Le questioni che le elezioni di Trump mettono in evidenza sono due.
Dal punto di vista
della classe dominante è il passaggio di una frazione molto ampia di
essa dall’attuale stablishment rappresentato da Biden a Trump.
Chiaramente è evidenziato dal ruolo di Musk che diventa nei fatti
una sopra di super consigliere, super guida del governo Trump; sono
ampie fette del capitale finanziario, del capitale industriale che
sono passare con Trump, hanno sostenuto e finanziato la sua campagna
elettorale e hanno spostato gli equilibri di fondo di queste
elezioni.
La corda ad
inseguirli dell’attuale amministrazione ha avuto l’effetto di
essere perdente sul piano tattico e ha contribuito a logorare la
presidenza Biden nei confronti del voto “popolare”.
Il secondo elemento,
nel quadro che dobbiamo sempre tenere conto, negli Usa alle elezioni
presidenziali non partecipano e neanche in questa occasione lo hanno
fatto, oltre il 35& degli aventi diritto che unito al voto del
candidato perdente rendono comunque e sempre il presidente eletto una
minoranza della popolazione.
Va tenuto conto che
negli Usa esiste poi un’altra minoranza che vive nel paese ma non
ha diritto di voto.
Quindi, al di là di
tutti gli strombazzamenti, l’America non è una “grande
democrazia” e il sistema elettorale americano è fatto per eleggere
un candidato dei ricchi, che ha nei ricchi la sua base principale.
Giustamente il Sole
24 Ore in un articolo equipara la vittoria di Biden a quella di Modi,
anch’essa propagandata e sostenuta come la “più grande
democrazia nel mondo”. Le similitudini tra Trump e Modi non si
fermano poi qui. Il regime di Modi è un regime fascista Indù che ha
un suo nocciolo duro ideologico nel partito e nel blocco guidato da
questa visione; è legato alla storia antica di questo paese,
adeguata alle forme moderne del dominio politico.
Trump in questa
occasione ha costruito un suo partito, il MAGA, che da uno slogan si
è trasformato in un programma, in un movimento, in una forza
materiale. Mentre il campo del Partito Democratico non aveva nessuna
di queste caratteristiche, anzi era un blocco in sostanziale
disfacimento; un disfacimento non solo elettorale ma in una certa
misura strategico.
Per cui queste
elezioni americane non sono la vittoria di un candidato ma l’inizio
della costituzione di un regime.
Questo è il primo
punto che non è compreso in realtà da nessuno degli analisti. Nella
stampa, quella apertamente della borghesia, il Sole 24 Ore, quella
della sinistra democratico-progressista, il Manifesto, si trovano
attraverso i loro articoli la maggior parte di elementi giusto, sia
nel campo dell’analisi che della denuncia, a cui potremmo attingere
ampiamente. Ma ad entrambi sfugge l’essenziale, che non si tratta
di un “programma elettorale” che ha vinto con tutte le sue
contraddizioni di ogni programma elettorale, ma l’inizio di un
regime; in cui la volontà di edificare un regime fascista-nazista,
moderno adeguato alla storia concreta degli Usa e del mondo sono la
forma concreta della dittatura del capitale nella principale potenza
imperialista.
Ragionare se
all’America e alla sua classe dominante conviene un simile regime,
ragionare se esso è possibile secondo la compatibilità che la crisi
economica mondiale e le contraddizioni inter imperialiste, ragionare
in termini che comunque nulla è cambiato, affermando che si è
passati ad un altro presidente nel quadro della naturale alternanza
storica che caratterizza l’America, è una visione superficiale non
in grado di usare né l’analisi marxista né tantomeno essere da
barometro e indicazione della fase che si apre negli Usa e - per il
ruolo degli Usa nel mondo - che influenzerà gli eventi sia sul piano
immediato, ma ancor più sul piano futuro.
Secondo elemento.
L’elezione di Trump dovrebbe servire, ma non servirà, a togliere
ogni fondatezza alla visione dei proletari e delle masse di una
corrispondenza meccanica tra condizioni di vita, loro interessi
immediati e, in una certa misura, loro lotte e il voto.
Tutti sono in grado
di dire che il programma di Trump non corrisponde pressochè a nessun
interesse economico degli operai, dei proletari, delle masse popolari
e in parte del cosiddetto ceto medio, mezze classi, in realtà
settori della piccola borghesia e parzialmente dei settori più
deboli perfino della media borghesia.
Si possono riempire
pagine nel dire: ma come è possibile che il super ricco candidato
alle elezioni e il super candidato dei ricchi sia stato votato da
settori di operai, oltre i cosiddetti “operai bianchi”, vale a
dire la grande aristocrazia operaia che esiste eccome nel paese
imperialista più grande e più ricco nel mondo -per non dire quello
che è avvenuto tra gli afro americani, latino americani, delle
comunità asiatiche dove Trump ha guadagnato voti mentre la Harris li
ha persi.
Questa domanda è
retorica e non fa i conti con la storia che è quella dell’ascesa
del fascismo, del nazismo e di tutte le forme di dittatura aperta del
capitale e/o della classe dominante dei paesi imperialisti,
capitalisti, nei paesi a capitalismo burocratico, ecc.
E’ possibile
perché la politica non segue docilmente l’economia e meno che
mai nella dinamica sociale vi è una corrispondenza meccanica tra
condizioni materiali e ideologia, cultura, politica.
E’ possibile
perché esiste una differenza tra interessi economici e coscienza di
classe; tra lotta economica e lotta politica, che si riflette anche
nelle forme deformate delle elezioni -che comunque sono sempre, come
dice Marx, la scelta tra quali dei candidati risponde di più agli
interessi generali della classe dominante, della borghesia, dei
padroni, per cui sempre sostanzialmente il popolo è chiamato a
votare e a muoversi all’interno di questa “scelta”.
Vediamo ad esempio
l’articolo sul Manifesto fatto da Bruno Cartosio, osservatore,
analista della realtà americana da sempre e che segue con attenzione
alla classe operaia, ai lavoratori, il quale si chiede innanzitutto
come è possibile che proprio quando recentemente i lavoratori, una
parte dei sindacati, in particolare nel 2022 ma con prosecuzione
parziale anche nei due anni che sono seguiti, hanno dato vita a
scioperi eccezionali per durata, popolarità e perfino conquiste, poi
però Trump ha vintoo anche con il voto di una parte dei lavoratori.
Primo i lavoratori
sindacalizzati in America sono una minoranza; secondo, una crescita
della sindacalizzazione è avvenuta principalmente nei settori in
lotta, ma l’universo della classe dei lavoratori è molto più
ampio; e chiaramente ampie parti di questi lavoratori non sono
inseribili nel clichè di “operai bianchi”. Questo per fare tara
di quello che può essere affermato. Ma la sostanza è sempre
quella: la lotta sindacale, anche quella combattiva e
classista, non si traduce spontaneamente in coscienza politica sia
nelle forme strategiche necessarie alla lotta per la rivoluzione
proletaria, sia nelle forme parziali e in parte deformate della lotta
politica elettorale. Anzi, la lotta economica anche combattiva
contiene sempre un elemento di interesse parziale che viene posto al
di sopra di tutto, che oltre che essere tradunionista e riformista,
contiene anche un elemento di disinteresse generale verso le
questioni generali che è facilmente indirizzabile in direzione
della ideologia politica della classe dominante e, ancor più in fase
di crisi, non certo solo economica, verso la demagogia reazionaria.
Quindi, da un lato
occorre togliere l’illusione sulla cosiddetta “fragilità” del
programma di Trump e della sua difficoltà di realizzarlo. La marcia
di Trump, ripetiamo, è verso un regime e la lotta contro esso deve
essere adeguata a lottare contro un regime.
E’ chiaro che
tutte le misure di Trump creeranno un’opposizione, ed è chiaro che
Trump ha intenzione di agire contro tutte queste opposizioni in
maniera preventiva e mettendo mano alla violenza di Stato e alla
violenza globale di sistema contro di esse, usando ampiamente la
nuova base di massa e la nuova “organizzazione” che si è andata
compattando e strutturando durante la campagna elettorale sulla base
però di una forza di consenso già acquisita nella precedente
campagna elettorale persa, quella sì per pochi voti: oltre 70
milioni di persone avevano votato per Trump anche nelle elezioni
perse nel 2020 - teniamo conto che a dirla tutta, non è che sia
aumentato il cosiddetto “voto popolare” a Trump; anzi secondo le
cifre sarebbe anch’esso diminuito, ma chiaramente il voto alla
Harris ha visto una vera e propria debacle.
Sulle implicazioni
internazionali della vittoria di Trump. L’imperialismo americano è
un imperialismo in declino. Esiste un assetto multipolare articolato
che ha cambiato la situazione mondiale: l’indebolimento strategico
della Russia; l’ascesa della Cina come potenza imperialista, la
continuità del divario tra la forza economica dei paesi imperialisti
europei e nel continente asiatico del Giappone e potenza militare; i
cambiamenti nei paesi oppressi dall’imperialismo con la crescita di
alcuni di essi come predominantemente capitalisti; l’emergere di
potenze in nuce come l’India, di potenze regionali in ogni area del
mondo; la questione dei Brics, e così via.
Sono tutti un quadro
di un assetto multipolare. Ma multipolare non significa che vi siano
già ora le condizioni che riducano il ruolo predominante degli Usa.
Questo multilatelarismo in progress incide nella tendenza alla
guerra imperialista mondiale e il suo cammino tortuoso di essa.
Su questo, la scelta
di una frazione determinante di una classe dominante USA di puntare
sulla presidenza Trump nel quadro degli interessi generali
dell’imperialismo Usa è obiettivamente innanzitutto originata dai
mancati risultati della presidenza Biden e dal voler giocare una
carta che possa, nel caos della crisi e tendenza alla guerra, a
difendere meglio gli interessi immediati e futuri dell’imperialismo
USA
Tutte le strutture
mondiali che contengono le contraddizioni mondiali dell’imperialismo
sono in crisi, e quindi, ogni imperialismo pensa innanzitutto a fare
in proprio, a difendersi e espandersiin proprio. E l’imperialismo
americano prima di tutti, e la presidenza americana più di tutti.
Ma “fare l’America
più grande” significa inevitabilmente fare gli altri paesi “più
piccoli”; e quindi acuire le contraddizioni dell’imperialismo, e
spingere tutti gli imperialismi a fare lo stesso. C’è comunque tra
di essi, a geometria variabile, una continua collusione e contesa;
collusione anche tra Usa e Russia, collusione tra Russia e Cina;
collusione tra gli Usa e l’Europa, ma come aspetto obiettivamente
secondario e mentre l’aspetto principale che è contesa, Tutti sono
dentro la “tempesta perfetta” che origina e richiede una nuova
ripartizione del mondo frutto di una nuova guerra imperialista.
L’isolazionismo
americano di cui è espressione – secondo gli analisti – la
presidenza Trump, da un lato è un tentativo dirispondere alle
esigenze strategiche dell’imperialismo americano, dall’altro è
espressione del primato attuale negli USA della politica interna
sulla politica estera. Questa continuerà suo malgrado in
combinazione con alcune rotture/cambiamenti che acuiranno tutte le
contraddizioni. In Ucraina un accordo con la Russia per la
spartizione dell’Ucraina e la nuova neutralizzazione di essa, per
quanto possano trovare accordi Trump e Putin, non cambia la
situazione sugli interessi dell’imperialismo Usa, sugli interessi
delle potenze imperialiste europee e sugli effetti sulla situazione
generale in Ucraina e in tutti i paesi contigui; un accordo con la
Russia sarebbe in chiave comunque anti europea e anti Cina e quindi
acuirebbe le contraddizioni, non sarebbe un fattore di pace ma un
fattore di guerra.
In Medio Oriente
lasciare che Israele continui il suo lavoro, vuol dire estensione
della guerra, acutizzazione della contraddizione Israele e tutto il
mondo Arabo, con effetti devastanti nell’area sia dal punto di
vista delle classi dirigenti sia, come ci auguriamo noi, dal punto di
vista delle masse.