Il posto nella storia di Giacomo Bruni, - Arturo - morto lunedì a 94 anni, autista del camion Fiat che trasportò i cadaveri di Benito Mussolini e Claretta Petacci dal Comasco a Milano, in piazzale Loreto, dove furono esposti e dileggiati dal popolo che, con gli sputi sui morti, chiudeva «ufficialmente» nella violenza la tragica stagione del fascismo.
Figlio di una coppia di contadini dai quali aveva ereditato appezzamenti e mestiere, «Arturo» già nel maggio 1945 stava nei campi. Alle quattro della notte del 29 aprile era entrato a Milano su quel camion, smagrito dopo tre giorni passati mangiando unicamente un pezzetto di formaggio e un tozzo di pane; lasciati i corpi si era trascinato per riposare nelle scuole di viale Romagna; due settimane più
tardi aveva preso la strada di casa; raggiunto da un emissario degli Alleati che volevano premiarlo per l’operazione riuscita, l’aveva mandato, bonariamente ma non troppo, a quel paese. A Pavia l’attendeva un maialino in dono: bisognava solo organizzare il viaggio per ritirarlo. «Arturo» disse no grazie, non aveva più voglia di fare chilometri.
tardi aveva preso la strada di casa; raggiunto da un emissario degli Alleati che volevano premiarlo per l’operazione riuscita, l’aveva mandato, bonariamente ma non troppo, a quel paese. A Pavia l’attendeva un maialino in dono: bisognava solo organizzare il viaggio per ritirarlo. «Arturo» disse no grazie, non aveva più voglia di fare chilometri.
Bruni era un’autorità anche se, schivo e introverso, un po’ diffidente verso il prossimo come lo è la gente del posto — diffidente ma subito capace, se convinta delle qualità dell’interlocutore, di diventare generosa e ospitale — di certo non ha mai cercato di vivere di rendita. A lungo i partiti politici, che via via rivendicarono ognuno la primogenitura della Resistenza, provarono ad arruolarlo convinti che fosse una figura assai spendibile e «vincente». Si mossero anche gli stessi leader in persona. «Arturo» di nuovo disse no grazie. Non ci fu verso, per lui quel periodo com’era cominciato era terminato. Era cominciato per la verità all’avventura. Non aderendo alla Repubblica di Salò, imbracciando il fucile (un fucile da caccia, che altre armi non ce n’erano), dandosi alla clandestinità. Bruni fu stanato e arrestato dai tedeschi, riuscì a fuggire, aderì a una prima banda improvvisata e disperata di partigiani, evitò i rastrellamenti dei nemici stranieri che nell’Oltrepò uccisero, stuprarono e incendiarono, ma intanto gli angloamericani avevano raggiunto il Nord Italia. Bruni entrò nella Pavia liberata e seguì il «flusso» verso Milano dove il comandante della Brigata Crespi lo scelse insieme a un gruppo di compagni, come «Arturo» ebbe modo di ricordare, per «una delicata missione». Gli presentarono Walter Audisio e mossero verso il Comasco. Raggiunsero Dongo, teatro dell’esecuzione dei gerarchi fascisti. Dopodiché «arrivammo al bivio di Azzano e venne l’auto con Audisio, che portava i cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci. Caricammo le salme sul camion....».
..In piazzale Loreto «tantissimo era l’odio degli italiani contro di lui. Una vecchietta voleva strappargli gli occhi, la spingemmo indietro e prese del terriccio che lanciò sui cadaveri».
Ancora una decina d’anni fa i nostalgici fascisti telefonavano a casa di «Arturo». Minacce di morte, la promessa che l’avrebbe pagata. Bruni avrebbe potuto «marciarci» e invece tirò dritto,
Nessun commento:
Posta un commento