Armi a Tel Aviv passando per la Lombardia: l’Italia esporta componenti militari a Israele eludendo i controlli
Una rete di aziende e operazioni bancarie avrebbe aggirato la legge 185/90 per far arrivare in Israele componenti destinati all’industria militare. Lo rivela un’approfondita inchiesta della rivista Altreconomia, che parte da un carico sequestrato nel porto di Ravenna. Sotto la lente degli inquirenti: imprese lombarde, istituti di credito e i controlli doganali.
È il 4 febbraio 2025 quando un container in partenza dal porto di Ravenna e destinato alla compagnia israeliana Israel Military Industries Ltd viene bloccato dai funzionari dell'Agenzia delle Dogane. A insospettire le autorità non è tanto il contenuto, oltre 13 tonnellate di “lavorazioni in ferro”, quanto l’anomalia della documentazione e il nome del destinatario: un colosso della difesa israeliana, attivo nella produzione di armi e veicoli blindati. La commessa era formalmente intestata alla Valforge Srl, azienda di Cortenova (Lecco), specializzata in componenti meccaniche per usi civili. Ma dai documenti emersi durante l'indagine della Procura di Ravenna, ricostruita dall'inchiesta di Altreconomia a firma di Linda Maggiori, risulta che la produzione effettiva dei pezzi sarebbe stata effettuata da due aziende
varesine attive nel comparto militare, la Stamperia Mazzetti Srl e la Riganti Spa, entrambe regolarmente registrate presso il ministero della Difesa per operare nel settore dell’armamento.Il sospetto: un meccanismo per aggirare le autorizzazioni
Secondo l’accusa, questa triangolazione avrebbe permesso di eludere le autorizzazioni previste dalla legge 185/90, che regola in modo stringente le esportazioni militari. Dal 7 ottobre 2023, infatti, l'Uama, cioè l’ente preposto a concedere i permessi, ha sospeso il rilascio di nuove licenze verso Israele, in seguito all'invasione militare israeliana in corso nella Striscia di Gaza. Così, spiegano gli inquirenti, sarebbe stato usato un espediente: far figurare come mittente un'azienda non registrata come esportatrice di armamenti, evitando quindi di dover passare per i controlli dell'Uama. Ma le autorità doganali di Ravenna, insospettite da alcuni movimenti irregolari, tra cui un tentativo della Valforge di far rientrare il carico per "integrare documentazione mancante", avrebbero fermato l'invio e disposto così il sequestro.
Dogane e banche: controlli aggirati?
Il caso ha sollevato ulteriori interrogativi anche sul fronte dei controlli bancari. Come riportato da Altreconomia, il pagamento del carico, pari a 153mila euro, sarebbe transitato su un conto corrente intestato alla Valforge presso Intesa Sanpaolo. La legge 185 del 1990, impone agli istituti di credito di segnalare al ministero dell'Economia tutte quante le operazioni relative a materiali d'armamento. La natura militare della fornitura non risultava però dichiarata, e la transazione sarebbe così sfuggita anche alla sorveglianza bancaria.
Non un caso isolato: quattro spedizioni passate
Ma il carico di febbraio non sarebbe l'unico. Sempre secondo l'inchiesta, nel corso del 2024 la Valforge avrebbe spedito altri quattro carichi simili verso Israele, destinati alla Ashot Ashkelon, azienda israeliana controllata da IMI e coinvolta nella produzione di componenti per i carri armati Merkava e i veicoli blindati Namer. Tutte le spedizioni sarebbero avvenute senza autorizzazioni Uama, passando attraverso le dogane di Bologna e Milano, e senza che venisse rilevata la destinazione finale militare. Secondo Carlo Tombola, esperto di logistica bellica e direttore dell’osservatorio The Weapon Watch, la suddivisione dei carichi e l'uso di fornitori civili sembrerebbero indicare una strategia deliberata per evitare l’attenzione delle autorità: sostanzialmente, una volta sdoganata la merce, spiega Tombola, i controlli praticamente cessano, a meno che non ci siano indizi precisi. "È quindi plausibile che alcune aziende abbiano cercato di dribblare il blocco, nascondendosi dietro aziende che non hanno mai avuto a che fare con le armi. Valforge quindi, come ricostruito dagli inquirenti, sarebbe stata usata come intermediario per inviare a Israele i componenti di cannoni".
Materiali "dual use": nitrato di ammonio, cordoni detonanti e trizio
C'è poi un'altra inchiesta firmata questa volta da Elisa Brunelli, pubblicata sempre da Altreconomia, che svela un quadro ancora più preoccupante: dal 7 ottobre 2023, infatti, l’Italia sarebbe diventata uno dei principali esportatori verso Israele di materiali a "duplice uso", cioè prodotti utilizzabili sia in ambito civile sia militare, spesso connessi alla fabbricazione di esplosivi o addirittura di armamenti nucleari. Secondo l'inchiesta, l’Italia ha esportato ingenti quantitativi di nitrato di ammonio (quasi 6mila tonnellate solo tra novembre 2023 e marzo 2025), classificato come fertilizzante ma noto precursore di esplosivi. Una quantità che supera di gran lunga quella che provocò l’esplosione al porto di Beirut nel 2020, e la sostanza sarebbe stata fornita pronta per la fabbricazione immediata di miscele esplosive. In parallelo, l’Italia avrebbe poi inviato a Israele circa 140 tonnellate di cordoni detonanti, componenti chiave per innescare esplosivi, superando persino gli Stati Uniti come fornitore. Le forniture italiane hanno così rimpiazzato quelle di Spagna e Turchia (che invece hanno sospeso le esportazioni), creando una rete che permette l'arrivo massiccio di materiali militari “mascherati” da civili.
L’inchiesta sottolinea anche la fornitura di trizio, un isotopo radioattivo utilizzabile non solo in campo medico ma anche nella costruzione di armi nucleari termonucleari. È importante ricordare che la legge italiana, 185 del 1990, definisce come "materiali d’armamento" solo i beni destinati prevalentemente all’uso militare, non impone obblighi di trasparenza su questi prodotti "dual use". Ecco perché, nessuno dei ministeri coinvolti avrebbe finora fornito risposte sulle finalità di queste esportazioni.
(da Fanpage)
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