Per circa 4 miliardi
di euro la Tata Motors acquista l’Iveco di proprietà degli Agnelli/Elkann, dopo
che da questa è stata scorporata la divisione militare che è stata acquistata
dalla Leonardo. La conferma è arrivata dal via libera della Commissione europea
che “non solleva questioni rilevanti su temi legati alla concorrenza sul mercato
e all’Antitrust…”, ma lo stesso articolo del Sole 24 ore di oggi tiene a
sottolineare che secondo la Bain&Company, scoprendo l’acqua calda, si tratta
“di una operazione di scopo”, fatta per
avere accesso a nuovi mercati e nuove competenze”, in contrapposizione di
fatto alle dichiarazioni del ministro Urso che ha parlato di “una operazione
dal carattere prevalentemente industriale”, sottintendendo che non stanno
cedendo la tecnologia più avanzata come “i sistemi di diagnosi predittiva e di
guida autonoma”.
La posizione di
Urso esprime l’ennesima genuflessione nei confronti dei padroni, in questo caso
gli Agnelli/Elkann, e quanto questa dichiarazione sia una scusa ce lo dice l’arrabbiatura
di un articolo nella stessa pagina del Sole24Ore che parla di “ferita simbolica”
che “apre incognite concrete”.
Dal punto di vista della Confindustria quindi si tratta di una operazione che non si doveva fare e non naturalmente perché si mette in pericolo il posto di lavoro degli operai che in Italia sono circa 14.000
(senza contare tutti quelli dell’indotto!) e nel mondo circa 36.000, ma perché “… nel silenzio assordante di troppi … un altro pezzo dell’industria italiana se ne va”!L “incognita” di
cui parla l’articolo riguarda lo “sviluppo
futuro del nostro tessuto produttivo”, perché i centri di comando vengono
portati in India, cosa che viene sottovalutata “dalle nostre (non)
avvedutissime classi ‘dirigenti’”, e l’esempio della Iveco viene utilizzato per
denunciare il disinteresse della “classe politica” e perfino del “ceto
sindacale” per la storia stessa della Iveco che è “da quarant’anni un’azienda
solida nella sua fisiologia industriale e commerciale.” Ma il punto vero,
continua l’articolo, “è che Iveco, da
almeno dieci anni, è piccola.” Ed è piccola non per destino, ma perché “la
sua vecchia controllante Exor, da almeno
vent’anni, ha una strategia di portafoglio basata sulla riduzione del peso
dell’automotive. Quindi, quanto è
successo in questi mesi è coerente con la traiettoria di lungo periodo degli
Agnelli.” E infatti, già “negli
anni Novanta, gli Agnelli hanno rinunciato al ciclo di investimenti nelle
automobili”!
“Abbiamo già assistito – continua sconsolato l’articolo - alla
spoliazione dall’interno di Magneti Marelli, azzerata dal fondo Calsonic di
proprietà di KKR. Nel caso di Magneti Marelli – appunto ceduta dalla Fca degli
Agnelli nel 2018 per 6,2 miliardi di euro – il fallimento è stato gestionale e
industriale. E, di fatto, ha ridotto la
capacità manifatturiera e innovativa del sistema italiano nella complessa
transizione energetica verso il mondo dell’ibrido e dell’elettrico.”
E nell’elenco dei “pericoli” c’è che “nella nuova economia
internazionale in cui l’identità nazionale determina le strategie aziendali,
aumenta la probabilità che, in caso di
riduzione dei costi manifatturieri consolidati, la lontana Italia venga
sacrificata all’India: negli stabilimenti, nell’occupazione, nella ricerca”.
L’altro pericolo è quello che riguarda la “… rete di fornitura
italiana … Perché, appunto, Tata Motors ha la sua rete di componentisti
indiani, che oggi hanno un livello discreto di qualità e costi industriali ancora ben inferiori a quelli europei.” Non è
una novità, dice il giornalista, perché è già successo con Stellantis che ha
sostituito i fornitori italiani con quelli spagnoli, marocchini… e capiterà di
nuovo perché i costi dei fornitori italiani “verranno comparati a quelli dei
loro colleghi (e concorrenti) indiani”. “Il rischio” conclude il quotidiano dei
padroni, “è che – nei prossimi anni – si alzino le grida (di dolore) di tutti.”
Questa ennesima operazione mette in risalto la tendenza di
lunga durata del passaggio sempre più marcato, in questo caso degli Agnelli/Elkann,
dagli investimenti nell’industria agli investimenti nella finanza dei miliardi
di profitti fatti sulla pelle degli operai. È chiaro che si tratta di un
passaggio lento, ma nel frattempo Stellantis continua a sfruttare migliaia di operai
in tutti gli stabilimenti in Italia e nel mondo, dal Brasile al Marocco, dalla
Serbia (perfino con l’utilizzo di operai nepalesi) all’Argentina...
In questo senso “le grida” che si sentiranno non saranno “di
tutti”, ma delle operaie e degli operai, dall’Italia alla Francia… che dovranno
lottare per non perdere il posto di lavoro, per non sottostare alla cassa
integrazione infinita, per evitare la “guerra tra poveri” tra operai e operai, per
l’aumento dei salari sempre più bassi e condizioni di lavoro sempre peggiori.

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