AFGHANISTAN
Sahebullah, Wasihullah e Amanullah non erano Talebani
pericolosi, ma tre dei cinque giovani uccisi a Saracha, venerdì 4 ottobre, da
un raid aereo delle forze Isaf-Nato
JALALABAD (BESHUD). Saracha è un villaggio di contadini del
distretto di Beshud, alle porte di Jalalabad, la principale città della
provincia orientale di Nangarhar, a due passi dal confine con il Pakistan. Per
raggiungerlo si deve lasciare il congestionato centro della città, puntare
verso sud-est e costeggiare le alte mura di cemento dell'aeroporto di
Jalalabad, che ospita una base militare americana e include la Forward
Operating Base Fenty, uno dei centri strategici della guerra: da qui partono
molti dei silenziosi e micidiali droni diretti in Afghanistan e Pakistan;
questa diventerà una delle basi principali degli americani, se la Loya Jirga
afghana (il gran consiglio) accorderà l'immunità ai soldati a stelle e strisce
per il post-2014, come chiesto dal segretario di Stato Kerry, pochi giorni fa a
Kabul.
Superato l'aeroporto, continuando per un paio di chilometri,
sulla sinistra si affaccia una stradina sterrata che porta a Saracha. Stretta
tra due case, sembra una via chiusa, senza uscita, ma una volta imboccata si
apre su campi rigogliosi, per poi passare accanto al cimitero del villaggio. Da
qualche giorno, nel cimitero ci sono tre nuove tombe, tre cumuli di terra alti
ricoperti di arbusti per evitare che i cani randagi scavino in cerca di carne
non ancora decomposta. Lì sotto ci sono i corpi senza vita di Sahebullah, Wasihullah
e Amanullah, tre dei cinque ragazzi uccisi a Saracha venerdì 4 ottobre da un
attacco aereo dalle forze Isaf-Nato. Per i soldati stranieri erano
"insurgents", Talebani, pericolosi terroristi. Per gli abitanti di
Saracha sono dei martiri, uccisi senza ragione. Così recita lo stendardo bianco
su cui sono impressi i loro nomi, la loro età, i versetti del Corano.
Il luogo del raid e le cinque vittime
Wasihullah ed Amanullah erano fratelli. Vivevano in una casa
in mezzo ai campi, a un chilometro dal cimitero, insieme ad altri quattro
fratelli e a quattro sorelle. É una famiglia contadina, numerosa, quella di
Qasim Hazrat Khan, il padre di Wasihullah e Amanullah. Mi viene incontro
sudato, con un camicione marrone sgualcito, appiccicato alla pelle a causa dell'umidità.
Mi conduce subito sul luogo dell'attacco aereo, in uno spiazzale dietro casa.
Mi indica i posti dove ognuno dei ragazzi era seduto quella sera. Mostra sul
terreno i fori dei proiettili. Ne conto almeno una ventina, lunghi una decina
di centimetri, profondi. Raccolgo i resti di alcuni dei proiettili usati, pezzi
di metallo deformati dall'esplosione. I colpi sono arrivati fin quasi alla
casa. Quello più vicino alle mura è ai piedi di una balla di fieno, davanti a
una tettoia sotto la quale una mucca, due vitellini e qualche gallina
spelacchiata si proteggono dal sole. «Questa è la nostra casa, la nostra vita.
Siamo gente che lavora la terra. É un posto tranquillo, pacifico, questo»,
ripete Qasim Hazrat Khan, che ancora non si capacita di quel che è successo.
Ci sediamo dall'altro lato della casa, su tre letti con le
corde intrecciate, addossati alle pareti esterne. Qasim Hazrat Khan racconta di
quella sera, dei suoi figli. Amanullah aveva 21-22 anni (da queste parti
l'anagrafe non esiste, nei villaggi molti non hanno carta d'identità). Aveva
studiato fino all'ultima classe delle 'superiori', la dodicesima, poi si era
messo a lavorare (il padre mostra un tesserino secondo il quale Amanullah
lavorava per le forze governative afghane, dal 4 marzo 2013). Era sposato e
aveva tre figlie. Suo fratello Wasihullah aveva 10 anni, frequentava il quinto
anno in una scuola del villaggio di Samarkheel, poco distante. Quella sera era
contento perché c'era anche un suo amichetto, Sahebullah, un ragazzino di 14
anni. Sahebullah era andato a scuola fino alla settima classe, ma da qualche
mese «stava facendo un apprendistato in un'officina di Jalalabad per imparare
il mestiere di fabbro». A raccontarmelo è Nader Shah, suo fratello. Ha 35 anni,
indossa un abito marrone, in testa ha il tradizionale cappello pakul. Viene a
sedersi insieme a noi, porta con sé la foto incorniciata del fratellino: «Prima
che Sahebullah jan morisse, eravamo 9 fratelli e una sola sorella», spiega,
senza riuscire a trattenere le lacrime.
Con i fratelli Wasihullah e Amanullah e l'amichetto
Sahebullah, quella sera c'erano altri due ragazzini: Asadullah Delsos e Gul
Nabi. Il primo, cugino dei due fratelli, «14 anni, aspettava che gli
crescessero i baffetti sulle labbra», mi dicono; l'altro, racconta Qasim Hazrat
Khan, «era un ragazzino di 15 anni, la cui famiglia si è trasferita qui da
Pachir, nel distretto di Khogyani. Da un po' di tempo lui faceva il carpentiere
a Kabul, ma tornava ogni volta che bisognava lavorare la terra».
L'attacco delle forze occidentali
La sera di venerdì 4 ottobre, sul piazzale aperto alle
spalle della casa di Qasim Hazrat Khan c'erano tre ragazzini sui 15 anni, un
ragazzo di 21 e un bambino di 10. Avevano passato la serata «a sparare agli
uccelli con dei badì (fucili da caccia, ndr). Da queste parti è normale, lo
abbiamo sempre fatto. Non erano mica degli yaghì (ribelli, ndr) i miei
ragazzi».
Poi, improvvisamente, gli spari dall'alto, ricorda Qasim
Hazrat Khan. «Erano le 21.40-22 quando ho sentito la prima di tre lunghe
sequenze di spari. Stavo dormendo e mi sono alzato. Sono seguiti dei minuti di
silenzio. Sono salito sul tetto per vedere meglio. Ho visto almeno due
elicotteri e, più in lontananza, gli aerei senza pilota. Poi c'è stata una
seconda sequenza di spari. I bambini hanno cominciato a piangere. Ho spinto
dentro quelli che erano saliti sul tetto. Sono risalito. Vedevo solo le luci
rosse sul terreno sotto casa».
Qasim Hazrat Khan racconta della terza raffica, della
concitazione, delle telefonate fatte agli amici per capire come comportarsi,
del sangue che inspiegabilmente gli colava sulla bocca, delle voci che si
accavallavano e che non riusciva a decifrare. E poi di quella frase terribile,
distinta tra le altre: «I tuoi figli sono morti». È uscito di casa, correndo verso
i figli. Lo hanno trattenuto: «C'erano tantissimi soldati stranieri, con armi
pesanti. Mi dicevano di non avvicinarmi, ché mi avrebbero sparato. I miei figli
erano a 10 metri
di distanza, gli americani scattavano fotografie, io non potevo neanche accertarmi
che fossero proprio i loro, quei corpi insanguinati». «Sono rimasti lì a
lungo», aggiunge Nader Shah, il fratello maggiore del piccolo Sahebullah.
«L'attacco c'è stato verso le 10 di sera, i corpi sono stati portati
all'ospedale di Jalalabad soltanto verso l'una e 40 del mattino, quando hanno
ordinato ai funzionari afghani - chiamati da noi - di prelevarli. Siamo
riusciti a riprendere i corpi dei nostri ragazzi solo verso le 2.30 del
mattino», dice Nader Shah. «Io stesso mi sono occupato di lavarli e di pulirli
con il cotone».
I familiari di Asadullah, 14 anni
È all'ospedale che i familiari del piccolo Asadullah hanno
saputo che era morto. Lo avevano affidato al cugino Amanullah, lo credevano al
sicuro, felice. Li incontro in un quartiere periferico di Jalalabad. Nel
cortile interno di casa mi accolgono in 17. A parlare con me sono soprattutto il padre
di Asadullah, Dagarwal Khan Agha, e suo fratello maggiore, 'Malim' Said Agha.
Sono i due uomini più anziani della famiglia. Dagarwal Khan Agha è ancora confuso.
Ha gli occhi stanchi, le occhiaie profonde, il volto segnato da notti insonni e
tormentate. Si guarda intorno smarrito, come se cercasse suo figlio Asadullah
tra tutti questi ragazzi dai capelli scuri. Parla poco, e poco volentieri,
Dagarwal Khan Agha, logista nel carcere di Jalalabad. Lo fa solo per ricordare
Asadullah: «Frequentava l'undicesima classe alla Nazrat High School, qui a
Jalalabad, aveva 14-15 anni. Gli piaceva studiare, era bravo, seguiva anche dei
corsi di inglese e computer perché voleva ottenere una buona posizione in
futuro. Per aiutare il suo paese». Venerdì 4 ottobre, come molte altre volte,
Asadullah era andato a dormire dai cugini, «succedeva spesso, specie nei giorni
di festa, il giovedì e il venerdì». Quella notte suo padre ha ricevuto una
telefonata dai parenti di Saracha, verso le 2.30 del mattino. «Mi dicevano che
stava male, che sarei dovuto andare all'ospedale. Quando sono arrivato lì, mi
hanno avvertito che avrei trovato il corpo di mio figlio nella camera
mortuaria», racconta Dagarwal Khan Agha, che ancora non ha capito cosa sia
successo quella sera. «Nessuno è riuscito a spiegarmelo. Sono andato a Saracha,
per cercare di capire come e perché mio figlio è morto. Ma è stato inutile».
Le giustificazioni dei comandi
Inutili gli sono apparse anche le parole dei portavoce
Isaf-Nato. Già il giorno successivo all'attacco aereo, sabato 5 ottobre,
dall'ufficio del presidente Karzai è partita una dichiarazione di condanna
dell'operazione condotta dalle forze Isaf-Nato. Le autorità locali di Nangarhar
parlavano infatti di vittime civili, di ragazzi innocenti. Il tenente
colonnello Will Griffin, uno dei portavoce Isaf-Nato, intervistato dall'agenzia
France Press replicava dicendo che non gli risultavano vittime civili. I
dispacci ufficiali recitavano il solito mantra: attacco aereo di precisione,
chirurgico, a danno di «insurgents». «Erano bambini, non sapevano niente di
come si fa una guerra, non volevano farla. Erano a due passi da casa. Non si
nascondevano. Non avevano fatto niente di male. Sono stati uccisi dei ragazzini
innocenti», risponde stizzito lo zio di Asadullah, 'Malim' Said Agha. Il quale
ricorda anche l'inchiesta condotta dalle autorità afghane, «da cui risulta che
erano del tutto innocenti». Raggiunto al telefono, Ahmad Zia Abdulzai,
portavoce del governatore della provincia di Nangarhar, conferma che «il
vice-governatore di Nangarhar, Mohammed Hanif Gardiwal, ha mandato un suo uomo
nell'area dell'incidente, insieme a un rappresentante del ministero
dell'Interno su richiesta del presidente Karzai». La loro inchiesta ha
dimostrato che «i cinque ragazzi uccisi non erano legati agli insorti».
L'«errore» riconosciuto. In privato
Secondo quanto racconta Qasim Hazrat Khan - il padre di
Amanullah e Wasihullah -, i rappresentanti delle forze Isaf-Nato avrebbero
riconosciuto l'errore già martedì 8 ottobre, ma solo in privato. «Uno dei
responsabili dell'aeroporto militare, un americano, mi ha invitato a
raggiungerlo nel suo ufficio, insieme a un traduttore. Lì, ha ammesso che i nostri
figli erano stati uccisi per un errore». Qasim Hazrat Khan dice di aver fatto
molte domande al «comandante americano» (di cui non sa dire il nome): «Una
volta George Bush ha sostenuto che gli americani sono capaci di trovare perfino
lo spillo di un ago sulla faccia della terra. Ma allora perché non distinguono
le armi dei Talebani dai badì dei nostri ragazzi? Questo gli ho chiesto. E poi
gli ho domandato perché non hanno provato a prenderli vivi. Perché ucciderli
così?». Quando il «comandante americano» gli ha chiesto che cosa si aspettasse
da lui, ora che i suoi figli erano morti, Qasim Hazrat Khan è stato netto:
«Consegnateci i due piloti degli elicotteri che hanno ucciso i miei figli, mio
nipote e gli altri ragazzi, gli ho risposto. Li tratteremo come prevede la
nostra cultura, come insegna il Corano e prescrivono gli Hadith. Ve li
riconsegneremo chiedendo scusa, come fanno gli americani con noi». Il
comandante ha risposto che era impossibile, ma ha aggiunto che avrebbe potuto
parlarne con dei funzionari più importanti di lui, in un altro incontro.
L'offerta di «compensazione»
Quell'incontro si è svolto mercoledì 9 ottobre, nel palazzo
del governatore di Nangarhar. A partecipare erano in molti: per qualche minuto
il governatore uscente Gul Agha Sherzai (dimessosi pochi giorni fa per
partecipare alle elezioni presidenziali); il vice-governatore, Mohammed Hanif
Gardiwal; diversi rappresentanti delle forze di sicurezza afghane, tra cui
Fazil Ahmad Sherzad, responsabile per la sicurezza nella provincia di Nangarhar,
il colonnello Sahib Khan, a capo della sicurezza nel distretto di Beshud, il
generale Abdul Rahman, rappresentante del ministero degli Interni, venuto da
Kabul. Oltre a loro, c'erano cinque "elders" (gli anziani a capo
delle Jirga tribali, i consigli locali); i parenti di tutte e cinque i ragazzi
uccisi; due alti rappresentanti delle forze Isaf-Nato, i cui nomi non sono
noti. «Per la nostra famiglia ho partecipato io, in quanto membro più anziano»,
ricorda 'Malim' Said Agha. «Gli americani si sono scusati, hanno ammesso di
aver ucciso degli innocenti, ci hanno promesso che ci avrebbero aiutato». Anche
Qasim Hazrat Khan sostiene che i rappresentanti Isaf-Nato abbiamo ammesso
l'errore, nell'incontro di mercoledì 9 ottobre: «Ci hanno chiesto scusa, davanti
a tutti», ricorda. Ahmad Zia Abdulzai, portavoce del governatore di Nangarhar,
al telefono conferma anche questo: «Gli americani hanno presentato le loro
scuse davanti ai familiari delle vittime e davanti alle autorità di Nangarhar».
Ho chiesto conferma anche al tenente colonnello Will Griffin, portavoce
Isaf-Nato, responsabile Press Desk al quartier generale di Isaf-Public Affairs.
La sua risposta è questa: «l'incidente a cui si riferisce è ancora sotto esame.
Sarebbe inappropriato commentarlo ora».
I parenti delle vittime chiedono...
I parenti delle vittime concordano nel dire di aver ricevuto
delle offerte alla fine dell'incontro, come «compensazione» per le perdite
subite. «Gli americani ci hanno detto che ci avrebbero aiutato, ci avevano
portato delle cose utili e altre ce ne avrebbero portate. No, non ci hanno
offerto del denaro. Ma all'uscita c'erano delle automobili cariche di sacchi.
Siamo stati tutti d'accordo nel rifiutare: siamo poveri ma non vendiamo il
nostro stesso sangue», sostiene 'Malim' Said Agha. «Al governatore e al suo
vice, che insistevano perché accettassimo qualcosa, abbiamo detto che avrebbero
fatto meglio a costruire una madrasa, una moschea, un ospedale, qualcosa di
utile per la gente di qui, dedicato alla memoria dei nostri martiri». L'unica
richiesta dei parenti delle vittime, sostiene 'Malim' Said Agha, «è vedere i
soldati colpevoli sotto processo. Molte volte gli americani, qui e altrove,
hanno ucciso donne e bambini, innocenti, e poi chiesto scusa. É tempo che tutto
questo finisca. É tempo che paghino per le loro azioni». «La nostra richiesta
l'abbiamo già fatta», ribadisce Qasim Hazrat Khan mentre ci avviamo verso le
tombe dei suoi figli, a Saracha. «Che ci consegnino i piloti, o che li
consegnino a qualche tribunale afghano. Devono rispondere di quel che hanno
fatto di fronte alla nostra legge, non a quella degli americani», mi dice
convinto. Arriviamo alle tombe. Ci fermiamo. Qasim Hazrat Khan e Nader Shah
pregano, le braccia allargate, le palme delle mani rivolte verso l'alto. «É qui
che sabato mattina abbiamo tenuto la cerimonia funebre. Ogni mattina si
presentano i nostri parenti, gli amici, perfino persone sconosciute per pregare
per i nostri ragazzi». Il villaggio è già stato ribattezzato, spiega Nader
Shah: «Ora si chiama Saracha Deh Shaidano Qalae»: Saracha, il villaggio dei
martiri.
il manifesto
17/10/13