa chi siano i governanti a cui si stringe la mano. Il caso del Sudan è emblematico: il presidente Omar al-Bashir, salito al potere dopo un colpo di Stato nel 1989, è ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Dalle indiscrezioni che filtrano il Memorandum d’Intesa si fonda su uno scambio: equipaggiamento, addestramento e finanziamenti alla polizia del Sudan in cambio di un maggiore controllo delle frontiere. La collaborazione si estenderebbe anche alla presenza in Italia, sia negli hotspot sia negli altri centri di permanenza dei migranti, della polizia sudanese, che provvederebbe all’identificazione velocizzando il rimpatrio dei connazionali “irregolari”. Il Memorandum va oltre e prevede la possibilità, se ci fossero condizioni di urgenza, di effettuare il riconoscimento direttamente in Sudan.
“Aiutiamoli a casa loro”
Sull’onda dello slogan “aiutiamoli a casa loro” è in atto una esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea che mette in luce una debolezza politica allarmante. La previsione di hotspot nei Paesi africani ha un triste precedente, «i campi in Libia sotto Gheddafi in quella tremenda stagione partita nel 2004 hanno già dimostrato quali atrocità si possono verificare affidando la gestione delle frontiere esterne a regimi dittatoriali. Si è trattato di un esperimento sulla pelle di migliaia di persone che si basava proprio su un accordo bilaterale con l’Italia il cui contenuto è rimasto sconosciuto. Ma i racconti di quanti sono scampati a quell’inferno sono bastati a far sapere quanto accadeva a poche centinaia di chilometri da noi, con l’avallo dei governi dell’epoca – dice Manconi, che ricorda – le condanne nei confronti dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo sui tanti episodi di respingimenti collettivi rappresentano un precedente fondamentale per ribadire in quale direzione dobbiamo muoverci. Oltre alla considerazione, preliminare a ogni discorso, che niente e nessuno potrà fermare i movimenti migratori: finora muri, filo spinato, motovedette e blocchi navali, non li hanno arrestati né ridotti».
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