A Tripoli con i migranti respinti dall’Europa fra
torture, umiliazioni e fame
Violenze
dopo il salvataggio in mare, poi il trasferimento nei centri d’accoglienza: «I
poliziotti ci portano via tutto. Ma ritenteremo il nostro viaggio»
Decine di migranti fuori dal centro di Tajoura, alcuni
stringono ancora il salvagente usato a bordo dei barconi
Pubblicato il 12/08/2017
Ultima modifica il 12/08/2017 alle ore 07:45
domenico
quirico
tripoli
Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il
popolo dei barconi che le motovedette libiche «salvano» prima che entrino nel
nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se
stessi? I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non
sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare? A
quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare?
Per questo sono venuto in Libia, a cercare una
risposta. Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o
no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli
esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi
deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete
dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto. Vi racconterò allora dove ho
incontrato i migranti salvati. Se non mi credete, è facile verificare. I centri
libici per i clandestini, dunque. È lì che ho sentito l’odore dei
poveri. Sapete: non mi ha più lasciato il puzzo della miseria, si è
attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito. Ho
gettato via i vestiti che indossavo, ed è rimasto lì, mi è entrato dentro. Mi
insegue e mi perseguita.
Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore
sudiciume immondizia urina secrezioni catarri cibi guasti o di poco pregio
vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una
dolente pazienza di vivere. Forse il problema è che coloro che decidono il
destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono,
parlano con i ministri in belle sale refrigerate. I centri per l’immigrazione
clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto
svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri.
Sigle e numeri. Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non
possono uscire, non possono comunicare con le famiglie. Mi hanno chiesto: «Che
reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per
traversare il mare». Non ho saputo rispondere. Tripoli scorre veloce, le
cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato della fallita
Manhattan del Colonnello, simboli spenti delle sue follie, che innalzano al
cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra
case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie.
L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal
mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose
fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai
distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni. Una grande
macchina ferma. Il centro è in una strada che i libici chiamano «la
ferrovia» perché qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo
di Balbo è a un passo. L’ho scelto apposta: credo sia una sorta di vetrina, il
ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai
migranti. Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle
organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano
anche partite di calcetto tra i detenuti: «Se viene subito si gioca Marocco
contro Kenya». In realtà erano migranti della Costa d’Avorio, ma, si sa, son
tutti «negri» al di sotto del Sahara. Dentro sono in 1400 (lo spazio è per
400 persone), gli uomini da una parte le donne dall’altra, si parlano urlando
attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni
Unite, 244 «a spese loro», 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono
stati distribuiti in altri centri. (Nei centri libici sono ospitate più
persone rispetto alla loro capacità. In quello di Tariq al-Siqqa, a Tripoli,
sono 1400 in uno spazio destinato a quattrocento)
«Abbiamo perso tutto»
La prima cosa che incontri è, gettato in un angolo, il
mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano,
mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un
vecchio camion frigorifero, sequestrato. Dentro hanno trovato dieci migranti
morti durante la traversata del deserto, dal Sud. Poi c’è la gabbia, un cortile
coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni
stanzoni, le celle. La prima impressione è quella di entrare in una serra umida
e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore
dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo
stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone. I corpi, la notte quando le
porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto
all’altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella
spazzatura umana. Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore si
volgono verso di me, c’è come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto
all’altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti,
bolsi. Vedo braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o
dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E
visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le
sfumature della estenuazione. Non sono ancora entrato e già mi chiudono
in mezzo, dolcemente, come una mano. Ascolto voci, stordito dal caldo e dall’odore
che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla
terra. Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza. «Ci
hanno portato via tutto, i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non
possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi». I
guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al
momento dell’espulsione.
Il sogno dell’Europa
Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a
mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla
carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la
spalla: fuori posto, staccata dal corpo. A quelli rosi dalla febbre i compagni
hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perché possano appoggiare il busto alla
parete. «Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di
Mitiga… Ah, lì come sapevano picchiare». È il problema di sempre:
raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola? Il tempo di
luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono
occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti.
Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di
paragone. Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere
rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le
mascelle. Mi spiega perché tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio,
appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: «L’Europa dove vivi tu è la felicità,
nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire». Le nostre
spiegazioni sulla migrazione: formule venute a finire qui come le vecchie auto
arrugginite che solcano le strade di Tripoli. Soltanto un ragazzo della Guinea
mi ha detto che non riproverà. È fradicio di stanchezza: «Basta, è inutile. Non
ho famiglia, nessuno che mi attenda né in Guinea né in Europa. Raccontare
perché rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?». Quando esco
dalla prigione ho le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno
scritto numeri di telefono delle loro famiglie: «Chiama, chiama, ti prego. Tu
che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori». Ho
provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non conosco o silenzi
che affondano nel sospetto o nella disperazione. Con qualche padre o fratello
ho parlato: cerco di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Mi
piacerebbe dire di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e,
alla fine, ce la faranno. Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per
te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e
anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio.
La tragedia delle donne
Mi sposto nella zona riservata alle donne: la
situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore
acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie. Accanto scola in
una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita
come vecchie. Ho capito perché quando i poliziotti hanno tirato fuori da una
borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni
rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale. La magia nera
per legare le migranti prostitute. E un quaderno in cui sono segnate,
meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo
diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove
dinari. Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce
sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile
parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in
Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte
incinte: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da
denti, altre due si contendono una caramella. Un neonato nudo giace
abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme. Al centro della stanza
una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano
accanto, la urtano, lei non si muove. Prega, sì prega: un canto monotono per
ringraziare dio che non l’ha abbandonata. Il sudiciume del luogo non riesce a
coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. Sì, la Parola è
davvero senza fine.
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