Mense scolastiche, scritta dalle
imprese la relazione illustrativa della legge che vieta il panino da casa
Intere parti
copiate da un discorso del presidente della “Confindustria” del settore.
La refezione nella scuola dell’obbligo genera un volume d’affari di 1,25
miliardi di euro
Un disegno di legge scritto col copia incolla.
È quello che detta le nuove
regole sulla ristorazione collettiva: per capirci ospedali, mense
aziendali o scolastiche. Queste ultime, peraltro, oggetto di una serie di
sentenze e ricorsi sull’ormai famigerato “panino da casa”. Problema: la
relazione illustrativa del testo è quasi tutta farina del sacco delle imprese
del settore, un po’ come capitò con Confindustria e il Jobs Act. La
fonte originale di questa parte del disegno di legge può essere infatti
rintracciata in un discorso del 12 giugno 2015 tenuto da Carlo Scarsciotti.
Chi è costui? si chiederà il lettore. Presidente di Angem (Aziende della
ristorazione collettiva e servizi vari), è amministratore unico di Oricon
– l’osservatorio che riunisce sette grandi aziende della ristorazione (Camst,
Cir, Sodexo, ecc.) che coprono il 54% del fatturato scolastico – e pure
vicepresidente di Food Service Europe (che fa lobby a livello Ue). Il
disegno di legge di cui vi parliamo viene depositato il 4 agosto 2015, un mese
e mezzo dopo il discorso di Scarsciotti. La firma, ovviamente, non è la sua: lo
hanno presentato senatori e senatrici del Pd. Prima firmataria è l’emiliana Leana
Pignedoli, seguono, tra le altre, l’attuale ministra dell’Istruzione Valeria
Fedeli, Monica Cirinnà e l’ex ministra Josefa Idem. La relazione
illustrativa – che descrive contenuto e obiettivi della legge – è una sorta
di riassunto, quando non una vera e propria scopiazzatura,
dell’intervento del presidente di Angem: si va da una lamentazione sulla crisi
del settore, “schiacciato (…) dalla riduzione costante delle risorse
pubbliche, ritardi dei pagamenti della Pubblica amministrazione”,
all’identificazione del pasto come “importante veicolo, soprattutto nella
scuola, educativo relazionale attraverso l’educazione al gusto” fino al
problema della “disomogeneità di approccio” degli enti locali alle linee guida
del ministero della Salute.
Intervento di Carlo Scarsciotti a un convegno, 12 giugno 2015
Giusto a metà luglio, il disegno di legge è tornato
alla ribalta quando la commissione Agricoltura del Senato – di cui Pignedoli è
vicepresidente – ha approvato un emendamento che di fatto vieta definitivamente
il “panino da casa” facendo diventare “i servizi di ristorazione scolastica
parte integrante delle attività educative”. Lo ha chiarito la stessa ministra
Fedeli definendo il pasto in mensa “momento didattico e di formazione” il 3
luglio in un convegno a Bologna sulla refezione scolastica (“Nutrire insieme il
futuro”) organizzato da Legacoop Bologna e Camst con patrocinio della
regione Emilia-Romagna (dove Camst ha sede e ha vinto, nel 2016, l’appalto da
53 milioni per le scuole pubbliche). L’interesse delle imprese sul tema,
d’altronde, è ovvio: la refezione nella scuola dell’obbligo genera un volume
d’affari calcolato in 1,25 miliardi di euro grazie a 380 milioni di
pasti all’anno per due milioni e mezzo di studenti (dati Anci). E il costo
della mensa? Varia da regione a regione passando da un minimo di 500 euro
l’anno in Calabria ai mille dell’Emilia-Romagna calcolati su un reddito
familiare di 44 mila euro annui (fonte Cittadinanzattiva) per arrivare a
Torino, dove chi non gode di agevolazioni paga 1.400 euro. Costi che un report
di Save the Children definisce “spesso onerosi”, anche perché molti Comuni non
prevedono sgravi fiscali o esenzioni particolari. Ci sono stati casi in
cui bimbi con una sola rata mensa non pagata venivano lasciati a digiuno, in un
caso escludendo anche i fratelli seppure in regola, perché il debito era
considerato “familiare”. O bimbi non ammessi a scuola, come accaduto ad Ardea
(Roma) nel 2015, che ne aveva “banditi” 300 le cui famiglie non potevano
permettersi di anticipare l’acquisto dei pasti.
Relazione illustrativa del ddl sulla ristorazione collettiva
Contro l’obbligo di avvalersi del servizio di mensa
nel giugno del 2016 si era espressa la Corte d’appello di Torino con una
sentenza che aveva fatto scalpore. “La Corte ha detto chiaramente che
subordinare il diritto all’istruzione all’iscrizione a servizi a pagamento come
la mensa viola l’articolo 34 della Costituzione”, spiega l’avvocato Giorgio
Vecchione, che aveva presentato ricorso per conto di 58 famiglie torinesi:
“Dopo quella sentenza, e dopo 15 ricorsi d’urgenza presentati a Torino, quasi
seimila famiglie della città hanno cancellato i figli dalla refezione mentre
altri tribunali, sparsi per l’Italia, hanno accolto ricorsi analoghi. L’unico
che pur riconoscendo il diritto, non l’ha tutelato, è il tribunale di Napoli”. Se
non bastasse, peraltro, c’è il decreto ministeriale del 1983 che considera la
mensa un servizio a “domanda individuale”, continua l’avvocato, e pure
una “circolare del Miur del 2017 che invita a considerare il pasto da casa alla
stregua dei pasti speciali, quindi ammissibile”. Poi c’è quello che hanno
scoperto i Nas dei carabinieri: “Nel solo anno scolastico 2015/16 sono state
chiuse per gravi irregolarità ben 37 strutture e sequestrate 4 tonnellate di
cibo. Spesso nelle mense si servono cibi precotti e riscaldati al
momento, o ricevuti in enormi blocchi surgelati da dividere a colpi di mestolo
o mannaia. Pasti industriali, insomma”. Certo, c’è sempre la possibilità
di cancellare i propri figli dal tempo pieno, ma poi chi se ne occupa mentre i
genitori lavorano? “E perché condizionare questa scelta all’adesione
obbligatoria a un servizio facoltativo?”, aggiunge Vecchione. A Castelnuovo di
Porto, nel Lazio, o la mensa o niente tempo pieno nella scuola “Guido Pitocco”:
portarsi il pasto da casa – racconta Fabio Marricchi, presidente del
consiglio d’istituto – “è vietato da un’apposita circolare” (cui si oppongono
oltre 50 famiglie). In sostanza, “la scuola ha chiamato la Asl, la quale ha
richiesto a chi porta cibo da casa le etichette tipo Scia sanitaria e Haccp:
insomma non c’è alternativa alla mensa. Mi chiedo: che differenza c’è tra il
pranzo da casa e la merenda? Perché la merenda non è vietata…”. Il problema,
insomma, resta e il ddl non lo risolverà. Tra le ultime modifiche, poi, c’è la
soppressione dell’articolo che permetteva ai Comuni di valutare le proposte
delle aziende in base all’unico requisito della qualità: si sceglierà, con un
occhio alla qualità, l’offerta più vantaggiosa.
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