di Michele Giorgio
Gerusalemme, 4 gennaio 2014, Nena News - Ignorata per anni dai
mezzi d'informazione, nonostante sia teatro di uno dei processi di
colonizzazione israeliana più intensi e di abusi a danno dei palestinesi
che vi risiedono, la Valle del Giordano da qualche settimana occupa
spazi sempre più evidenti sulle prime pagine dei giornali in ebraico e
in arabo.
Lo sviluppo (si fa per dire) delle trattative
bilaterali Israele-Anp fortemente volute dal segretario di stato Usa
John Kerry, ha riportato in superficie l'importanza eccezionale di questa
porzione di Cisgiordania...
Israele da quasi 40 anni, dalla formulazione del «Piano Allon» e dell'«Opzione Giordana»,
ha mire ben precise sulla Valle del Giordano che in buona parte ricade
nel territorio palestinese occupato. Nel corso degli anni i governi di
centrosinistra e di destra hanno indicato che Israele, in qualsiasi
accordo di pace, conserverà il controllo di tutta la frontiera con la
Giordania, almeno per un certo numero di anni. Ma mai come in questi
ultimi giorni la destra guidata dal premier Netanyahu è apparsa tanto
impegnata in una campagna, anche alla Knesset, per fare della fertile
striscia di terra bagnata dal fiume Giordano «il confine orientale di
Israele».
A dare fuoco alle polveri è stato un articolo
pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv Yediot Ahronot, nel quale si
faceva riferimento al piano di sicurezza che gli Usa avrebbero
presentato a israeliani e palestinesi.Pur prevedendo il dispiegamento
di truppe israeliane lungo il confine e al terminal di frontiera tra
Stato di Palestina e Giordania - ipotesi categoricamente respinta
dall'Anp di Abu Mazen - la proposta americana includerebbe anche
l'evacuazione delle colonie ebraiche costruite (in violazione della
legge internazionale) in quella zona.
L'artiglieria pesante israeliana è subito entrata in azione. Prima con
la bozza di legge approvata da una commissione della Knesset che prevede
l'annessione di una ventina di colonie israeliane sparse per la Valle
del Giordano. Poi con l'iniziativa del
ministro degli interni Gideon Saar, un dirigente del partito Likud, che
ha posto la «prima pietra» di nuove case nella colonia di Ghitit, poche
ore prima del ritorno a Gerusalemme di Kerry. Saar ha dichiarato che
«senza la Valle del Giordano Israele sarebbe privato della profondità
strategica» e che le colonie ebraiche in quella zona sono essenziali per
le attività dell'esercito (nessuno lo dubitava).
Immediata la reazione dei palestinesi che hanno chiarito a più riprese
che la Valle del Giordano dovrà rappresentare il confine orientale dello
Stato di Palestina. L'annessione di quel territorio a Israele
metterebbe fine al negoziato, ha avvertito il negoziatore Saeb Erekat e
spingerebbe i palestinesi a chiedere il riconoscimento internazionale
della Palestina, come «Stato sotto occupazione», entro le linee
antecedenti la guerra del 1967, con Gerusalemme est per capitale. Il
governo palestinese si è poi riunito in un villaggio nella Valle del
Giordano per ribadire la propria determinazione.
E Kerry? È riuscito soltanto ad aggravare la rabbia dei
palestinesi proponendo la costruzione di una "possente barriera di
sicurezza" lungo il Giordano, allo scopo di assecondare le richieste di
«sicurezza» di Netanyahu. Israele secondo il segretario di stato
verrebbe autorizzato anche in futuro a pattugliare il confine fra la
Cisgiordania e la Giordania: nei primi anni da solo, in seguito assieme a
forze palestinesi. I droni israeliani inoltre potranno sorvolare la Cisgiordania..."
sabato 4 gennaio 2014
pc 4 gennaio -12 INDAGATI DELLA CASERMA DI PAROLISI
Il Movimento femminista Proletario Rivoluzionario aveva immediatamente denunciato a maggio 2011, quando fu uccisa Melania Rea, il: "...buco nero dell'esercito, improntato e pregno comunque e sempre di una logica e prassi fascista, machista, sessista, di relazioni improntate ad uno spirito di oppressione/sopraffazione gerarchica che diventa a volte uso/abuso sessuale soprattutto quando vi sono donne (che o si adeguano a questo spirito e ne sono complici o ne vengono schiacciate dal rambismo maschilista), ma anche di difesa/omertà di corpo all'interno.
Questa difesa "di corpo" emerge anche in questo articolo del CdS in cui ciò che viene messo in evidenza è che con questa indagine "vacilla il rigore della disciplina di caserma".
«Devi offrirti a me e agli altri»
Quelle notti tra caporali e allieve
Dodici indagati nella caserma di Ascoli per violenza, minacce e ingiurie. E nell’elenco c’è anche il nome del caporalmaggiore Salvatore Parolisi
La magistratura ha raccolto testimonianze delle vittime che avrebbero ricevuto inviti espliciti a fare sesso, in particolare dopo la mezzanotte, quando le porte delle camerate devono restare chiuse.La caserma «Clementi» è la stessa in cui prestava servizio Salvatore Parolisi, il sottufficiale condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio della moglie Melania Rea avvenuto il 18 aprile del 2011 nella pineta di Ripe di Civitella, in provincia di Teramo. Il corpo di Melania venne trovato a 18 chilometri di distanza, massacrato con numerose coltellate. Parolisi avrebbe ucciso la moglie dopo che quest’ultima aveva scoperto la sua relazione proprio con una delle soldate della «Clementi». Il caporal maggiore è indagato, seppure per un episodio minore, anche nella nuova inchiesta aperta dalla procura militare di Roma.
Fra le colline di Ascoli Piceno, quando scendeva la sera e il contrappello chiudeva la giornata militare della caserma Clementi, il sergente G. M. invitava l’allieva Simona nell’Ufficio del plotone e lì parlava, ammiccava e osava, pare con successo. Prima Simona, poi Anna per il bicchierino, poi Sara... Lui aitante, vulcanico e impaziente, loro giovani aspiranti soldate dell’esercito italiano di stanza al Reggimento addestramento volontari, cioè la caserma di Salvatore Parolisi. Il quale, al di là della grossa grana per l’omicidio di sua moglie Melania che gli è costata una condanna a 30 anni, dovrà vedersela anche per un episodio decisamente meno grave ma molto simile a quello del collega G. M.: sempre dopo la mezzanotte, sempre negli uffici del plotone, sempre per un bicchierino con le soldate e via.
Emerge lo spaccato di un mondo militare pruriginoso, dove il rigore della disciplina di caserma vacilla sull’incontro dei due sessi. Da una parte i soldati che addestrano e comandano, dall’altra le allieve che ascoltano e obbediscono. In mezzo, qualche tentazione. Il soldato Enza, per esempio, l’ha raccontata così al comandante della Clementi chiamato dalla procura a una relazione informativa: «Un giorno il caporal maggiore mi si è rivolto chiedendomi cosa gli potevo dare per sapere la mia destinazione. Dissi “nulla, aspetto altri due giorni e lo saprò”». E l’altro, sempre secondo l’allieva: «Devi offrire te stessa a me e poi agli altri istruttori. Mi devi dire se sei vergine o meno, perché se lo sei devo prendere delle precauzioni, altrimenti devo prenderne altre, ad esempio frustini...».
Naturalmente la stragrande maggioranza delle allieve non partecipava agli incontri proibiti, molte ne ignoravano pure l’esistenza, altre li rifiutavano. Come Monica: «Il sottufficiale si è avvicinato a me e mi ha abbassato leggermente la cerniera della giacca della tuta. Io mi sono allontanata riordinando l’uniforme - ha messo a verbale - Vedendomi infastidita mi ha detto che l’aveva fatto perché faceva molto caldo».
Fin qui, gli approcci. Poi c’è il capitolo «violenza contro inferiore, minacce e ingiurie», dove a farla da padrone è sempre il caporale G. M., rispetto al quale, in questo caso, sfigurerebbe anche il duro sergente Hartman di Full Metal Jacket, quello che chiamava l’allievo «palla di lardo». Ecco il suo vellutato sistema di addestramento: «Vi faccio sputare sangue, mi sembrate delle pecore, lo sapete cosa fa il pastore con le pecore... mi fate schifo... Tu sei una casalinga non idonea alla vita militare, hai i prosciutti al posto delle gambe, chiatta, balena... Siete delle galline, delle pappe molli, siete tutte z...», e avanti così... Il suo avvocato, Giovanni Falci dice che non bisogna sorprendersi: «Per una caserma si tratta di un linguaggio istituzionale. Stiamo parlando di addestramento al combattimento, di lancio di bombe, di piegamenti sulle braccia...».
pc 4 gennaio - LE VERE RAGIONI DEL PERCHE' PER LE SPESE MILITARI NON C'E' SPENDING REVIEW..
MA E' CHIARO- PRIMA SI ESERCITANO COME MERCENARI CONTRO I POPOLI
..E POI METTONO IN PRATICA QUELLO CHE PENSAVA LA THATCHER NEL 1984
..E POI METTONO IN PRATICA QUELLO CHE PENSAVA LA THATCHER NEL 1984
Thatcher ecco i documenti
segreti: “L’esercito contro i minatori in sciopero”
Nel 1984 l'allora premier britannico valutò l'uso dei
militari per contrastare la protesta dei lavoratori, che metteva a rischio le
scorte di energia e cibo. Dalle carte dell'Archivio nazionale emergono anche il
timore per gli aiuti sovietici ai sindacati e lo scarso interesse per le sorti
del prigioniero politico sudafricano Nelson Mandela
Armamenti nel 2014 niente
spending review per la Difesa: spese per 5 miliardi
Cacciabombardieri, navi da guerra, blindati ed
elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e satelliti spia. E'
la lista della spesa che l'apparato militare italiano ha in serbo nonostante
l'opposizione parlamentare e le polemiche sugli F-35. Un
"investimento" che non ha a che fare con la sicurezza nazionale, ma è
il costo occulto delle missioni internazionali, prima fra tutte l'Afghanistan.
E dal ministro Mauro arriva soltanto un "no comment"
Generali e ammiragli brindano
all’inizio di un nuovo anno di spese pazze in armamenti alla
faccia della crisi. Nel 2014 la Difesa si prepara a spendere altri 5
miliardi di euro in cacciabombardieri, navi da guerra,
blindati ed elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e
satelliti spia. Impermeabili a ogni spending reviewe refrattari a
qualsiasi controllo parlamentare, gli stati maggiori continuano a sentirsi
intoccabili. Ma l’anno che viene potrebbe riservare loro qualche sorpresina. Il
2013 verrà ricordato come l’anno in cui il Parlamento, pungolato
dall’opposizione di Sel e Cinque stelle e facendo leva su
un’articolo della riforma militare del 2012, ha osato esercitare le
proprie prerogative di controllo sui programmi di riarmo della Difesa. A
partire dai famigerati F35 da 150 milioni di euro l’uno, per cui
le mozioni
approvate da Camera e Senato il 26 giugno e 7 luglio impegnavano il governo a
non procedere a nessuna “ulteriore acquisizione” in attesa delle conclusioni di
un’apposita indagine conoscitiva parlamentare. Un’inaudita insolenza per i
vertici militari, che hanno immediatamente reagito attraverso il Consiglio
supremo di Difesa presieduto da Giorgio Napolitano lanciando
un duro monito: “Niente veti del Parlamento sulle spese militari”. E infatti,
incurante della volontà del Parlamento, il ministro della Difesa Mario Mauro
ha continuando ad autorizzare di nascosto la firma di nuovi contratti per
centinaia di milioni di euro.
IL MINISTERO: “NUOVE COMMESSE? NO COMMENT”. Il 27 settembre scorso, oltre a
saldare l’ultima rata da 113 milioni dei primi 3 aerei già acquistati (e già
pagati per 350 milioni di euro), è stato firmato il contratto d’acquisto
definitivo di altri 3 aerei per 403 milioni (per i quali in precedenza erano
stati anticipati 47 milioni). Successivamente, non è dato sapere quando, sono
anche stati versati 60 milioni di anticipo per ulteriori 8 aerei (che la Difesa
vuole acquistare nel 2014, anno in cui intende inoltre dare anticipi per altri
10 aerei). Quando queste informazioni di “ulteriori acquisizioni” – trapelate
dagli Stati Uniti – sono state riferite in commissione Difesa, diversi
parlamentari, sentitisi presi in giro, hanno chiesto immediate spiegazioni e
hanno preteso di avere accesso a tutti i documenti contrattuali. Niente da
fare: il ministro Mauro si è limitato a ribadire (nemmeno di persona, ma per
bocca di un messaggio letto in aula il 18 ottobre dal sottosegretario
all’Agricoltura…) che a suo giudizio le mozioni parlamentari “non incidono sulle
politiche di acquisto già determinate”. A più riprese ilfattoquotidiano.it ha
chiesto alla Difesa dettagli sull’avanzamento dei contratti del programma F35,
rimbalzando contro un cortese muro di gomma e ottenendo alla fine solo
un secco ma eloquente “no comment”.
“Queste
ulteriori acquisizioni sono contra legem - taglia corto Gianpiero
Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa – così come lo è
l’ostinata resistenza della Difesa a ogni controllo parlamentare sulle sue
politiche di spesa. Un potere di controllo che è stato introdotto nella
legislazione italiana con una norma dall’aspetto innocuo ma di portata
dirompente: l’articolo 4 della legge 244 del 31 dicembre 2012. Dal
giorno della sua approvazione è in atto uno scontro durissimo, una continua
guerra di posizione tra il Parlamento e la Difesa che non vuole accettare
questa legge che pone fine a decenni di spese incontrollate. L’indagine
conoscitiva parlamentare sugli F35, che qualcuno voleva chiudere
frettolosamente a dicembre senza alcuna presa di posizione, proseguirà fino a
febbraio e si dovrà concludere con un documento prescrittivo che la Difesa
dovrà rispettare”. Quale sarà questa ‘prescrizione’ non è ancora dato sapere
ma, dopo la svolta renziana del Pd, tra gli addetti ai lavori c’è chi
ipotizza (e chi teme) un congelamento del programma o un suo ulteriore forte
ridimensionamento. Durante la campagna per le primarie, il sindaco di Firenze
aveva dichiarato: “Gli F35 sono soldi buttati via, io ho proposto il
dimezzamento”.
E GLI F-35 “ABBATTONO” GLI EUROFIGHTER. Ipotesi a parte, al momento ciò che fa testo rimane
il cosiddetto Dpp (Documento programmatico pluriennale) della Difesa per il
triennio 2013-2015 presentato lo scorso aprile dall’allora ministro della
Difesa Di Paola – oggi consulente di Finmeccanica – che dei
5 miliardi di spesa totale allocata per il nuovo anno su decine di programmi di
riarmo (guarda la tabella) ne assegna oltre mezzo (535,4 milioni per la
precisione) agli F35 della Lockheed Martin. Questo mentre si continua a
investire il doppio (un miliardo l’anno, anche nel 2014) nel programma
aeronautico alternativo Eurofighter – rara concretizzazione della tanto
auspicata cooperazione industriale europea nel settore difesa e principale
concorrente del programma americano – che invece la Difesa ha deciso di
tagliare proprio per far posto agli F35, nonostante tutti gli esperti del
settore lo ritengano ampiamente sufficiente a soddisfare da solo le esigenze
della nostra Aeronautica (come lo è per la Luftwaffe tedesca, che
infatti ha scelto Eurofighter rinunciando agli F35), per giunta con
indiscutibili vantaggi in termini di costi di manutenzione, di ricaduta tecnologica
e occupazionale e, non ultimi, di autonomia operativa vista la comproprietà
dell’hardware, che invece rimane sotto esclusivo controllo americano sugli F35:
veri e propri “aerei a sovranità limitata”. L’attaccamento della Difesa al
programma F35 è spiegabile solo tirando in ballo delicati equilibri di politica
estera. Il 16 luglio scorso, pochi giorni dopo l’approvazione delle
mozioni, l’ambasciatore americano David Thorne ha convocato nella sua
residenza romana di Villa Taverna i massimi vertici militari italiani per
ricordare loro, con il sorriso e un bicchiere di rosso in mano, che l’Italia
“deve” mantenere gli impegni presi rispetto al programma F35 se vuole
“continuare a essere nostro stretto alleato, ad avere voce in capitolo quando
si tratta di prendere decisioni sulle regioni più critiche e sulla sicurezza
mondiale e a rimanere tra gli alleati Nato di alto livello giocando un
ruolo di leadership”. Gli F35 come pegno di fedeltà verso il nostro potente
alleato, come suggello di quella “stretta alleanza che unisce Italia e Stati
Uniti e che – spiegava Thorne quella sera d’estate ai nostri generali – è
andata rafforzandosi negli ultimi dieci-quindici anni con il comune impegno nei
Balcani, in Medio Oriente, in Afghanistan e Nord Africa”. Un impegno, quelle
nelle missioni internazionali, che incide in maniera sostanziale
sulla spesa italiana in armamenti.
IL COSTO OCCULTO DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN. Dopo aver esaminato la lista dei
programmi di riarmo in corso, sorge infatti spontaneo chiedersi a cosa ci
servano tutte queste nuove armi visto che, per fortuna, non si intravedono
all’orizzonte conflitti mondiali o invasioni straniere. La risposta data la
scorsa primavera in Parlamento dal capo di stato maggiore della Difesa,
ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, era stata molto sincera: “Le nostre
forze armate dispongono di materiali, sistemi d’arma e mezzi adeguati
all’impegno attuale e il cui standard possiamo considerare, dal punto di vista
qualitativo, paritetico a quello di molti nostri alleati; sussiste tuttavia
l’esigenza di ammodernare e rinnovare costantemente le dotazioni delle nostre
unità per l’impiego continuato in operazioni lontane dal supporto logistico in
patria, che ne ha fortemente accresciuto l’usura”. Insomma, non compriamo nuove
armi tanto per ragioni di sicurezza nazionale, quanto in funzione delle
prolungate campagne militari condotte in paesi lontani. Afghanistan in
primis. Combattere una guerra implica la necessità di ricostituire le
scorte di munizioni (durante la campagna aerea sulla Libia del 2011
abbiamo sganciato bombe per 260 milioni), rimpiazzare i blindati
danneggiati negli attacchi nemici e impiegare mezzi più robusti e sicuri,
potenziare i sistemi di protezione delle basi e degli avamposti, dotarsi di droni
di sorveglianza, di artiglierie più precise, di mezzi e armi per le forze
speciali e di tutta una serie di altri strumenti richiesti dalle esigenze
operative. Voci di spesa (evidenziati in grigio nella tabella) da centinaia di
milioni che contribuiscono a far salire a 5 miliardi la spesa annua in
armamenti e che rappresentano un costo occulto delle missioni militari
internazionali che si somma al costo palese dichiarato nei periodici
decreti di rifinanziamento. Lo tengano a mente i nostri parlamentari
quando al rientro dalle festività saranno chiamati a rifinanziare la
prosecuzione del coinvolgimento militare italiano nella sempre più sanguinosa
guerra civile afgana (2.730 civili uccisi nel 2013, un incremento del 10
percento rispetto all’anno precedente). I principali paesi della Nato se ne
sono già andati dal’Afghanistan o se ne andranno entro un anno, perfino la Gran
Bretagna lo ha annunciato pochi giorni fa. Il governo italiano invece,
senza consultare il Parlamento, si è impegnato con Washington e con il
presidente Karzai (che con le elezioni presidenziali del prossimo 5
aprile uscirà di scena e Allah solo sa da chi verrà rimpiazzato) a
lasciare le sue truppe nei deserti afgani almeno fino al 2017 e a donare 360
milioni all’esercito di Kabul.
pc 4 gennaio: ASSENNATO SERVO DELL'ASSASSINO RIVA...
Inquinamento a Taranto
ambientalisti contro Arpa: “Valori dell’aria inaccettabili”
Dalle rilevazioni effettuate da Peacelink a circa 5
chilometri dall’Ilva, c'è una presenza di Ipa compresa tra i 17,7 nanogrammi al
metrocubo (ng/m3) e i 22 ng/m3. Ma per il direttore dell'agenzia Giorgio
Assennato "questi dati, da soli, non significano niente”
La guerra
tra ambientalisti tarantini e Arpa Puglia ora si gioca sui numeri. I nuovi dati
sulle emissioni di idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) nell’aria di
Taranto segnano il nuovo terreno di scontro tra Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink,
che li definisce “inaccettabili”, e il direttore generale dell’agenzia Giorgio
Assennato che invece parla di “un attentato alla serenità dei tarantini” e
di dati “divulgati per squallidi fini politici”. I dati, secondo le
rilevazioni effettuate da Peacelink a circa 5 chilometri dall’impianto
industriale, descrivono una presenza di Ipa compresa tra i 17,7 nanogrammi al
metrocubo (ng/m3) e i 22 ng/m3. Dati allarmanti secondo gli ambientalisti
che ritengono “accettabili” i valori che si attestano sui 6 ng/m3 ed
“eccellenti” quelli vicini a 2 ng/m3. Non solo. Per gli ambientalisti i valori
diffusi da Arpa negli ultimi mesi sono anche peggiori: dati raccolti nel quartiere
Tamburi, a pochi metri dalla fabbrica, che tra agosto e dicembre variano da
una media minima di 30,8 ng/m3 a una massima di 43,9 ng/m3. Numeri addirittura
quasi raddoppiati secondo Peacelink rispetto ai dati del 2009 e 2010. Gli
stessi numeri che invece, Giorgio Assennato, definisce “ridicoli” tanto che
“farebbero ridere tutto il mondo scientifico”. Perché “tutte le agenzie
ambientali d’Italia utilizzano il dispositivo che ha in dotazione Peacelink, ma
nessuno diffonde i singoli dati: perché quei dati, da soli, non
significano niente”. Arpa Puglia, secondo quanto Assennato spiega al fattoquotidiano.it,
li utilizza per studiare come si disperdono gli Ipa allontanandosi dalla
sorgente: “Dovremmo parlare di allarme nel caso in cui ci trovassimo di fronte
a valori con tre cifre. Queste campagne di disinformazione servono solo
ad agitare i tarantini. La verità – aggiunge ancora il dg Arpa – è che questa
storia mette in evidenza due errori: il primo commesso dall’Ilva che ci
impedisce di utilizzare in modo corretto la centralina che si trova nel reparto
cokeria (quello ritenuto causa principale delle emissioni nocive, ndr) e
l’utilizzo a fini di propaganda poltica di valori che non hanno alcun
fondamento scientifico”. E ad alimentare le polemiche, dopo l’aria ci si mette
anche il mare di Taranto diventato improvvisamente rosso in un tratto del
litorale. Le “eco sentinelle” diffondono le foto sul web e Bonelli rilancia:
“Si tratta di un fatto estremamente grave su cui vanno immediatamente accertate
le cause, perché il color ruggine potrebbe essere stato provocato da
qualche nave cisterna carica di materiali ferrosi che ha scaricato il materiale
al porto ha pulito la stiva a ridosso della costa”. Arpa Puglia si reca sul
posto ed effettua dei prelievi e rassicura: si tratta della “microalga
dinoflagellata ‘Noctiluca scintillans’” non di inquinamento dovuto allo
sversamento di idrocarburi. Poco dopo arriva anche la conferma della Guardia
costiera: “Le analisi di laboratorio – scrivono i militari – i cui esiti
saranno resi noti nei prossimi giorni, dovrebbero confermare l’origine naturale
del fenomeno, scongiurando così i timori di tanti cittadini sulla natura
inquinante della sostanza anomala riscontrata”. Potrebbe essere sufficiente a
descrivere un clima di tensione. Ma c’è anche dell’altro. Perché nei giorni
scorsi alcune foto dei fumi presenti sullo stabilimento avevano
preoccupato i cittadini di Taranto. In un comunicato la stessa Ilva ha
precisato che “nello stabilimento non risultano essersi riscontrati eventi
anomali il giorno 1 gennaio 2014 tali da poter generare particolari fenomeni
emissivi”, aggiungendo che le centraline “non hanno evidenziato in tale giorno
valori anomali degli inquinanti monitorati”. Ma come spiega l’azienda
l’imponente nube di fumo denso e bianco? Per l’Ilva “i fenomeni ripresi nelle
immagini sono verosimilmente riconducibili alla presenza di un grosso corpo
nuvoloso insistente sull’area dello stabilimento. Infatti, il corpo
nuvoloso si presenta distaccato rispetto alle emissioni di vapore acqueo
prodotto dalle attività dello stabilimento”. In più “da dati meteo si evince
che il giorno 1 gennaio 2014 è stato caratterizzato da un elevato tasso di
umidità con valori dell’ordine del 90 percento circa”. Insomma, colpa del
tempo.
Ilva Taranto Convegno 11 gennaio - a padron
Riva il processo lo facciamo noi!
A fronte
della indecente sentenza della cassazione che annulla sequestro: 8,1 miliardi
cifra stimata equivalente alle somme che nel corso degli anni la società avrebbe
risparmiato non adeguando gli impianti 'generando malattia e morte'
11 gennaio convegno di protesta a Taranto
organizza la Rete nazionale per sicurezza e salute sui posti di lavoro e territorio
comunicato invito
E' convocato un convegno sul processo a Riva e soci del 2014 con l'avvocato dei processi Thyssen ed Eternit a Torino, avv. Bonetto - sostenitore Rete nazionale sicurezza e salute sui posti di lavoro e sul territorio.
-per protestare con dati di fatto contro la sentenza della cassa integrazione
-per riportare un bilancio dell'esperienza vincente dei processi Thyssen-Eternit
-per una piattaforma e un metodo della costituzione associata come parte civile, gratuita e di massa, degli operai, lavoratori e cittadini
Il convegno aperto a tutti si terrà sabato 11 gennaio 2014 dalle ore 9.30 alle 13 presso biblioteca comunale p.le Bestat
a cura della Rete nazionale salute e sicurezza sui posti di lavoro e territorio
sede Taranto
bastamortesullavoro@gmail.com
3471102638
pc 4 gennaio - "CHE SIA UN ANNO ROSSO E PROLETARIO"
Nell'augurare
un buon 2014 a tutti i Compagni e a quelli più o meno compagni, voglio
iniziare l'anno con questa frase del Compagno Lenin dedicandola a tutti
gli operai:
"Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità non ha creato una "terza" ideologia e, d'altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Perciò ogni diminuzione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese.
Francesco del circolo proletari comunisti di Taranto
"Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità non ha creato una "terza" ideologia e, d'altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Perciò ogni diminuzione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese.
Francesco del circolo proletari comunisti di Taranto
pc 4 gennaio - CONTRO I PADRONI ASSASSINI - LA SOLIDARIETA' PROLETARIA E' UN'ARMA NECESSARIA
A Stefano
Delli Ponti, a sua moglie, ai suoi familiari, ai suoi figli che non
ho conosciuto…
UNA
TESTIMONIANZA DA UN LAVORATORE DELL'IST. TUMORI DI MILANO SU L'OPERAIO ILVA DI TARANTO MORTO IL 30 DICEMBRE DI TUMORE
Mi chiamo
Gaglio Giuseppe e lavoro come OSS all’Istituto Nazionale dei Tumori
di Milano. E da anni vivo il dramma; le angosce; la rabbia; le
speranze, di chi si trova scaricato addosso questo macigno chiamato
Tumore, e affronta questo “viaggio della speranza”. Una malattia
che non conosce confini, ma che per esperienza ho visto colpire in
prevalenza operai che hanno lavorato nelle fabbriche della morte
–dall’Ilva alla Fibronit, da Fincantieri alla Breda-, dove per la
loro sete di profitto i padroni ASSASSINI se ne fottono della stessa
vita degli operai. E, purtroppo, ho visto e vedo che da questa
barbarie non sono esclusi i familiari di questi operai. Così vedo
chi in fabbrica non ci è mai entrato, ma per il solo fatto di vivere
a ridosso di questi siti, come ai Tamburi, o anche per lavorare nei
paraggi, come i cimiteriali di Taranto, si ammalano di tumore. Il
lavoro non facile il mio, dove contano tanti fattori. Farlo con
umanità, senza scadere nel pietismo (questo me l’hanno insegnato i
malati). Non farlo in maniera distaccata, fredda, perché se è vero
che non ti devi far travolgere dall’emotività, devi “rimanere
umano”. Ma soprattutto sono anch'io un proletario come Stefano, un
“operaio della sanità”, che ha una coscienza di classe, e sono
stanco di versare lacrime per questi miei fratelli.
Quando ho
letto il volantino dello Slai Cobas per il sindacato di classe che
annunciava la morte di Stefano ho avuto un tuffo al cuore. Mi ronzava
in testa il pensiero “questo nome non mi è nuovo” “quest’uomo
io lo già visto”. Poi leggendo l’articolo del Corriere e vedendo
la sua foto, purtroppo, i dubbi sono diventati certezze. Era
il mese di novembre e Stefano, accompagnato dai suoi familiari,
viene ricoverato nel Reparto dove lavoro ed è
toccato a me spiegargli le solite “banalità”: stanza-
letto-orari, mantenendo sempre un atteggiamento leggero e rispettoso
verso chi viene pieno di speranze e con la spada di Damocle del “male
incurabile”. E tra le “competenze” (non contemplate dal
contratto di lavoro) cerchi di entrare in “confidenza” e provare
a rendergli più lieve l’impatto con un ospedale oncologico. E
Stefano mi dice “sono di Taranto”. La mia risposta spontanea è
stata “un altro regalo dell’Ilva”. E lui mi dice “ma io
all’Ilva ci lavoro”. E così come se ci conoscessimo da sempre è
stato un serrato botta e risposta: “ma tu conosci Taranto e l’Ilva”
e io “si, ci ho fatto pure delle manifestazioni, proprio sul
problema della salute e sicurezza, come nel 2009 partendo dai
Tamburi”, e anche quest'anno a marzo all'Ilva direttamente. Ecco,
come sempre, scattarmi il senso di appartenenza, che non è trattare
diversamente i malati, ma appartenenza ad una grande famiglia: la
classe operaia. Una “famiglia” che più di altre subisce le
ingiustizie di questo sistema: sfuttamento e morte. Ma la cui sete di
Giustizia e Lotta non possono cancellare, ne dobbiamo
permetterglielo.
Non voglio
farla tanto lunga, vorrei soltanto che giungesse al cuore e alle
menti dei suoi familiari le mie umili condoglianze ed una promessa:
il mio piccolo contributo alla battaglia per ottenere GIUSTIZIA. Ma
voglio parlare anche ai suoi compagni di lavoro, da chi lo conosceva
personalmente a chi ha dato il suo contributo che gli permettesse di
curarsi, e agli abitanti dei Tamburi: io sabato 11 gennaio sarò a
Taranto, all’Assemblea della Biblioteca di Piazzale Bestat promossa
dalle Rete Nazionale per la Salute e Sicurezza sui posti di Lavoro e
Territorio, perché penso che questo sia un dovere verso Stefano e
tutti gli operai uccisi da questo sistema. Venite – incontriamoci.
Uniamo le energie. Solo con la lotta e la determinazione possiamo
rendergli più lieve il viaggio senza ritorno che non hanno deciso
loro. La solidarietà di classe, si fa e basta. Solo così possiamo
guardare negli occhi i nostri figli e le future generazioni, e fargli
intravedere un futuro Nuovo che cambi lo stato di cose presenti.
Gaglio
Giuseppe, OSS “Istituto Tumori, Milano”
Rete
nazionale salute e sicurezza sui posti di lavoro e territori nodo
Milano
retesicurezzamilano@gmail.com
pc 4 gennaio - IL 2014 NELLE CARCERI SI APRE CON LA MORTE DI UN DETENUTO
Detenuto si impicca nel carcere di Ivrea
Si è lasciato penzolare a un cappio
fatto con un sacco dell'immondizia intrecciato. E' il primo morto del 2014 nelle
prigioni italiane.
di CARLOTTA ROCCI
Suicidio nel carcere di Ivrea oggi pomeriggio. Un detenuto di 42 anni si è impiccato alle sbarre del bagno della sua cella usando come cappio un sacco dell'immondizia intrecciato. Il fatto è successo intorno alle 14.40 al primo piano della sezione ordinaria in regime aperto.
Suicidio nel carcere di Ivrea oggi pomeriggio. Un detenuto di 42 anni si è impiccato alle sbarre del bagno della sua cella usando come cappio un sacco dell'immondizia intrecciato. Il fatto è successo intorno alle 14.40 al primo piano della sezione ordinaria in regime aperto.
In
carcere del 2014 - dichiara il segretario generale Osapp Leo Beneduci- e
purtroppo dimostra quanto la polizia penitenzaria, grazie alla sordità della
guardasigilli Annamaria Cancellieri, rispetto alle esigenze organiche del corpo,
possa fare sempre di meno per prevenire gesti estremi. Le condizioni del carcere
di Ivrea peggiorano ogni giorno di più fino a renderlo una vera e propria
polveriera in grado di esplodere da un momento all'altro".
pc 4 gennaio - URANIO IMPOVERITO. CONDANNATO IL MINISTERO
Per un carabiniere ammalato o morto, migliaia sono le donne, bambini, popolazione del Kosovo e Bosnia uccisi dai proiettili arricchiti con "uranio impoverito" usati dall'Italia nella sporca guerra nei Balcani. Chi va a fare missioni contro il "terrorismo", muore del vero "terrorismo" dell'imperialismo italiano.
"La Corte d'appello ha confermato che il tumore di cui si è ammalto un brigadiere dei carabinieri in missione durante la guerra del Kosovo è l'effetto dell'uranio impoverito con cui erano realizzati i proiettili in uso alle forze di polizia internazionali. Il ministero della Difesa condannata a risarcire 150 mila euro
Gaetano Luppino dedica la sua vittoria ad un collega morto per lo stesso contagio da uranio impoverito che gli ha provocato un tumore alla pelle. Gaetano Luppino, vicebrigadiere savonese dei carabinieri di ritorno dalle missioni in Bosnia e Kosovo, ha vinto in appello la causa contro il ministero della Difesa che non gli ha mai riconosciuto la causa di servizio."La pubblica amministrazione si è dimostrata peggiore del cancro", si è sfogato il militare a cui ora il ministero dovrà versare un indennizzo di 150 mila euro.
Un battaglia lunga quattro anni per l'ex componente della Msu, la Multinational Specialized Unit, la forza di polizia che aveva compiti di lotta al crimine organizzato e al terrorismo.
Il vicebrigadiere, tra il settembre 2003 e l'aprile 2004 fu in missione nei Balcani quando le truppe di pace usavano proiettili arricchiti con 'uranio impoverito'. Al ritorno in Italia, come tutti i suoi compagni d'armi, Gaetano Luppino fu sottoposto a periodiche visite mediche. Nel dicembre 2008 la diagnosi: tumore alla pelle...".
venerdì 3 gennaio 2014
pc 3 gennaio - CAMBOGIA: POLIZIA SPARA SU OPERAI IN SCIOPERO UCCIDENDONE 3
Proseguono gli scioperi massicci degli operai tessili in Cambogia, dove molti dei capi di abbigliamento firmati che indossiamo nei paesi imperialisti è prodotto. Per governo e padroni cambogiani, 100 dollari al mese sono sufficienti per sgobbare dalla mattina alla sera. la classe operaia cambogiana non ci sta e per questo la polizia ha sparato uccidendo 3 operai. al fianco della classe operaia in tutto il mondo solidarieta' agli operai cambogiani che la classe operaia cambogiana organizzi il proprio partito rivoluzionario marxista-leninista-maoista e dia inizio alla guerra popolare di lunga durata che insieme alle altre gia' in corso in sud asia e nel resto del mondo spazzi via questo sistema imperialista basato sul profitto della classe operaia.
Riportiamo il seguente articolo apparso oggi su "Internazionale":
La polizia spara sulla folla a Phnom Penh, tre operai uccisi
- 3 gennaio 2014
- 10.51
Operai tessili durante una protesta a Phnom Penh, in Cambogia, il 3 gennaio 2013. (Samrang Pring, Reuters/Contrasto)
A Phnom Penh, in Cambogia, la polizia ha sparato contro una manifestazione di operai tessili uccidendo tre persone e ferendone molte altre. Le proteste nella capitale cambogiana vanno avanti da giorni: gli operai chiedono che il salario minimo, che attualmente è di 80 dollari al mese, sia raddoppiato. Il governo ha detto di poterlo aumentare fino a 100 dollari al mese.
Gli operai tessili in Cambogia sono 500mila e l’industria manifatturiera è una delle principali risorse economiche del paese.
Chan Soveth, un attivista dell’associazione Adhoc, ha dichiarato che le forze dell’ordine hanno sparato il 3 gennaio sulla folla che manifestava bloccando il traffico nel centro di Phnom Penh. Il portavoce della polizia Kheng Tito sostiene che la polizia ha aperto il fuoco dopo che nove agenti erano stati feriti dai manifestanti e ha dichiarato che due manifestanti sono stati arrestati.
Le proteste degli operai tessili sono sostenute anche dall’opposizione, che chiede al primo ministro Hun Sen di dimettersi. Nel novembre del 2013 in un’altra manifestazione degli operai tessili era stata uccisa una donna.
pc 3 gennaio - LA PARABOLA DELLE OPERAIE DI MELFI
Spegnete gli entusiasmi per la "svolta" Fiat, le donne stanno già pagando la politica di Marchionne.
Da Fulvia D’Aloisio
"...L'impatto fortissimo di una fabbrica di auto che assume il 18% di donne,
a sud. L'emancipazione dei vecchi lavoretti, le trasformazioni sociali e
la vita da "famiglie metalmeccaniche". E poi la crisi, con il ritorno
della vecchia economia informale. Così adesso alle donne di Melfi può
capitare di fare 3 giorni da operaie e 3 da estetista, per sostenere il
reddito familiare...
Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo...
Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata, della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati, con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume, una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne...
I percorsi di emancipazione variegati e multiformi che hanno interessato le donne della Sata, portando anche a nuove famiglie ricostituite fondate su più moderni rapporti tra vecchi e nuovi nuclei familiari, sembrano subire una battuta d’arresto con la crisi attuale. Lo scenario odierno è preoccupante, ma soprattutto molto contradditorio rispetto alle conquiste comunque ottenute venti anni fa, al momento dell’assunzione. Le giovani donne, tutte al di sotto dei 32 anni, in maggioranza diplomate, avevano vissuto lo stacco, in apparenza definitivo, rispetto ad un passato di precarietà lavorativa, di lavoro temporaneo e in nero, caratterizzato da assenza di tutele e violazioni dei diritti: insomma lavori minuscoli, per usare la famosa espressione di Aris Accornero; avevano raggiunto finalmente una condizione di lavoro tutelata e garantita, stabile, anche se di fatto avevano pagato con un lavoro duro e con una complessiva retrocessione del contratto, rispetto alle altre fabbriche Fiat, quella che nel contesto era stata comunque una conquista di sicurezza lavorativa e di status agiato. Attualmente, molte di loro sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi “lavoretti” in nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli anziani, allo scopo di integrare i sempre più esigui redditi da operaie decurtati dalla cassa integrazione...
Oggi che il mercato automobilistico segna battute d’arresto in tutto l’occidente, e la Fiat (ormai Fiat-Chrysler) fatica molto più di altri marchi, la posizione e lo status delle donne della Sata sono gravemente minacciati: quale destino le attenda dipende dalla ristrutturazione in atto a Melfi, dalla produzione di due nuovi modelli (500 X e Mini Suv Jeep), dall’ulteriore anno di lavoro ridotto e di cassa integrazione che separa dall’avvio della nuova produzione.
Le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su soli tre giorni a settimana e su pause a singhiozzo.
Da A. Leogrande.
Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo...
Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata, della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati, con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume, una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne...
I percorsi di emancipazione variegati e multiformi che hanno interessato le donne della Sata, portando anche a nuove famiglie ricostituite fondate su più moderni rapporti tra vecchi e nuovi nuclei familiari, sembrano subire una battuta d’arresto con la crisi attuale. Lo scenario odierno è preoccupante, ma soprattutto molto contradditorio rispetto alle conquiste comunque ottenute venti anni fa, al momento dell’assunzione. Le giovani donne, tutte al di sotto dei 32 anni, in maggioranza diplomate, avevano vissuto lo stacco, in apparenza definitivo, rispetto ad un passato di precarietà lavorativa, di lavoro temporaneo e in nero, caratterizzato da assenza di tutele e violazioni dei diritti: insomma lavori minuscoli, per usare la famosa espressione di Aris Accornero; avevano raggiunto finalmente una condizione di lavoro tutelata e garantita, stabile, anche se di fatto avevano pagato con un lavoro duro e con una complessiva retrocessione del contratto, rispetto alle altre fabbriche Fiat, quella che nel contesto era stata comunque una conquista di sicurezza lavorativa e di status agiato. Attualmente, molte di loro sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi “lavoretti” in nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli anziani, allo scopo di integrare i sempre più esigui redditi da operaie decurtati dalla cassa integrazione...
Oggi che il mercato automobilistico segna battute d’arresto in tutto l’occidente, e la Fiat (ormai Fiat-Chrysler) fatica molto più di altri marchi, la posizione e lo status delle donne della Sata sono gravemente minacciati: quale destino le attenda dipende dalla ristrutturazione in atto a Melfi, dalla produzione di due nuovi modelli (500 X e Mini Suv Jeep), dall’ulteriore anno di lavoro ridotto e di cassa integrazione che separa dall’avvio della nuova produzione.
Le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su soli tre giorni a settimana e su pause a singhiozzo.
Da A. Leogrande.
"...In questi vent’anni la vita alla catena di montaggio non è stata una
passeggiata. Nel 2004 una vibrante protesta bloccò per quasi un mese la
produzione, con la richiesta dell’adeguamento dei salari agli altri
stabilimenti del gruppo e dell’eliminazione della famigerata “doppia
battuta” che regolava i turni, simbolo dell’organizzazione del lavoro
nella fabbrica toyotista. Quella fu, per certi versi, l’ultima fiammata
operaia meridionale: una lotta non per la difesa del lavoro che
scompare, ma per il miglioramento netto delle sue condizioni e dei suoi
rapporti... Con la mutazione della
Fiat-Chrysler marchionniana, che getta nel limbo il futuro degli
stabilimenti italiani, dal momento che – anche dopo l’acquisizione del
100% della Chrysler – la loro sorte deve ancora essere tracciata caso
per caso e valutata sul mercato, quella emancipazione femminile si sta
corrodendo.
In attesa della ristrutturazione delle linee per i nuovi modelli
(proprio in Basilicata verrà prodotta la nuova jeep) e in presenza di
una notevole crisi di mercato dei vecchi, è stata avviata una lunga fase
di cassa integrazione. La settimana è articolata su soli tre giorni di
lavoro, e le pause a singhiozzo sono frequenti. Di fronte alla
contrazione netta del reddito, le famiglie operaie soffrono
notevolmente. Così ritornano i lavori minuscoli di ieri: “molte di loro
sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi lavoretti in
nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di
prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli
anziani”.La parabola delle operaie di Melfi rischia di essere la parabola della deindustrializzazione del Sud, altrove già potentemente in atto. Sono loro la punta dell’iceberg di un profondo sommovimento in atto in tutto il Mezzogiorno..."
pc 3 gennaio - FIAT: GOVERNO E CISL/UIL ESULTANO, LA CGIL "VUOLE VEDERE", MA E' GIA' VISTO.
"Dal governo, il primo a intervenire è stato Pier Paolo Baretta,
sottosegretario all'Economia: "L'acquisto di Chrysler da parte di Fiat -
ha detto - è una notizia utile e valida per le prospettive del nostro
Paese, soprattutto per le relazioni economiche internazionali. La
dimostrazione delle capacità dell'industria italiana sia in termini di
immagini che sostanziali...".
Per il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato,
"è la premessa per portare a termine gli investimenti avviati nei siti
produttivi di Grugliasco e Melfi e concretizzare quelli recentemente
annunciati sul sito di Mirafiori". "L'operazione - prosegue Zanonato - perseguita con determinazione dalla proprietà e dal management di Fiat
nel corso di questi anni, dimostra come il nostro Paese abbia nel
proprio patrimonio industriale e tecnologico una forza competitiva di
primissimo piano, grazie alla quale è stato possibile costruire un
produttore di autovetture di importanza globale". "Come Governo - conclude il ministro - siamo pronti a supportare le
strategie di crescita e occupazione di questa grande multinazionale
dell'auto che si è venuta a creare".
Ancora una volta il governo, ora Letta in proseguimento della politica verso Marchionne di Berlusconi, si mette al servizio della Fiat. Lo ha fatto prima, permettendo a Marchionne di dettare la "sua" legge in fatto di chiusura impianti, cassintegrazione massiccia e soprattutto di nuova strategia contrattuale di azzeramento di diritti dei lavoratori e sindacali fondamentali; lo fa ora al servizio delle strategie di Marchionne. Ma come allora la crescita è servita solo ai profitti della Fiat e ha peggiorato le condizioni di lavoro e salariali degli operai, così ora investimenti Fiat e occupazione non sono affatto l'una conseguenza degli altri.
"Tra le organizzazioni dei lavoratori italiani, esultano Cisl e Uil. Per la prima, parla il segretario Raffaele Bonanni,
che sottolinea: "Se la Fiat è ora con l'acquisto definitivo della
Chrysler un gruppo 'globale' è anche merito dei sindacati italiani... Spero che
adesso l'opinione pubblica italiana riconosca l'errore di aver
bistrattato la strategia di Marchionne e l'azione responsabile della
Cisl e degli altri sindacati in questi anni... Se oggi la Fiat è un vero gruppo
globale è anche merito nostro". “La Fiat
avrà certamente più risorse da destinare agli investimenti in Italia,
con positive ricadute anche per l’indotto. Sul piano
produttivo tutti sanno che gli stabilimenti negli Stati Uniti sono
saturi, quindi ci saranno ampi margini di produzione per tutti gli
stabilimenti italiani attraverso i nuovi modelli già annunciati di alta
gamma, ma anche per la 500 e gli altri modelli”.
Gli fa eco Luigi Angeletti della Uil: "E' un evento storico. Un'azienda forte, solida dal punto di vista
finanziario avrà risorse per investire anche in Italia, vendere su tutti
i mercati e garantire tutti i posti di lavoro... Ora mi aspetto che, come è
stato già assicurato, Fiat faccia gli investimenti negli stabilimenti
italiani, con l'augurio che le macchine vengano poi vendute. Non basta
infatti investire e produrre ma bisogna soprattutto vendere...".
Sicuramente non vogliamo togliere il "merito", di cui parla Bonanni, di questi sindacati per i risultati di Marchionne. A loro devono ringraziare gli operai di Pomigliano e di Mirafiori ancora in cassintegrazione, come gli altri operai di Pomigliano confinati, ma come gli stessi operai che lavorano in un clima da fascismo padronale, in fabbriche in cui vige il potere repressivo e ricattatorio dei capi, sempre controllati, minacciati di sanzioni, con i sindacati, cisl, uil, ma anche fismic che fanno da portavoci dell'azienda.
Bonanni e Angeletti poi sparano cazzate di ottimismo: la Fiat anche con questa operazione Chrysler non è affatto un "azienda solida": ha fatto un'operazione di finanziaria in cui in realtà ha sborsato di soldi liquidi solo 1,7 miliardi, mentre il debito resta a circa 10 miliardi; lo stesso dicasi per i "mercati", dove i dati di vendita restano bassi mentre alta è la concorrenza (tant'è che ad un certo punto Angeletti, per un attimo di realismo, parla di "augurio" che le macchine vengano vendute...)
Poi questi servi di Marchionne fanno dello "spirito ad un funerale" quando parlano di garanzia di tutti i posti di lavoro e addirittura di "positive ricadute anche per l'indotto", parole dette quasi in contemporanea all'arrivo delle lettere di licenziamento a 174 operai della Lear e della Clerprem, aziende che ruotavano attorno all’impianto siciliano di Termini Imerese, specializzate nella produzione di sedili e imbottiture.
Ma ancora più ipocrita è la Camusso, che cerca di mantenere le "distanze", ma poi si unisce, come sempre, alle politiche di cisl e uil.
"E' più cauto il segretario Cgil Susanna Camusso. La Camusso, spiega che l'acquisizione è "un fatto di grande rilevanza, anche in ragione delle sinergie possibili e auspicabili sui mercati mondiali... mi auguro che la Fiat possa davvero diventare una protagonista globale dell'industria dell'auto. Ora servono chiarimenti sul futuro in italia... è indispensabile che Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese, come gli stabilimenti italiani possano trovare la loro collocazione produttiva nel gruppo, così come auspichiamo che la direzione dell'impresa... resti italiana e mantenga una presenza qualificata in Italia... i modelli di qualità con cui il marchio è presente sul mercato globale “da soli questi non garantiscono un futuro agli stabilimenti italiani”. Per questo è necessario che gli investimenti “siano finalizzati a progettare nuovi modelli da lanciare sul mercato in grado di saturare la capacità produttiva italiana”. "Detto questo, non vorrei che si dimenticasse il prezzo pagato dall'Italia e dai lavoratori affinchè Sergio Marchionne realizzasse la sua strategia... So per certo che i lavoratori e il Paese hanno già pagato le scelte del Lingotto... Non abbiamo avuto gli investimenti di Fabbrica Italia, mentre sono state chiuse Termini Imerese e Irisbus. Tutti gli impianti sono stati colpiti dalla cassa integrazione e in grandi fabbriche rimangono gravi incognite sulle missioni produttive. Le scelte della Fiat, in una fase di crisi grave, hanno lasciato irrisolti problemi di reindustrializzazione e occupazione da cui Torino non può chiamarsi fuori..".
Intanto c'è da notare lo spirito ultranazionalista della Camusso: il problema è l'Italia, che la Fiat resti italiana e unica sul mercato mondiale, ecc.; una linea vergognosa che dice agli operai italiani di guardare solo a sè stessi di fregarsene di cosa succederebbe agli altri operai di altre aziende nel mondo, che quindi spinge alla concorrenza, alla guerra tra lavoratori; proprio quella guerra che vogliono i capitalisti, che ha usato Marchionne in Italia tra stabilimenti e stabilimenti e che nella stessa maniera viene usata a livello internazionale, una "guerra tra operai" in cui chi ci guadagnano sono solo i padroni e gli operai perdono sia in Italia che negli Usa, o altrove.
Poi la Camusso sciorina la condizione degli operai, chiedendo a Marchionne di non dimenticarsi del prezzo da loro pagato. Ma Marchionne, sia pur certa la Camusso, non se ne dimentica certo, nè per il passato nè per il futuro. La Fiat sa bene che il "salto" negli Usa è stato possibile grazie alla politica di devastazione di posti di lavoro e diritti fatta contro gli operai in Italia; e se tanto mi dà tanto, i maggiori profitti frutto di questa "svolta" nella Chrysler Marchionne li farà continuando la sua "guerra di classe", a cui la Cgil sia prima che dopo oppone solo parole, opponendosi non ai piani Fiat ma agli operai che vorrebbero fare la loro guerra di classe.
Infine, è penosa la Fiom:
"...interviene, a ruota, la Fiom piemontese: "...Ora non ci sono più alibi, la Fiat dica cosa intende
fare", l'accordo già fissato per il 9
gennaio tra azienda e Fiom "è l'occasione per avviare il confronto sul
futuro delle fabbriche italiane".
Aggiunge il coordinatore Fiat della Fiom, Michele de Palma.
"Ora la Fiat può giocare a mano libera. La testa del gruppo rimarrà in
Italia? La capacità installata di produzione sarà confermata? Avremo
finalmente una missione industriale anche per Mirafiori e Cassino? Il
governo dovrebbe convocare tutte le parti al tavolo e chiedere garanzie
sul futuro degli stabilimenti italiani".
La Fiom fa domande lasciando tranquillamente che Marchionne e governo (amico della Fiat) rispondano. Certo che "ora la Fiat può giocare a mano libera", ma questo per gli operai non è affatto positivo, perchè la prima e unica libertà che Marchionne vuole è quella di fare profitti. E su questo sa giocare molto bene, come ha già dimostrato. Ma la Fiom è patetica, nonostante che direttamente abbia pagato il prezzo di questa "libertà" - e l'hanno pagata soprattutto gli operai iscritti Fiom - fa la parte del questuante sciocco.
pc 3 gennaio - FORTI MANIFESTAZIONI A CALCUTTA E NEW DELHI CONTRO LA POLIZIA
India - migliaia di donne, ragazze, ma anche tanti uomini in piazza dopo la morte della ragazza di 16 anni, stuprata e bruciata e morta il 31 dicembre, perchè aveva avuto il coraggio di denunciare gli stupri di un branco di uomini e di non ritirare la denuncia nonostante le forti minacce subite.
Ma la rabbia sia dei familiari che della gente si è scagliata soprattutto contro la polizia, complice degli stupri e assassini che sempre più colpiscono le ragazze, anche le bambine in India - ogni 20 minuti una donna viene stuprata! Anche in questo caso la polizia è stata di fatto il mandante dell'uccisione della ragazza, fin dal primo momento ha coperto gli stupratori perchè, si dice, legati al partito del governo, il Trinamool Congress; la polizia non ha fatto nulla non solo dopo gli stupri ma anche dopo le minacce ricevute dalla famiglia della ragazza perchè lasciasse la città. Dopo il primo stupro la polizia ha trattenuto per un'intera notte la ragazza facendole pressione perchè ritirasse la denuncia, così la seconda volta che la ragazza è andata alla polizia per denunciare l'uleriore stupro, la polizia le ha semplicemente fatto firmare un foglio in una lingua a lei sconosciuta, e ancora un avolta non ha fatto nulla. "Se il governo avesse agito contro i criminali, la ragazza si sarebbe potuta salvare", ha dichiarato l'Associazione di tutte le donne democratiche dell'India.
In realtà il governo dell'India ha solo, costretta dalle imponenti manifestazioni di un anno fa, fatto delle leggi per cercare di frenare le forti proteste che anche allora colpivano il governo e la polizia, ma rimane il primo responsabile, carnefice di questa strage di donne. Le stesse leggi vengono in realtà usate per aumentare la presenza/controllo della polizia, dei soldati, per la repressione in generale che si rivolge proprio contro le donne, i giovani, le masse che si ribellano e lottano
Ma la rabbia sia dei familiari che della gente si è scagliata soprattutto contro la polizia, complice degli stupri e assassini che sempre più colpiscono le ragazze, anche le bambine in India - ogni 20 minuti una donna viene stuprata! Anche in questo caso la polizia è stata di fatto il mandante dell'uccisione della ragazza, fin dal primo momento ha coperto gli stupratori perchè, si dice, legati al partito del governo, il Trinamool Congress; la polizia non ha fatto nulla non solo dopo gli stupri ma anche dopo le minacce ricevute dalla famiglia della ragazza perchè lasciasse la città. Dopo il primo stupro la polizia ha trattenuto per un'intera notte la ragazza facendole pressione perchè ritirasse la denuncia, così la seconda volta che la ragazza è andata alla polizia per denunciare l'uleriore stupro, la polizia le ha semplicemente fatto firmare un foglio in una lingua a lei sconosciuta, e ancora un avolta non ha fatto nulla. "Se il governo avesse agito contro i criminali, la ragazza si sarebbe potuta salvare", ha dichiarato l'Associazione di tutte le donne democratiche dell'India.
In realtà il governo dell'India ha solo, costretta dalle imponenti manifestazioni di un anno fa, fatto delle leggi per cercare di frenare le forti proteste che anche allora colpivano il governo e la polizia, ma rimane il primo responsabile, carnefice di questa strage di donne. Le stesse leggi vengono in realtà usate per aumentare la presenza/controllo della polizia, dei soldati, per la repressione in generale che si rivolge proprio contro le donne, i giovani, le masse che si ribellano e lottano
In
India il governo al potere è uno dei più reazionari del mondo, al
servizio della sete inarrestabile di profitto e di ricchezza dei
propri grandi capitalisti e delle grandi multinazionali dei paesi
imperialisti.
Tutto
questo per la maggioranza del popolo indiano si traduce in pesanti
condizioni di vita fatte di miseria, sfruttamento, oppressione,
feroce repressione e in particolare verso le donne.
"Dovremmo
sentirci più sicure in uno stato di polizia? - dice la giornalista
indiana Kalpana Sharma - Considera che tra l'80 e il 90 per cento
delle violenze sessuali denunciate sono attribuite ad un uomo noto
alla vittima: parente, vicino di casa, amico di famiglia...". E
sono proprio i poliziotti che alle donne che denunciano queste
violenze rispondono, come è accaduto anche ora in India, o di
stare zitte e addirittura accettare il matrimonio riparatore con lo
stupratore, o attaccando le stesse donne perchè loro avrebbero
provocato, uscendo la sera, o per come andavano vestite...".
Ma soprattutto le forze armate in India hanno nello stupro una delle più bestiali armi di
guerra contro le masse popolari. Nelle vastissime zone
dell'India fuori dalle mega città, e soprattutto nelle zone dove è
in corso la guerra popolare, gli stupri, le uccisioni delle donne da parte delle forze militari sono una
normalità, così come gli stupri
che accompagnano sempre le torture quando le donne che fanno la guerra popolare vengono arrestate.
Moltissime donne, compagne hanno fatto, però, della violenza, degli stupri subiti la leva per ribellarsi. E oggi costituiscono una parte importante della guerra rivoluzionaria lottando contro il governo, lo Stato indiano.Ed è questa guerra popolare rivoluzionaria che deve arrivare anche nelle grandi città ed essere la vera risposta a questa sporca guerra dello Stato indiano.
pc 3 gennaio - FIAT/CHRYSLER AL 100%... CONTRO GLI OPERAI!
Gli operai licenziati della Lear, indotto Fiat di Termini Imerese, da un lato, e il sorriso degli Agnelli dall'altro, è questa l'immagine, riportata da alcuni telegiornali di ieri, che più si avvicina al significato vero del colpo della famiglia Agnelli/Elkann guidata da Marchionne nell'acquisto del 100% della Chrysler. Gli operai licenziati e in cassa integrazione da un lato e la Fiat/Chrysler dall'altro, (e i sindacalisti Bonanni e Angeletti applaudono mentre la Camusso ancora si chiede che cosa intende fare Marchionne!!!).
Gli operai perdono, sia
negli Stati Uniti che in Italia, e la Fiat/Chrysler vince in questa
battaglia. E le chiacchiere di tutti i politici, i sindacalisti e dei
pennivendoli dell'informazione sull'abilità di Marchionne servono a
far dimenticare l'esistenza degli operai e a confondere le acque sul
tipo di operazione portata avanti. Meno male che tra di loro
qualcuno, tra un elogio e l'altro dice anche qualcosa di vero...
Stiamo parlando di uno degli articoli del sole24ore di ieri che dice:
“Vince l'abilità negoziale del manager” che è stato capace di
aspettare il momento buono. E il momento buono, quello dello
sciacallo, è arrivato: detta con le parole del giornalista: “Fonti
a Wall Street ci fanno capire che uno degli assi nella manica di
Marchionne era anche la debolezza finanziaria di Veba, i conti da
pagare sono enormi, il fondo medico era in difficoltà e non poteva
permettersi di aspettare troppo a lungo.” Ecco il segreto di
Marchionne!
Quindi, siccome il fondo
pensionistico Veba era in difficoltà dal punto di vista finanziario
e non si potevano pagare più l'assistenza e le spese mediche degli
operai, i dirigenti del fondo sono stati costretti ad accettare
l'offerta di Marchionne di 3 miliardi e 700 milioni di dollari invece
dei 5 miliardi richiesti che era il valore del 41,5% delle azioni
ancora in mano al fondo.
Quindi gli operai
americani che già avevano rinunciato a molti diritti “per salvare
la fabbrica” (licenziamenti, salari più bassi per chi è rimasto,
divieto di sciopero fino al 2015...) con un peggioramento generale
delle loro condizioni di lavoro, e conseguentemente di vita, hanno
dovuto piegare la testa anche su questo. E non è ancora finita, dato
che il sindacato dell'auto americano Uaw (United Automobile Workers)
si è dovuto impegnare anche in altro: “la Uaw assumerà alcuni
impegni finalizzati a sostenere le attività industriali di Chrysler
e l'ulteriore implementazione dell'alleanza Fiat-Chrysler – si
legge nella nota – tra cui l'impegno ad adoperarsi e collaborare
affinché prosegua l'implementazione dei programmi di world class
manufacturing [uno dei metodi per sfruttare al meglio la forza lavoro
riducendo tutti i costi] e a contribuire attivamente al
raggiungimento del piano industriale di lungo termine del gruppo”.
A quante cose devono ancora rinunciare gli operai?
Quanto l'operazione sia
positiva per le casse degli Agnelli ce lo dicono la “grande
soddisfazione da parte del Lingotto” come dice il giornalista, che
conferma quanto tutto l'andamento della “contrattazione” sia
servito a fare risparmiare soldi agli Agnelli che non ha dovuto
uscire soldi per ricapitalizzare, cioè per rafforzare
finanziariamente l'azienda aggiungendo altri capitali; il tutto si
deve chiudere entro 20 gennaio prossimo:
la cifra complessiva
dell'accordo è di 4 miliardi e 350 milioni di dollari;
dalle casse della Fiat
escono in contanti solo 1 miliardo e 750 milioni;
il resto somiglia molto
ad una grande presa in giro perché sarà pagato dalla liquidità
presente nelle casse della Chrysler con dividendo straordinario da
1,9 miliardi di dollari, e cioè la Fiat paga il fondo Veba con gli
stessi soldi degli operai!