Non
abbiamo ancora visto il film, quindi non ci permettiamo di esprimere
alcun giudizio. Abbiamo visto, come tutti, il coro mainstream, equamente
ripartito tra "orgoglio nazionale" per un premio prestigioso come
l'Orso d'oro, ricevuto al Festival di Berlino, e tanta melassa ipocrita
sulla sorte dei migranti che invece - una volta partiti da Lampedusa - nessuno più vuole sul Vecchio Continente, né in Italia né altrove.
Ci
sembra perciò giusto lasciare la parola a quegli attivisti che a
Lampedusa e Linosa fanno da anni quotidianamente i conti con le
necessità dell'accoglienza, l'indifferenza del potere, la generosità del
popolo dell'isola, la tragedia quotidiana. Il loro giudizio ci sembra
l'unico che sia doveroso ascoltare.
*****
Il film di Rosi ha vinto il Festival di Berlino.
E
lo ha fatto meritatamente. Il film di Rosi è infatti inopinatamente un
gran bel film. Cinematograficamente parlando è un’opera molto ben
costruita. Montaggio e fotografia sono magistralmente gestiti e sanno
dare corpo alle poetiche di cui il film è organica e armonica
espressione.
Il curriculum del regista e il suo palmares, qualora ce
ne fosse stato bisogno, lasciavano del resto ben sperare circa la resa
cinematografica della nuova fatica filmica a cui Rosi lavorava ormai dal
2014. E la pellicola che è possibile vedere in questi giorni nelle sale
ha confermato le aspettative qualitative e artistiche che era lecito
nutrire al riguardo. Appare dunque condivisibile la scelta e la
valutazione fatta dai membri della giuria cinematografica di Berlino.
Come
realtà da anni impegnata sul territorio di Lampedusa e Linosa, però,
vorremmo poter parlare anche di aspetti non esclusivamente artistici ed
estetici. O, per meglio dire, vorremmo un attimo riflettere sulla natura
della rappresentazione che il film dà dell’isola e delle problematiche
ad esse connesse. Vorremmo cioè esprimerci su come determinate scelte
espressive, narrative, poetiche, semiologiche, possano, proprio a
partire dalla loro
indubitabile rilevanza estetica, dare vita a forme di
rappresentazione con inevitabili conseguenze politiche. Vorremmo cioè
riflettere su come la coerenza di un linguaggio artistico, con i suoi
codici e i suoi canoni, e la qualità espressiva a cui può dare vita,
possano concorrere ad alimentare una determinata concezione delle cose,
una visione del mondo che ha poi immediati risvolti pratici, connessioni
dirette con i poteri che plasmano le nostre vite e le nostre società.
Crediamo che una tale analisi sia doverosa anche considerando la grande
risonanza massmediatica che per l’ennesima volta si sta approntando
intorno all’isola di Lampedusa.
Riteniamo tra l’altro che una tale
esigenza venga confermata allorché si consideri come e in che misura, a
partire dalle valenze estetiche della pellicola, la grande cassa di
risonanza mediatica non perda occasione di lanciarsi in considerazioni
che di estetico hanno ben poco e che invece abbracciano financo la
natura antropologica e lo spirito dei Lampedusani, non trascurando di
misurarsi nell’analisi precipitosa dei fenomeni epocali che insistono su
tale territorio.
In discussione dunque non vogliamo mettere la
qualità estetica del film bensì, partendo esattamente dal riconoscimento
di quest’ultima, intendiamo valutare le conseguenze da questa generate.
Vorremmo cioè mettere a confronto la realtà così come emerge dal
discorso sviluppato da Fuocoammare e la realtà così come risulta da
altri elementi, altrettanto evidenti e incontestabili quanto lo è il
valore artistico della pellicola.
Come molti lampedusani hanno
avuto modo di vedere e come più volte è stato ribadito pubblicamente da
Rosi, il regista ha vissuto sull’isola per molti mesi. Tale tempo non è
coinciso solo ed esclusivamente con le esigenze di ripresa e di
lavorazione del girato ma al contrario è stato destinato a conoscere
l’isola, i suoi abitanti, le sue contraddizioni.Durante questi mesi Rosi
ha avuto modo di incontrare molte
persone.Ha
parlato con molti di noi. È stato presente a contestazioni, iniziative,
manifestazioni, frammenti quotidiani di vita, di convivialità. Ha
assistito a molti eventi, ha visto dispiegarsi molte delle
contraddizioni che caratterizzano aspramente l’isola e che il
martellante mondo dell’informazione e della spettacolarizzazione
mainstream o non prende in considerazione o stravolge e piega a proprio
uso e consumo. Come lui stesso ha dichiarato in un’intervista rilasciata
pochi giorni fa durante la rassegna berlinese, Rosi arrivò a Lampedusa
pochi mesi dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, trovando l’isola
«militarizzata ma senza migranti». Dunque anche in una recente
intervista del regista emerge una sua consapevolezza della
militarizzazione delle Pelagie: una questione, del resto, su cui ha
avuto modo più volte di confrontarsi con noi. Quello della
militarizzazione del territorio e del mare di Lampedusa in seguito alle
strutturali “emergenze” migratorie è un tema sul quale da tempo ci
stiamo battendo e rispetto al quale tutti gli osservatori non
pregiudizialmente restii a riconoscere l’evidenza, hanno negli anni
dimostrato sensibilità.
Quello di Lampedusa è un territorio di
circa 20 kmq con al suo interno un proliferare di radar (molti
dispositivi sono presenti in doppia o tripla “copia” perché ogni corpo
militare possiede le proprie unità di rilevamento), dispositivi per la
guerra elettronica, basi e mezzi militari vari, con le connesse servitù
militari. E proprio le servitù militari costringono gli ormai famosi
lampedusani a non poter accedere a fette sempre più consistenti del
proprio già esiguo schugghiteddu. Una militarizzazione che il grande
circo mediatico, da anni orbitante famelico intorno all’isola, ha
dimostrato di non prendere minimamente in esame o, quel che è peggio, di
legittimare e giustificare come dispositivo necessario alle finalità
umanitarie e di salvataggio: finalità cui le forze militari sarebbero,
obtorto collo, costrette dalla “natura” dell’emergenza continua.
Dunque
chi ha vissuto l’isola per più di un anno sa bene cosa voglia dire
presenza militare a Lampedusa, fuor dai trionfalismi governativi, dalle
autocelebrazioni dei vertici militari o dalla vuota fraseologia dei
corrispondenti robotizzati dei tg.
Eppure una delle primissime
immagini del film vede, entro una luce vespertina magistralmente carpita
da chi ha curato la fotografia della pellicola, alcuni dei radar di
Capo Ponente ruotare ipnotici intorno al proprio asse. Alla danza
coordinata dei radar fa da sottofondo un audio – puntellato da
sottotitoli onde levigarne il gracchiare incerto e precario – delle
comunicazioni tra autorità italiane (Guardia Costiera? Centro operativo
“Mare Nostrum”? Centro operativo “Triton”? ) e una delle tante
imbarcazioni in bilico tra le onde del canale di Sicilia.
In chi non ha
avuto modo di conoscere la realtà lampedusana e osservi il film, la
rappresentazione che emerge dalla narrazione filmica implica il
collegamento tra il possibile e auspicato soccorso dei migranti e il
dispositivo tecnologico-militare che ad un tale scopo viene così
riferito e conseguentemente legittimato.
Ma
l’elemento militare
diventa quasi protagonista lirico a se stante della struttura narrativa
della componente documentaristica della pellicola di Rosi. Più volte è
uno scafo color grigio-militare ad agire entro le riprese, a solcare le
onde del maruso e a costituire un guardiano attento e reattivo pronto a
sfidare le procellose avversità per salvare vite umane.
Ed è
sempre un vespro, splendido e affilato come solo l’orizzonte del mare
delle Pelagie sa regalare, a fare da sfondo al “parto” di un elicottero
che sul nascere di un nuovo giorno, tra cielo e mare, viene dato alla
luce dall’hangar di una nave militare. Mentre l’alba colora l’orizzonte,
l’ombra ormai sfilacciata di una notte stanca viene squarciata dalla
luce di un hangar che lento si apre e lascia uscire dal proprio grembo
la propria creatura volante ancora in fasce, come una timida crisalide
appena ultimata la propria metamorfosi. Dal monitor interno della
plancia di comando della nave sarà possibile assistere al volo della
creatura che ha appena visto la luce e che, ormai a giorno fatto,
raggiungerà il luogo ove potrà far valere la propria forza. Molte sono
le sequenze girate dall’interno dei mezzi militari aereo-navali e spesso
il buio degli interni è interrotto solo dal vivo e cadenzato pulsare
luminoso dei monitor delle plance di comando.
Non mancano neanche alcuni
primi piani dei radar di bordo delle imbarcazioni, quasi a ricercare
l’elemento semovente in grado di dare dinamica visibilità al
protagonismo delle forze militari entro l’economia narrativa del film:
così da conferire quasi una soggettività propria, di personaggio, al
dispositivo militare. Quest’ultimo assume connotati lirici nella misura
in cui i suoi elementi, cioè i mezzi, le tecnologie, gli uomini, sono
spesso
gli unici frammenti antropici di possibile salvezza entro una
dimensione che vede invece solo il mare come elemento di potenziale
pericolo.
Peccato però che i radar devastino di onde
elettromagnetiche gli abitanti dell’isola. Peccato però che a Ponente,
in quanto sito di alto valore naturalistico, i radar non dovrebbero
neanche starci, come non dovrebbe starci quello di Capo Grecale, in
quanto sito di interesse archeologico. Peccato che l’isola, col pretesto
delle migrazioni, è da anni avamposto di guerra per quelle stesse
strategie che le migrazioni le generano. Lampedusa insieme al Muos, a
Birgi, a Sigonella, costituisce infatti una tessera importante del
mosaico di distruzione e di guerra che il mostro NATO ha dispiegato in
Sicilia e nel Mediterraneo nel corso degli anni. Cosa c’entrino le
attrezzature per la guerra elettronica con i salvataggi in mare è un
arcano che ancora non è dato svelare.
In Fuocoammare il binario
narrativo dedicato alla vicenda migratoria dà vita ad un reportage che
vuole proporsi come asciutto, essenziale, con un dominio dell’immagine
concreta e immediata che vorrebbe scalzare via qualunque intervento di
supporto, qualunque commento a latere.
Ma ci chiediamo se
l’intensità e la profondità dell’esperienza estetica ed emozionale che
la qualità del registro filmico di Rosi sono in grado di generare,
arricchiscano la comprensione che lo spettatore possiede riguardo al
fenomeno oggetto del reportage stesso.Proviamo a spiegarci.
La
parte più documentaristica dell’opera di Rosi si articola intorno ad
uno storytelling sapientemente costruito intorno alle figure dei
migranti, spesso proposte entro inquadrature molto ravvicinate e primi
piani stretti e fortemente espressivi. Solo che la potente emotività che
la maestria del regista è in grado di generare nello spettatore, non
conferisce elementi di conoscenza a partire dai quali chi esce dalle
sale possa dire di aver capito meglio quello che sta succedendo nel
mediterraneo.
Non si fa cenno critico alcuno al business
dell’accoglienza. Al contrario, l’intera narrazione ne alimenta di fatto
la legittimazione, poiché lo inserisce in uno schema binario entro il
quale gioca il ruolo dell’antitesi unica alla morte in mare.
Lo
spettatore non è portato a riflettere sul perché i migranti fuggano
dalla propria terra; l’unica eccezione è forse rappresentata dalla
sequenza struggente del canto dei migranti. L’episodio in questione (al
netto del livello di negoziazione e di spontaneità che è possibile
riferire ad una condizione quale quella di un centro di detenzione
momentaneamente visitato da una telecamera), però, a ben guardare,
si
limita a dire che ci sono le bombe e le guerre, quasi che queste
caschino dal cielo per disgrazia naturale, in questo confermando le
concezioni mainstream per cui i migranti scappano dalle guerre e dalla
povertà. Chi poi provochi guerre e povertà, quali scelte politiche ed
economiche, quali poteri internazionali vi siano coinvolti, non è mai
concesso poter approfondire.
Altro punto di conoscenza che resta del
tutto in ombra e che lo spettatore non è minimamente spinto dalla
struttura narrativa a provare a disvelare è il perché i migranti, una
volta “costretti” a spostarsi, si ritrovino a farlo attraverso vie e
modalità così dispendiose economicamente e così disumanamente rischiose
per la propria stessa vita.
A tal proposito
il film non spinge lo
spettatore a farsi domande né tantomeno prova – sia pur entro i limiti
del codice espressivo e del registro comunicativo in questione – ad
azzardare una qualche risposta che incrini il sarcofago plumbeo con cui
l’informazione dominante ha sigillato la questione migratoria negli
ultimi decenni. Così come le guerre e la povertà, anche l’assurdo
viaggio per mare è qualcosa di dato, quasi di scontato nel suo
apparentemente naturale e autosufficiente esserci.
Nessun riferimento
alle leggi europee che determinano un tale stato di cose.
Le
cause, così come i mezzi e le forme assunte dalle migrazioni, SONO.
Punto. Non bisogna chiedersi perché. Bisogna agire. Occorrono le task
forces. Infatti
ci sono i militari pronti all’azione, a salvare vite
umane. Il dispositivo gira alla perfezione.
Il film dunque tende a
riproporre quello che Said definiva, parlando dei riferimenti
all’impero coloniale nel romanzo inglese ottocentesco, una «struttura di
atteggiamento e riferimento». Contribuisce cioè a ratificare un
paradigma per cui la migrazione non può non essere un problema
umanitario, un’emergenza, senza invece chiedersi perché e in seguito a
quali fattori politici e decisionali assuma tali forme. E
ad uno stato
d’emergenza è la politica che risponde accreditandosi come soluzione
unica ad un problema che però lei stessa contribuisce a generare. Il
serpente ingoia se stesso e tra le sue spire resta intrappolato e
divorato il mondo intero.
Viene riproposto il paradigma per cui il
migrante è un corpo passivo, destinatario di accudimento, di aiuto, di
assistenza, di soccorso, di cibo, di acqua, di vestiario. Il migrante è
un oggetto-vivente, ultimo anello di una catena decisionale che lo vede
come finale destinatario, come passivo e asimmetrico “povero cristo” di
cui prendersi cura. Il buon samaritano ha sempre un mantello in più del
suo prossimo e comunque nell’epoca neoliberale
il buon samaritano fa
affari perché produce mantelli. Che la «struttura di atteggiamento e
riferimento» da cui il film origina, e che a sua volta contribuisce a
confermare, sia quella del paradigma politico-informativo dominante in
materia di immigrazione, lo si apprezza già dalle prime righe dei titoli
di testa. Vi si può infatti leggere delle centinaia di migliaia di
migranti “approdati” a Lampedusa negli ultimi due decenni circa.
APPRODATI.
Già questo termine tradisce il pregiudizio per cui i
migranti abbiano Lampedusa come effettivo obiettivo delle loro rotte. Si
omette cioè il fatto che Lampedusa sia in realtà un confine costruito,
voluto, imposto da precise scelte politiche e che la stragrande
maggioranza dei migranti a Lampedusa vi sia arrivata perché ivi condotta
da autorità che sono parte integrante di un dispositivo politico,
legislativo e di controllo. Perché tutti a Lampedusa e non, per esempio,
a Pantelleria? Forse quest’altra isola è meno oggettivamente e
fisicamente confine dell’isola Pelagica? Un tale dispositivo ha fatto
dell’isola un centro di detenzione-palcoscenico da cui mandare in scena
la grande tragicommedia mediatica dell’emergenza costante e del
salvataggio umanitario, distogliendo l’attenzione dai molti “perché” che
è bene restino nell’ombra.
La bellezza, dunque.
La grande
bellezza di molti passaggi di Fuocoammare come si inserisce e che ruolo
gioca in un tale quadro? La maestria con cui viene elaborato un prodotto
estetico di alta qualità permette di portare alla luce elementi di
maggiore conoscenza? O occulta, al di sotto della superficie fruitiva
dell’esperienza estetica, il piano della consapevolezza non allineata?
Che il mediterraneo sia profanato da migliaia di morti è cosa
tristemente nota. Sulla retorica umanitaria abbiamo costruito le guerre
degli ultimi 25 anni, del resto. E non sono certo mancate le
spettacolarizzazioni voyeuristiche, in questi anni. Mostrare da vicino i
morti serve se, nel farlo, si scava profondo al di sotto del senso
rasserenante e semplicistico dei poteri dominanti.
Se ci si ferma
all’emozione, sia pure essa intensa, sincera, profonda, suscitata dalla
bellezza e dall’estetica, si rimane però pur sempre sulla superficie,
dove la fata morgana del miraggio e della vertigine data dal bello
artistico è sempre in agguato. La bellissima e struggente immagine della
lacrima mista a sangue che sgorga da un occhio ferito e oltraggiato di
un migrante stremato, ti lacera il cuore. Ma l’estetica di questa
sequenza ci fa attraversare il senso predefinito e approntato dal
dispositivo militare e politico dominante? Crediamo che invece la
struggente e tragica bellezza di tale scena abbia un potere meramente
contemplativo. Il moto possente di emozioni che suscita non spinge a
capire, non squarcia i veli delle facili e semplicistiche equazioni sul
fenomeno migratorio. Al contrario ti lascia contemplare la tragica e
titanica ineluttabilità del dispositivo così come viene ad autoimporsi.
Ci
chiediamo anche se la bellezza del risultato possa esimerci
dall’interrogarci sull’esigenza di mostrare al mondo certi momenti così
intimi, strapparli ai legittimi possessori, per farne arte. I volti
disfatti, i corpi feriti, ustionati, potevano essere mostrati
diversamente? Forse. Chissà però se è stato chiesto a queste vite il
permesso di farle diventare arte, bellezza, sia pur tragica. E se anche
lo si è chiesto, potevano realmente decidere che arte fare con la loro
stessa sofferenza? Soggetti o materia prima da plasmare?
Il secondo
binario lungo il quale scorre il film di Gianfranco Rosi è quello,
maggiormente finzionale, che segue alcuni squarci di vita isolana, in
particolare quella del giovane Samuele.
Di questa sezione
“lampedusana” del film è possibile notare alcuni aspetti.
Manca quasi
completamente una trattazione delle ricadute che decenni di politica
dell’emergenza migratoria hanno prodotto sul territorio dell’isola. Come
nel caso della militarizzazione non vi è, infatti, alcun accenno alle
contraddizioni del territorio lampedusano. Si ricorre ad alcuni elementi
canonici, a dire il vero un po’ stantii, e sono presenti elementi
stilistici riferibili agli stereotipi meridionalisti. L’elemento
picaresco del ragazzino scavezzacollo e sempre disperso per le campagne è
qualcosa di già visto e francamente un po’ bisunto. Ma quel che è
peggio è che il suo percorso di formazione entro la società
genericamente tratteggiata come marinaresca, non offre nemmeno la
possibilità di tematizzare e focalizzare le problematiche e le
contraddizioni della società lampedusana. Una società che è in realtà
del tutto assente da questa parte di film. Questa sezione poteva essere
girata in qualunque altro territorio senza minimamente alterare
l’equilibrio complessivo dell’opera.
Solo chi già conosce l’isola la riconosce, nei suoi paesaggi e nei suoi luoghi.
Ma
è un lirismo del paesaggio delocalizzato. A essere tematizzati dalla
narrazione non sono i luoghi nella loro componente di relazione sociale,
di contraddizioni tra uomini, di conflitto. Al contrario a svolgere un
ruolo sono i luoghi nella loro fattuale, immediata e data fisicità: il
ruolo è però quello pacificato di fondale. Per cui un posto valeva un
altro, una qualunque roccia calcarea poteva sostituire quella di
Lampedusa. Quella che si tratteggia è una società lampedusana ferma e
irrigidita intorno a stereotipi e visioni folcloristiche che avrebbero
permesso di girare lo stesso materiale 30 o più anni fa. «Radio Delta»
ad esempio che, tranne un caso in cui trasmette un brano di musica
classica, manda in onda solo brani di musica siciliana. Non che questo
non si verifichi nella realtà. Ma la programmazione dell’emittente è
molto meno folclorica e molto più internazionale (anche nell’accezione
più commerciale del termine) di quanto uno spettatore possa desumere
dalla visione del film.
Non vi è contatto tra i due percorsi
narrativi lungo cui il film si distende. Fatta eccezione per il
brevissimo commento della signora che, intenta a governare la cucina (e
anche su questo si dovrebbe riflettere) commenta brevemente la notizia
di un naufragio di migranti. Un naufragio che per inciso viene detto
essersi verificato (come spessissimo avviene) a 60 miglia da Lampedusa:
cioè praticamente a poche miglia dalle sponde africane. Solo che, anche
in quell’occasione così come nel formulario giornalistico di regime, il
riferimento geografico fornito è quello di Lampedusa.
La
formazione del giovane protagonista al mondo del mare è astratta,
decontestualizzata, distillata. Ecco perché non si fa accenno alle
problematiche della pesca lampedusana. Al fatto che
le reti dei
pescherecci si incaglino sui relitti dei barconi lasciati affondare
dalle stesse autorità impegnate nelle missioni “umanitarie” di
salvataggio. Nessun accenno al fatto che ormai il mare non rende più,
che il pesce è finito, che i maestri d’ascia non lavorano più, che le
barche è più conveniente demolirle che farle navigare. Eppure chi ha
vissuto l’isola e ha parlato con i pescatori queste cose ha avuto modo
di vederle, di conoscerle, di sentirle raccontare.
L’assenza di
contatto tra i due solchi narrativi del film si evince anche nel fatto
che non viene minimamente alla luce come
l’economia dell’isola sia ormai
dipendente dalla colonizzazione militare conseguenza della strutturale
“emergenza” migratoria. Dalla pesca e dal turismo all’economia
dell’emergenza. Si riesce a intuirne qualcosa grazie alla bellezza del
film? Temiamo di no.
Non si fa cenno a cosa significhi non poter
nascere a Lampedusa per l’assenza di un’unità neonatale.
Non si fa
menzione di quanto costi alle famiglie dover ovviare a tutto ciò con
onerosi viaggi “da parto” nel continente. Eppure viene ripresa una
gestante, una migrante trasferita sull’isola, durante lo svolgimento di
un’ecografia fetale; e ritorna il dubbio circa l’invadenza dell’occhio
dell’osservatore, circa la consensualità e la subalternità di chi viene
osservato, circa la natura dell’immagine della donna funzionalizzata
all’esigenza di narrazione.
Nessun riferimento alle difficoltà di
vedere garantito, a Lampedusa, il diritto alla salute. Destino comune, è
vero, a molte piccole comunità specie se isole in mezzo al mare. Ma
in
un territorio dove si sono spesi centinaia di milioni di euro in
attrezzature militari e di sicurezza (!?) viene da pensare che l’assenza
di un ospedale vero (specie quando il centro di “accoglienza” è stato
per vari anni classificato come di “primo soccorso”) risulti quanto meno
grottesca.Ma tutto questo non emerge. Al contrario la visita medica
al simpatico ragazzino diventa quasi un siparietto di leggera comicità
che alleggerisce dai gravami di altre parti della pellicola.
Forse
l’intento autoriale era quello di non far toccare la sezione dedicata
alla vicenda migratoria e quella “lampedusana”. Forse si voleva
realizzare un controcanto più aereo, rarefatto, maggiormente poetico nel
senso di fortemente astratto. Ma riteniamo che invece vi sia una forte
rivendicazione “realistica” anche relativamente a questa sezione
dell’opera, sebbene sia quella maggiormente finzionale e “sceneggiata”.
Non foss’altro per la rivendicazione di docufilm estesa a l’opera nel
suo complesso e non certo ad una sola sua parte. Non foss’altro per come
i media stanno proponendo e commentando il film senza che gli autori
rivendichino una non realistica e documentaristica valenza anche per la
sezione lampedusana della pellicola. E in effetti dai TG
all’onnipresente e virale Fazio, non si contano i commenti e le
rappresentazione di marca essenzialista sul «popolo lampedusano».
Tali
generalizzazioni che riferiscono una determinata caratteristica ad
un’intera categoria, in quanto consustanziale alla presunta essenza
della categoria stessa, è un tipico atteggiamento binario e
deterministico proprio del miglior pensiero etnocentrico e coloniale
dell’occidente. Ancora una volta quindi i Lampedusani si ritrovano ad
essere narrati, raccontati, definiti, omaggiati e premiati (mentre il
mondo parla di Lampedusa in seguito al film di Rosi, a Lampedusa non è
stato possibile vederlo; ma si sa che i Lampedusani sono un grande
popolo, accogliente. Sapranno accogliere anche questo ritardo).
Il
premio Nobel temiamo che prima o poi possa anche arrivare.
Del resto se
lo hanno dato a guerrafondai sanguinari come Obama o Kissinger, perché
non darlo all’isola dell’ “accoglienza”, armata fino ai denti per le
guerre NATO, che toglie diritti ai propri cittadini e che detiene dietro
le sbarre i migranti con giusto un paio di cessi e di docce per
centinaia di persone. Nell’era in cui domina la menzogna generale, la
Lampedusa narrata dal mainstream in effetti un premio se lo meriterebbe
anche. Più che per la pace sarebbe più opportuno quello per la miglior
sceneggiatura originale. Ma si sa, i premi non si scelgono. Sono come i
parenti, come il caval donato. Quel che viene si piglia.
Un caro
amico lampedusano ci dice spesso che non sente più l’odore del lippo
(i.e. muschio scivoloso tipico degli scogli ) quando si reca al porto. È
convinto sia un segno di quanto sia cambiato il mare, di quanto stia
poco bene. Siamo daccordo. Il mare ha cambiato odore. Crediamo anche che
il lippo, le scivolosità su cui è facile perdere l’equilibrio, abbia
abbandonato il mare e disseminato ben altri luoghi, ben altri percorsi.
Intanto
oggi il governo ha autorizzato i voli dei droni USA da Sigonella
aprendo così ad un nuovo interventismo nella martoriata e genocidiata
Libia. Anche a Lampedusa verrà fatto giocare un ruolo a tal proposito.
Non abbiamo dubbi. Ma sempre con accoglienza e con bellezza, per carità.
Non ci resta che augurarvi buona accoglienza a tutti voi, buona guerra e buona visione.
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