
Sembrerebbe
una notizia come le altre, alle quali siamo ormai abituati, se non
fosse che confrontando la dinamica salariale dell’OCSE stessa nella fase
precedente, cioè dal 1990 al 2020, troviamo sempre l’Italia come
fanalino di coda nelle dinamiche salariali all’interno dei Paesi UE
(vedi grafico). In sostanza, in termini di salari reali siamo
stabilmente piantati nella posizione di ultimo Paese dell’UE
Così, se i dati salariali riportano la situazione catastrofica ben
fotografata dall’OCSE, i dati sulla crescita occupazionale, come
riportato da molti economisti, risultano ampiamente gonfiati
statisticamente dall’allungamento dell’età pensionabile e
dall’ampliamento della categoria di “occupati”. Quelli sul PIL invece
sono ormai tristemente noti. Dietro a questi dati però occorrerebbe
chiedersi quali politiche industriali sono state perseguite come Paese? E
qui ci viene in aiuto l’ultimo documento di programmazione sulle
politiche industriali proposto dal CNEL (https://static.cnel.it/documenti/2025/4f3de7d5-6733-4b65-95d5-5da876a6613f/OOPP%2026feb2025%20Made%20in%20Italy%20e%20politiche%20industriali.pdf). Si
trova una grande attenzione e preoccupazione per l’incremento dei costi
energetici, per l’aggravio dei costi per famiglie e imprese e sulla
conseguente perdita di competitività delle imprese, senza però nessun
riguardo e critica per la politica internazionale che ci ha portato in
tali condizioni. Una buona politica industriale però necessiterebbe di
visione geopolitica strategica e politica energetica oggi totalmente
assenti. Parallelamente si elaborano risposte cercando di arginare
questa situazione con incentivi e transizione all’economia verde e
digitale, secondo i dettami dell’UE, ma manca totalmente un’analisi
d’impatto sull’occupazione e la domanda interna come spinta e stimolo al
consumo e al PIL.
Come se non fossero anch’essi aspetti
centrali di una politica pubblica industriale. In sostanza si continua a
ragionare in un’ottica neoliberista e mercantilista, votata alla
produzione per l’esportazione, in cui l’offerta crea la propria domanda e
quindi l’unica politica pubblica pensata resta quella che agisce
sull’aggiustamento produttivo, senza azioni rilevanti di spesa pubblica
per le infrastrutture, sul reddito, sui salari stretti nella morsa
inflazionistica e sull’occupazione. E allora si elaborano proposte fatte
di incentivi alla produzione, alla transizione energetica e alla
formazione, centrate sull’offerta, ma non si elaborano sbocchi relativi
al cosiddetto “sistema Paese” che resta invece avvitato in un circolo
vizioso di lavoro povero (1 lavoratore su 10 è in condizioni di povertà
pur lavorando) in cui 6,2 milioni di lavoratori su 24 faticano a
fronteggiare le spese minime e in cui persino la Caritas ha rilevato nel
suo ultimo rapporto come un assistito su quattro sia un lavoratore a
tutti gli effetti. Siamo quindi in un contesto deteriorato, in cui non
si riesce più a combattere la povertà sviluppando occupazione -
flessibile, secondo i mantra liberisti, quindi precaria e
part-time - ma in cui la scarsa qualità e quantità del lavoro e il basso
livello di valore aggiunto determinano un impoverimento preoccupante
del mercato difficile da risollevare senza un ampio intervento di
politiche pubbliche. Queste dovranno prima o poi partire dal presupposto
che la distruzione della domanda interna avvenuta nell’ultimo
quarantennio è stata una delle cause ad aver affossato l’industria
nazionale, incapace di reggere alla competizione internazionale e a cui è
stato tolto il polmone dei consumi nazionali, con la complicità anche
di una dirigenza sindacale troppo spesso sottomessa alle politiche
neoliberiste e mercantiliste.
Nessun commento:
Posta un commento