Marco Piagentini, sopravvissuto alla strage di
Viareggio
«Ogni 29 del mese il treno delle 23.48 passa
fischiando. I macchinisti se ne ricordano sempre, è il loro saluto, il loro
gesto di rispetto per le vittime di questa strage dimenticata da tutti». Il
treno fischia, racconta Marco Piagentini. E ogni volta lui è lì, come un soldato
sull’attenti davanti ai ricordi. Classe 1968, quest’uomo ha addosso più ferite
che anni. Dalla vita ha preso più pugni di quanti potrà mai restituirne eppure
alla domanda più banale: come va? risponde che «io vado avanti e non mi arrendo,
lo devo a mio figlio che è qui con me e al resto della famiglia che non ho più».
Era il 29 giugno del 2009, ore 23.48. Un treno carico di Gpl deragliò arrivando
alla stazione di Viareggio. Nell’urto una delle 14 cisterne si squarciò e il gas
Gpl, a contatto con l’ossigeno e con chissà quale scintilla d’innesco, incendiò
un quartiere intero, incenerì cose e persone, si arrampicò lungo i muri delle
case. La sua era lungo una delle due strade più esposte alle fiamme.
Il fuoco che brucia la pelle
«Io lo so bene che cos’è il fuoco che ti brucia la
pelle» racconta adesso Marco. «Mio figlio Luca aveva quattro anni ed è arso vivo
dentro una macchina. Lorenzo aveva due anni e quando le fiamme gli sono arrivate
addosso era in braccio a mia moglie Stefania...
Mi resta Leonardo che oggi ha 14
anni e che quella notte rimase sotto le macerie per ore a chiedere aiuto. Io
vivo per lui». «So bene cos’è il fuoco», dice Marco. E se anche non parlasse lo
direbbero le sue ferite per lui: sessanta interventi chirurgici per rimediare a
ustioni gravi sul 90% del corpo, cicatrici ovunque e una vita vissuta all’ombra
perché «il sole è il mio nemico peggiore». «D’estate è sempre un tormento, devo
girare coperto da capo a piedi, devo assolutamente proteggermi perché la mia
pelle è ipersensibile, sento il calore anche se passo vicino a un muretto
intiepidito dal sole. Se esco in scooter mi devo bardare come un terrorista e
spesso uso l’ombrello sotto il cielo blu. A volte qualcuno mi chiede che cosa
faccio nella vita. L’ustionato, rispondo. Io faccio l’ustionato, ho perduto il
mio vecchio lavoro, la mia casa, gran parte della mia famiglia e adesso la mia
vita è quel che mi è successo, è mio figlio Leonardo ed è la ricerca della
verità e della giustizia. Per la mia famiglia e per quelle di tutte le altre
vittime».
Il rischio prescrizione
Trentadue morti, anni di indagini e il processo di
primo grado in corso per 33 imputati e nove società. Dopo sei anni e mezzo
ancora nessuna sentenza e un rischio che, a questo punto, assomiglia a una
certezza: la prescrizione (a fine 2016) per i reati di incendio e lesioni
colpose. «Non c’è da ragionare o da capire. La sola ipotesi è semplicemente
inaccettabile, indecente. Non posso tollerare che un giorno qualcuno mi venga a
dire: ci spiace tanto ma l’incendio colposo e le lesioni colpose sono
prescritti. Proprio l’incendio, poi... Le parole hanno un significato anche
simbolico. A un ustionato come me dicono che dell’incendio basta: non si parla
più... E allora i miei bambini e mia moglie di cosa sono morti? E come vogliamo
chiamarle tutte queste ferite sulla mia pelle?». Marco Piagentini ce l’ha con
«la giustizia ingiusta» che vede avvicinarsi sempre più. «Vorrei che fosse
chiaro, però. Se tutto questo succederà davvero le famiglie delle vittime di
Viareggio potrebbero non rispondere più delle loro azioni. E lo dico come
presidente della nostra associazione («Il mondo che vorrei», ndr).
Sarebbe un’offesa profonda, una nuova ferita gravissima. Dobbiamo già fare i
conti col fatto che ci hanno dimenticati... Quando qualcuno ci chiede: “Cosa
possiamo fare per voi?” la nostra risposta è sempre quella: fateci sentire la
vostra presenza, non giratevi dall’altra parte, segnatevi la data del 29 giugno
sulla vostra agenda e venite a commemorare i nostri morti a
Viareggio».
Sempre presente
Lui c’è sempre. Alle commemorazioni, alle udienze
ogni mercoledì (a Lucca), all’appuntamento delle famiglie delle vittime il 29 di
ogni mese. Si ritrovano tutti dove un tempo c’erano le loro case e le loro vite.
Adesso ci sono 32 alberi, un monumento con i nomi dei morti, il fischio del
treno e la «casina dei ricordi». «È di legno, piccola» spiega Marco. «Dentro ci
sono oggetti strappati al fuoco. Pupazzi, disegni, cose appartenute ai
bambini».Ogni volta che dice «bambini» la sua voce esita, si abbassa di tono. I
suoi bambini...«Luca l’avevo portato in macchina credendolo al sicuro. Ricordo
che si è svegliato, mi ha guardato e si è riaddormentato subito. Si sentiva
tranquillo fra le braccia del suo papà. Se ci penso...». La voce adesso si
arrende. Le parole non servono.
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