La prima parte è stata pubblicata ieri martedì 12/8:
https://tarantocontro.blogspot.com/2025/08/ilva-la-2-tempesta-perfetta-dalla.html
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II PARTE
I due giorni di blocchi e rivolta del 26/27 luglio.
La rivolta, pur mantenendo l’ambiguità dei contenuti e “infiltrazioni”
nella sua organizzazione, questa volta è molto sentita da parte della
massa operaia e mostra di fatto la forza e il peso degli operai
dell’Ilva che hanno o che potrebbero avere molto di più se guidati da
una linea di classe.
Gli operai che poi faranno il ‘Comitato liberi e
pensanti’, tendono, invece, a giudicare questa rivolta alla stessa
stregua del 30 marzo. Ma questo è vero solo in parte. C’è sicuramente il
tentativo dei capi di orientare la rivolta in senso aziendalista ma, a
differenza del 30 marzo, gli operai non vi partecipano solo perchè
ricattati dall’azienda, ma perchè sinceramente preoccupati.
Il
secondo giorno già emerge la posizione di questi operai del futuro
Comitato – in particolare di Massimo Battista e Aldo Ranieri - che poi
si radicalizzerà, che punta a fermare i blocchi in nome del “rispetto
della città”...
Si arriva al 2 agosto. La manifestazione
indetta dai sindacati confederali è fatta per mettere fine alla rivolta e
sovrapporvi il cappello delle segreterie sindacali nazionali sia dei
metalmeccanici che di cisl, uil, cgil.
La posizione dello Slai cobas è
che la rivolta deve continuare su giuste parole d’ordini, e
l’indicazione che porta alla fabbrica è di non partecipare alla
manifestazione-passeggiata dei sindacati confederali. Per questo la
contestazione ai dirigenti sindacali è vista dallo Slai cobas come
fatto secondario.
Il 2 agosto vi è la novità del ‘Comitato liberi e
pensanti’. Dietro l’Apecar si coalizzano un centinaio di operai, alcuni
di questi sono lì non come operai Ilva che partecipano allo sciopero ma
come ultrà che seguono la loro fazione e agiscono come “apparato
militante”. La conquista del palco con l’irruzione in piazza dell’Apecar
è un’azione spettacolare che ottiene il consenso di un largo settore di
operai critici verso il sindacato e dell’area mista degli ambientalisti
che finalmente ha trovato una base sociale che prima non aveva.
Da
questa mistura nasce il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e
Pensanti che ottiene molto rapidamente un consenso diffuso in città,
militante, quasi da crociata. Le assemblee popolari che si tengono
diventano un momento generale di denuncia, in cui i familiari denunciano
le morti di genitori, figli, parenti. Questo tipo di interventi viene
teorizzato quasi come requisito: chi interviene a queste assemblee è
tenuto a dire di essere cittadino di Taranto, di aver avuto i propri
lutti a causa dell’Ilva, altrimenti è messo in discussione il diritto a
prendere la parola.
Ma questo movimento assume anche connotati
ambigui perché all’interno di una battaglia giusta agita temi di destra.
La stessa contestazione delle segreterie sindacali avviene al grido: “i
sindacati sono la
I compagni dello Slai cobas si trovano a doversi scontrare anche fisicamente con settori di ultrà perché portano le bandiere, perché sostengono che l’Ilva non deve chiudere ma che è la forza di lotta degli operai che deve imporre la vera messa a norma; e perché la loro stessa presenza in forma organizzata e non da “singoli cittadini” non è accettata.
Gli operai del Comitato, col discorso: ‘noi siamo soprattutto cittadini’, disertano la lotta in fabbrica in un momento difficile e importante per gli operai Ilva. Ma se si toglie alla fabbrica la sua avanguardia che dovrebbe trasformare la lotta degli operai, non si sta affermando l’autonomia operaia ma la si sta negando, perchè autonomia vuol dire cambiare lo stato di cose esistenti, in cui, in fabbrica, un elemento importante è la costruzione del sindacato di classe. Dire, come fa il Comitato liberi e pensanti: “La morte non guarda al 730”, vuol dire chiamare in campo soprattutto quella parte della città, ceto medio, che considera comunque la città il bene da tutelare contro la fabbrica.
Il Comitato diventa anche un fenomeno massicciamente presente sui mass-media, il cittadino che dice che abita a Tamburi e gli è morto il figlio “tira molto”. Questa situazione “droga” per così dire la vicenda di Taranto e i fatti, pur veri, vengono mostrati con una lente che li distorce. Taranto appare ad un tratto come una città di morti, dove tutti o sono morti, o stanno per morire, o sono ammalati; la fabbrica in sé è vista come un mostro che sta perpetrando un genocidio, e gli operai in seno a questa fabbrica sono dei complici di questo genocidio.
Ad un certo punto sembra quasi che i capi dell’Ilva e i ‘liberi e pensanti’ siano due facce opposte ma della stessa medaglia: da una parte l’allarmismo e il ricatto del lavoro che fa leva sulla paura degli operai di perdere il posto di lavoro, dall’altro l’allarme su ambiente e sulla salute che fa leva anch’essa sulla paura e sulla emotività della popolazione; esse hanno in comune l’allarmismo e il cavalcare la paura gli uni degli operai, gli altri degli abitanti.
Lo Slai cobas pone la fabbrica come il campo centrale su cui fare la battaglia per l’organizzazione di classe degli operai e per il ruolo d’avanguardia degli operai verso la popolazione di Taranto; denuncia ogni posizione che nega questo come posizione antioperaia che vuole impedire che gli operai facciano pesare il loro interesse di classe in questa “guerra”.
Questo si scontra con la posizione del Comitato Liberi e pensanti che va in fabbrica a dire “stracciate le tessere sindacali” e basta, senza porre prospettiva di organizzazione autonoma per il sindacato di classe; che dice “l’Ilva chiuda o non chiuda, il problema è lottare per la garanzia del reddito” - una posizione che affossa lo scontro necessario tra operai e azienda e mette gli operai, in maniera illusoria e sbagliata, alla mercè dello Stato “che dovrebbe assisterli”.
Questo rende difficilissima la situazione, perché attenua il contrasto in seno alla fabbrica tra operai e padron Riva e capi, mentre alimenta fortissimo quello tra città e operai. Il Comitato arriva dire “attaccheremo la fabbrica, se gli operai bloccano la città noi spazzeremo via i blocchi perché danneggiano i cittadini”.
Accanto a questi aspetti negativi portati dal Comitato ci sono anche aspetti positivi: si tratta di una ribellione verso i sindacati confederali, i partiti politici e il ruolo effettivo, contro Riva assassino, (parola d’ordine lanciata da noi). Ma le parole d’ordine che la Rete per la sicurezza sui posti di lavoro aveva lanciato nella manifestazione del 18 aprile 2009 vengono stravolte. Non esistono più i morti sul lavoro, esistono solo i morti sul territorio; la fabbrica è immodificabile, e nell’immaginario diventa in sé come qualcosa da radere al suolo. Si parla di “economia alternativa”, per esempio si parla del fotovoltaico. Ma a Lecce, a Foggia c’è l’opposizione della gente al fotovoltaico, la desertificazione di intere zone, lo schiavismo degli immigrati che ci lavorano.
E’ una favola che a Taranto, quando l’economia era di “cozze e calamari”, si stava bene. Questa è una favola nera. L’allora Italsider a Taranto fu la risposta ad una rivolta di tanti lavoratori che avevano perso il lavoro, della popolazione che stava alla fame, una rivolta che durò giorni, in cui ci furono due morti; e furono il Pci e la Cgil, che chiesero un’industria ad alta occupazione, e questa grande fabbrica poteva essere o automobilistica o siderurgica.
E’ necessaria un’operazione verità che si trasformi in un’operazione di unità tra operai e masse popolari.
La “tempesta perfetta”. Tutti gli attori con le loro tattiche portano a una “tempesta perfetta”.
Da un lato si sbandiera una fine nota: si può arrivare alla cancellazione della più grande fabbrica del nostro paese, del principale centro siderurgico d’Europa, della più grande concentrazione di operai, in nome di una ecocompatibilità assoluta, in cui l’acciaio non serve più, è obsoleto, in cui il problema non è il lavoro ma il reddito, trasformando cosi quasi 15mila operai tra Ilva e indotto in assistiti, cassintegrati senza sbocco, in una realtà in cui ci sono già centomila disoccupati, servizi sociali disastrati ecc.; prospettando un futuro come Pittsburgh, dove al posto delle acciaierie ora ci sono Walmart e l’Hi-Tech, catene di supermercati, mega università, ma sono spariti gli operai; o come Lecce, dove grazie alle “notti della Taranta” e al “barocco” si sviluppa certo un’economia del turismo, ma guarda caso il tasso dei tumori è altrettanto alto, se non di più, come a Taranto; ecc.
In questo periodo, sia a livello locale che nazionale, si sviluppa una fiera di “idee alternative”, di “soluzioni” sul dopo e senza Ilva, che di fatto vede ormai come partita chiusa il necessario scontro, ancora da portare avanti, tra operai e azienda, governo e Stato.
Dall’altro lato sul fronte Ilva, c’è una reazione operaia, prima aziendalista, poi di difesa dei posti di lavoro, con una dinamica che cambia di giorno in giorno. Bisogna dire, però, che tra gli operai dal 30 marzo la situazione è cambiata. Nei mesi successivi e in questi ultimi due anni, la maggioranza degli operai non è con Riva, e considera nemici il governo, Stato, padroni.
Gli operai del Mof, dopo l’assassinio di Claudio Marsella, scioperano e fanno il presidio/tenda giorno e notte davanti alla fabbrica per 15 giorni, una cosa mai vista prima.
Migliaia di operai il 27 novembre invadono in massa la fabbrica e successivamente occupano per un giorno la sala del consiglio. Si fanno più volte presidi alla Direzione e alle portinerie, spesso dei cassintegrati, e in alcuni casi molto combattivi, ecc. In tutto questo vi è una permanente contestazione dei sindacati confederali.
Ciò che manca è però ancora una direzione sindacale di classe di massa e la comprensione da parte degli operai più combattivi della necessità della costruzione del sindacato di classe come arma per far essere effettivamente gli operai dell’Ilva, non “fantasmi” ma protagonisti centrali della guerra di classe.
L’Ilva di Taranto e’ stata gia’ al centro della questione sicurezza e salute con l’azione della Rete nazionale per la sicurezza e la salute
Il 18 aprile 2009 la Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro realizza a Taranto una manifestazione, promossa dallo Slai cobas, insieme a tante altre realtà operaie e popolari di altre città. Questa manifestazione rappresentativa, numericamente anche significativa (fino a 5000 persone) già pose tutte le questioni che sono al centro di questa grande fabbrica che già allora, dopo la strage delle Thyssenkrupp, lo Slai cobas indicava nei suoi volantini e materiali, come battaglia esemplare da fare in questo paese sul fronte della sicurezza e della salute, una sorta di concentrato della condizione operaia e popolare che si era determinata negli anni per effetto del dominio del capitale, del ruolo dei sindacati confederali e l’assenza politica e sociale dei partiti che avrebbero dovuto rappresentare le istanze dei lavoratori.
Quella manifestazione ha anticipato gli eventi sopraggiunti dopo. Era stato tracciato bene il percorso. Si era partiti dalla fabbrica, dal luogo da cui ha origine la questione Ilva, la fabbrica in cui erano morti fino al 2009 45 operai nell’arco della gestione Riva, nell’ambito di una tragedia che dura da quando la fabbrica è nata e che ha visto ben 316 operai morti - una concentrazione di morti sul lavoro in una sola azienda che ne faceva la “fabbrica della morte”. Il tutto in un contesto, che già era conosciuto e che in quegli anni emergeva drammaticamente, di devastazione ambientale, riflesso della mancata sicurezza e rispetto della salute dei lavoratori in fabbrica, che si riverberava sulla città sotto forma di inosservanza delle norme riguardanti le diverse sostanze nocive riversate sul territorio, compresa la questione davvero devastante delle polveri di minerali per la presenza dei parchi minerari dell’Ilva (che corrispondono in estensione a 70 campi di calcio) che producono nei quartieri contigui allo stabilimento e soprattutto in quello più vicino, Tamburi, da cui partì la manifestazione del 18 aprile, un elevato tasso di tumori che colpiscono in maniera particolare i bambini.
Risultò ben evidente a tutti quelli che parteciparono a quella manifestazione che, nonostante il corteo partisse da questo quartiere dove più si concentra l’inquinamento, la popolazione dei Tamburi partecipò pochissimo: guardava dalle finestre e non più di una cinquantina di loro partecipò effettivamente, alla spicciolata, non organizzati da nessuno. A loro, in qualche modo apparse come una manifestazione troppo dall’alto, non risolutiva di un problema a cui guardavano in prevalenza con un sostanziale fatalismo sull’impossibilità di affrontarlo e risolverlo con gli strumenti della lotta.
A quella manifestazione oltre ai familiari di operai morti all’Ilva, parteciparono più di un centinaio di giovani operai dell’Ilva che proprio in quel periodo, in contraddizione coi sindacati confederali, e soprattutto contro la cassintegrazione, avevano dato vita a un Comitato Lavoratori Ilva in Lotta, capeggiato da alcuni degli operai che oggi guidano il movimento dell’Apecar, raccogliendo un buon numero di operai, prevalentemente di provenienza Fiom.
Che cosa succede dopo quella manifestazione, spiega oggi forse meglio di ogni altra cosa come si sia giunti alla situazione attuale in questa fabbrica. Avviene lo sfaldamento di quel gruppo di giovani operai. Questa area di un centinaio di operai sparisce completamente nel giro di qualche settimana. Alcuni operai che erano alla testa di questa aggregazione, tutti delegati Fiom, ridanno fiducia alla Fiom quale strumento che gli avrebbe permesso, con il ricambio del sindacato, di fargli gestire la situazione; altri si candidano nelle liste di Rifondazione, tra cui Battista, oggi a capo del Comitato liberi e pensanti, già mobbizzato in un reparto fuori dall’Ilva su consenso segreteria Fiom; altri ancora, avendo una visione eccessivamente lineare del processo che avrebbe potuto portare alla mobilitazione della fabbrica, si sfiduciano, tra cui Ranieri, oggi portavoce del Comitato Liberi e Pensanti, il quale meno incline a compromessi degli altri per un lungo periodo molla, perché non ha abbastanza fiducia né nel sindacato ma neanche nei suoi compagni di lavoro.
Molti di quegli operai mantengono verso la Rete un atteggiamento di simpatia e attenzione anche verso l’organizzazione sindacale che a livello locale ne rappresenta la struttura portante, lo Slai cobas per il sindacato di classe, dicono: “aspettiamo le prossime elezioni RSU e poi, grazie alla presenza nelle nuove RSU, potremo fare di più in fabbrica”.
Questa situazione ha impedito già allora la ricostruzione di una struttura sindacale di classe all’interno della fabbrica, che poteva essere oggi lo strumento centrale nella battaglia in corso.
In ogni modo quella manifestazione raggiunge un risultato insperato dal punto di vista materiale: da allora a fine 2012 (quando è morto Claudio Marsella e dopo Francesco Zaccaria) non era più morto nessun operaio in Ilva. Certo su questo ha parzialmente pesato anche la crisi e la conseguente Cigs, benchè sostanzialmente l’Ilva abbia tenuto sia in termini di occupazione che di livelli produttivi, ma la pressione esercitata dal fatto che la sicurezza in Ilva era stata posta come questione nazionale fece sì che effettivamente la situazione in Ilva migliorasse.
Lo Slai cobas poi ottiene anche delle vittorie sul terreno giudiziario. In uno dei processi intentati dallo Slai cobas Riva è condannato a 4 anni e 8 mesi per “truffa ed estorsione”, una condanna che, se fosse divenuta definitiva, l’avrebbe portato in carcere, sempre alla maniera in cui i padroni vivono il carcere in questo paese..., già alcuni anni fa, portando già allora un colpo pesante all’Ilva e a padron Riva.
Per di più guadagna terreno, in quel periodo, anche in settori della magistratura, la proposta, fatta dallo Slai cobas, e sostenuta chiaramente dalla Rete, di creare una postazione stabile interna alla fabbrica dell’Ispettorato del Lavoro, della ASL, che incoraggiasse gli operai nel contrastare/denunciare le violazioni dell’azienda, che funzionasse da deterrente nei confronti dell’azione dell’azienda, da terminale di quei delegati che effettivamente volevano fare qualcosa per contrastarla sia negli effetti diretti sulla condizione e la salute degli operai, sia nelle conseguenze all’esterno dell’inosservanza delle norme sulla sicurezza e l’ambiente. Questa proposta fu contrastata dall’azienda. Ma la principale opposizione venne dai sindacati confederali. Il procuratore Sebastio disse allora che la magistratura non avrebbe opposto ostacoli e avrebbe avuto un atteggiamento benevolo rispetto ad eventuali ricorsi contro questa decisione da parte del ministero.
Queste battaglie a Taranto sono state fatte, in fabbrica e sul territorio, ma si sono scontrate contro un muro. Un muro costituito dal sistema Riva di gestione del potere dentro la fabbrica, dal sistema consociativo dei sindacati confederali e dallo stesso sistema degli Enti di controlli.
Il 22 marzo 2013, dopo i 3 morti operai che vi sono stati nei mesi precedenti, la Rete nazionale per la sicurezza e la salute torna a Taranto e insieme allo Slai cobas fa una manifestazione diversa; va direttamente all’Ilva dove si svolgono presidi, alla Direzione e alle portinerie A e D, con incontri tra delegazioni di lavoratori dal nord e dal sud e operai dell’Ilva. Da questa iniziativa nasce anche la decisione della costituzione associata di operai e cittadini dei Tamburi al processo Ilva.
Dunque, non è vero che in questa fabbrica non si è fatto mai niente. In questa fabbrica c’è stata una guerra, a volte esplicita, a volte sotterranea, che ha visto anche in passato protagonisti operai, familiari, gruppi di cittadini, pezzi di sindacato. Questa guerra è stata combattuta ed è stata persa, per il congiunto delle condizioni che c’erano, dentro e fuori la fabbrica: il sistema politico, gli Enti locali, la Regione. Vendola, ad esempio, prima di approvare la legge sulle diossine, si considerava interlocutore molto attendibile di Riva, fino al caso clamoroso dei due delegati, Battista e Rizzo, che bloccarono un convertitore che rischiava di esplodere e per questo furono licenziati dall’Ilva; a questo licenziamento seguirono alcune azioni sindacali e una battaglia legale, ma alla fine i due non rientrarono per effetto di questa mobilitazione ma grazie ad un accordo privato tra Riva e Vendola, esplicitamente rivendicato: “Io ho ragione - disse allora Riva - ma in considerazione del ruolo che sta svolgendo la Regione di Vendola, a titolo di favore personale a Vendola, ritiro i licenziamenti”. Sarà poi la Fiom a finire il lavoro della rimozione di quei due delegati, uno, appunto Battista, viene emarginato fuori dalla fabbrica, l’altro, Rizzo, viene promosso e distaccato dalla produzione, e tale si comporta per più di due anni ammorbidendo di molto la sua linea e impegno verso gli operai che lo considerano uno “passato dall’altra parte”.
È questo il contesto che precede gli ultimi avvenimenti e ci porta ai fatti in corso.
La fase attuale e la battaglia da fare
A Taranto non ci possono essere obiettivi inferiori ad una rivolta che veda uniti operai e masse popolari. Se lavoro e salute sono valori primari non bisogna fermarsi davanti a nulla, si devono tutelare con l’uso della forza proletaria e popolare.
Lo scontro a Taranto è uno scontro epocale che riguarda tutti i siti inquinati. Ma questa battaglia non merita compassione, o lamenti. Taranto è invece una grande opportunità nel nostro paese per cambiare le cose
Ma per questo la battaglia principale è soprattutto nell’organizzare l’autonomia di classe, sindacale, di lotta, di organizzazione degli operai Ilva e appalto.
Solo la forza e la lotta delle migliaia di operai contro Riva, lo Stato e/o i nuovi padroni è la garanzia per gli operai e per le masse popolari dei quartieri che si strappino i massimi risultati sul fronte del risanamento ambientale.
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