Ci sono voluti 70 anni affinché i GAP (sigla
dei Gruppi di Azione Patriottica) trovassero nel saggio di Santo Peli,
intitolato per l’appunto Storie di GAP, la collocazione
storiografica che spetta ad una delle forme di lotta, quella
terroristica, che, insieme con le azioni armate delle bande partigiane
operanti sulle montagne, nelle campagne e nelle pianure, la Resistenza
praticò contro il nazifascismo. In sostanza, ci sono voluti 70 anni
affinché il gappismo passasse dalla dimensione della letteratura (Uomini e no,
scritto da Elio Vittorini nel 1944, fu il primo romanzo del terrorismo
urbano resistenziale) alla dimensione della storiografia e dalla
dimensione della storia locale alla dimensione della storia generale. È
ancor oggi difficile, per ovvie ragioni legate alla clandestinità in cui
si svolse la loro azione, ricostruire in modo preciso e completo la
storia dei GAP. D’altra parte, occorre riconoscere la funzione
determinante che ebbe questa forma di lotta sia rispetto alla dinamica dei conflitti sindacali (scioperi, agitazioni e vertenze) ingaggiati dalla classe operaia nel periodo 1943-1944, sia rispetto alla capacità di controllo dei nodi nevralgici del territorio urbano, politici, militari e amministrativi, da parte delle forze di occupazione naziste e dei loro alleati repubblichini. La durezza delle rappresaglie, avendo come posta in gioco il controllo dei maggiori centri urbani, risultò così direttamente proporzionale all’incidenza della pratica del terrorismo urbano. Non meno rilevanti furono i dilemmi politici ed etici che segnarono tale pratica: basti pensare alla difficile decisione di uccidere a sangue freddo, al problema delle rappresaglie e alla tortura. Tuttavia, è possibile affermare a ragion veduta che senza i GAP la Resistenza italiana avrebbe perso la duplice possibilità di contrastare l’attesismo predicato da alcune componenti della stessa Resistenza e di neutralizzare la “zona grigia”, ossia quella parte ampia della popolazione che non stava con i partigiani e non era ostile ai nazifascisti.
determinante che ebbe questa forma di lotta sia rispetto alla dinamica dei conflitti sindacali (scioperi, agitazioni e vertenze) ingaggiati dalla classe operaia nel periodo 1943-1944, sia rispetto alla capacità di controllo dei nodi nevralgici del territorio urbano, politici, militari e amministrativi, da parte delle forze di occupazione naziste e dei loro alleati repubblichini. La durezza delle rappresaglie, avendo come posta in gioco il controllo dei maggiori centri urbani, risultò così direttamente proporzionale all’incidenza della pratica del terrorismo urbano. Non meno rilevanti furono i dilemmi politici ed etici che segnarono tale pratica: basti pensare alla difficile decisione di uccidere a sangue freddo, al problema delle rappresaglie e alla tortura. Tuttavia, è possibile affermare a ragion veduta che senza i GAP la Resistenza italiana avrebbe perso la duplice possibilità di contrastare l’attesismo predicato da alcune componenti della stessa Resistenza e di neutralizzare la “zona grigia”, ossia quella parte ampia della popolazione che non stava con i partigiani e non era ostile ai nazifascisti.
Di questo e di altro
si è discusso, prendendo spunto dalla presentazione del saggio di Peli,
in un incontro con l’autore organizzato dal Circolo Culturale Proletario
di Genova nella Sala dei Chierici della Biblioteca Civica “Berio” il 23
aprile scorso. Un incontro, va detto, reso altamente significativo,
data la sua ispirazione radicalmente estranea alla
ritualità e alla retorica delle celebrazioni ufficiali, non solo dalla
nutrita partecipazione di un pubblico attento e motivato, ma anche dalla
qualità delle relazioni introduttive e degli interventi svolti da
studiosi, militanti del movimento operaio e protagonisti delle vicende
resistenziali. Relazioni e interventi che, configurandosi come autentici
contributi conoscitivi e fornendo validi spunti di problematizzazione
sia sul piano storiografico sia su quello politico-ideologico, hanno
arricchito e approfondito l’esame di un tema nevralgico della lotta di
liberazione nazionale.
Introducendo
l’incontro con un’ampia e articolata relazione, il prof. Eros Barone,
studioso della storia del marxismo e del movimento operaio, ha innanzitutto
osservato che, stante la scarsità della documentazione esistente su un
fenomeno intrinsecamente clandestino come quello del terrorismo, il
limite inevitabile della ricostruzione operata dall’autore di Storie di GAP
è la commistione tra fonti risalenti all’epoca e fonti retrospettive,
cosicché, per fare un esempio, ai fini della ricostruzione delle vicende
dei GAP risultano utili tanto i rapporti interni sulle loro operazioni
(esecuzioni ed attentati dinamitardi) quanto le testimonianze rese da un
reduce del terrorismo urbano tra anni ’70 ed anni ’90 del secolo
scorso. Bisogna dire allora, ha argomentato Barone, che, se per un verso
il risultato di tale commistione è l’intreccio tra storia e memoria,
tra storia ed autobiografia dei protagonisti, per un altro verso esso
può fornire alla ricostruzione storica uno stimolo euristico grazie alla
capacità di combinare fra di loro nel modo più efficace e insieme
rigoroso tre doti fondamentali dello storico, che, riprendendo una
felice formulazione di Michele Battini, egli ha così riassunto:
immaginazione sociologica, pazienza cartografica e sapienza cronologica.
Se l’immaginazione sociologica è quella risorsa che permette allo
studioso di costruire tipologie adeguate degli eventi esaminati,
differenziando e collegando nel modo corretto tali eventi, se la
sapienza cronologica è quella risorsa che permette di periodizzare nel
modo giusto i processi storici, non vi è dubbio che, assieme alle altre,
la risorsa della pazienza cartografica sia la dote di cui Peli fornisce
la prova nella seconda parte del suo saggio, là dove descrive le
“condizioni esistenziali e materiali” in cui operarono i gappisti,
focalizzando il complesso rapporto città-campagna e la peculiarità della
realtà emiliana, dove il gappismo poté svilupparsi in forme del tutto
diverse da come si sviluppò a Milano, Genova o Torino. Barone ha poi
richiamato l’assioma enunciato da Pietro Secchia - “la costituzione dei
GAP fu voluta e attuata solo dal PCI” -, assioma ritenuto incontestabile
da Peli, il quale, ha sottolineato Barone, individuando le origini del
gappismo nella guerra di Spagna con i volontari delle Brigate
internazionali e nei “Francs-Tireurs et Partizans” della Francia di
Vichy, contribuisce a porre in risalto proprio la “diversità” comunista,
ossia la radice leninista, nella storia della Resistenza. A questo
proposito, Barone, affrontando il problema delle forme di lotta, del
loro rapporto con il movimento di massa e del loro significato nelle
differenti congiunture del conflitto di classe, ha analizzato,
rimarcandone la pregnanza e l’attualità, alcuni passi del fondamentale
articolo di Lenin sulla guerra partigiana, pubblicato nel n. 5 della
rivista “Proletari” il 30 settembre 1906. Dopo aver evocato gli
scottanti problemi delle rappresaglie e, in particolare, della tortura e
dei cedimenti con le conseguenze micidiali che da ciò scaturivano per
la complessa organizzazione dei GAP, il relatore ha ribadito il
carattere leninista della linea politico-militare a cui il PCI si
attenne nel corso della Resistenza armata contro il nazifascismo e ha
concluso affermando che, sostanziata dalle “storie di GAP”, “la storia
dei GAP” rientra organicamente in questa linea e, pur non essendo che un
segmento di essa, la illumina di una luce vivissima.
Santo Peli, che con
encomiabile modestia ha asserito di non voler intervenire sul proprio
libro, ha poi risposto con grande disponibilità dialettica ai rilievi,
alle osservazioni e ai quesiti che gli sono stati posti nei numerosi
interventi che si sono susseguiti sotto l’attenta
supervisione di Silvano Ceccoli, presidente del Circolo Culturale
Proletario. Ha iniziato Nicola Simonelli, autore della biografia di
Giacomo Buranello, comandante dei GAP genovesi a cui il Circolo
Culturale Proletario ha dedicato un convegno di forte impegno storico e
politico-ideologico nel dicembre dell’anno scorso. Simonelli ha
sostenuto che nella costituzione, nello sviluppo e infine nel declino
dei GAP a partire dalla seconda metà del 1944 è leggibile la linea
moderata ed unitaria imposta da Palmiro Togliatti alla parte più
avanzata della Resistenza con la svolta di Salerno e la nascita del
‘partito nuovo’. Assai netta la risposta di Peli, il quale ha chiarito
come i GAP non prefigurassero alcuna strategia alternativa a quella
seguita dal PCI sotto la direzione di Togliatti, di Secchia e di Longo,
essendo semplicemente, insieme con le bande partigiane, uno dei due
strumenti usati dal PCI nella sua azione politico-militare. Sul
carattere magmatico della Resistenza e, a maggior ragione, dei GAP,
nonché sulle difficoltà e sulle incertezze, sulle sofferenze e sui
sacrifici di una organizzazione del terrorismo urbano complessa, ma
talvolta fragile e non sempre impermeabile, ha poi insistito nel suo
intervento, confermando la giustezza della risposta di Peli, un
testimone eccezionale del tema al centro dell’incontro, quale è il prof.
Leonardo Santi, ex gappista e compagno di Giacomo Buranello, nonché
fondatore dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova.
Di particolare rilievo è stato inoltre l’intervento del prof. Antonio
Fontana, docente emerito di Diritto del Lavoro alla Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Genova, il quale si è soffermato, prendendo
le mosse dall’articolo 39 della Costituzione e recando pregevoli
chiarimenti di ordine storico e giuridico, sulla condizione operaia e
sulla lotta dei lavoratori per la libertà sindacale sotto il regime
collaborazionista della R.S.I. È stata poi la volta di Eraldo Bono,
membro del Circolo Culturale Proletario, il quale ha posto all’autore
del saggio storico sui GAP una domanda sulla composizione e sul
reclutamento di questi “soldati senza la divisa”. Domanda che ha
consentito a Peli di accennare alla estrema difficoltà nel reperire e
formare questo tipo di combattenti: difficoltà maggiore tra gli operai
del triangolo industriale, poco avvezzi al maneggio delle armi, che non
tra i contadini della Bassa Padana, dove non a caso si svilupperà, con
il tramonto dei GAP, la figura del sappista, ossia di un militante ‘part
time’, disciplinato lavoratore di giorno e organizzatore partigiano di
sera e di notte, che assumerà un risalto crescente, generalizzandosi
nell’intera Resistenza, con le SAP (sigla delle Squadre di Azione
Patriottica) a mano a mano che la Resistenza assumerà un carattere
tendenzialmente di massa tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945.
Non sono mancati, nel quadro di un incontro segnato da un livello
politico e intellettuale di notevole spessore, taluni interventi di
ispirazione bordighista, in cui lo schematismo infantile ed un approccio
meccanicistico alle questioni teoriche e politiche del movimento
comunista hanno fatto aggio sulla volontà di restare aderenti al tema e
sulla capacità di mantenersi al livello imposto dal dibattito. È così
toccato a Simonelli, di fronte alla denigrazione della Resistenza armata
contro il nazifascismo, implicita in questo tipo di esternazioni,
richiamare il significato imperituro e il valore dirimente della
battaglia di Stalingrado, senza la quale i popoli dell’Europa e del
mondo intero vegeterebbero ancor oggi sotto la bandiera con la svastica
tra indicibili genocidi, uno sfruttamento bestiale della forza-lavoro e
discriminazioni di ogni tipo nei confronti delle più diverse minoranze.
In conclusione, come il Circolo
Culturale Proletario aveva auspicato nel volantino di cui sono state
diffuse migliaia di copie nel Genovesato, la presentazione del libro di
Santo Peli, la contestuale distribuzione delle fotocopie dello scritto
di Luigi Longo su I vendicatori dei GAP, scritto risalente al
1944 e tratto dal giornale comunista “La nostra lotta”, e il dibattito
che, come si è detto all’inizio, ha arricchito e approfondito tale
presentazione sono stati veramente un’occasione preziosa per comprendere
che della complessa e grande esperienza della guerra di Liberazione ai
GAP è toccata la parte più ardua e per molti versi tragica, che merita
di essere studiata con serietà e rispetto per sottrarla all’aura mitica
che la circonda, e ancor più alla ricorrente e volgare
criminalizzazione, nonché, se è concesso fare una postilla di ordine
politico-ideologico che la rinascita del fascismo in Europa, dalla
tormentata Ucraina alla ‘civile’ Scandinavia, pone ormai all’ordine del
giorno, alla derubricazione del terrorismo urbano dalle forme di lotta
che il movimento di classe, in date condizioni, deve saper praticare,
secondo quanto Lenin afferma a chiare lettere nell’articolo citato, sia
sul terreno della difesa sia sul terreno dell’attacco.
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