Continuiamo la pubblicazione degli interventi all'assemblea di Taranto promossa dalla Rete
LEO CORVACE
LEGA AMBIENTE TARANTO
Sono della Lega Ambiente di Taranto, ma in passato sono stato anche operaio dell’indotto Ilva e rappresentante sindacale. Quindi diciamo che sono un ambientalista ma sono stato anche diversi anni in fabbrica e ho condiviso anche l’esperienza operaia.
In generale Taranto è un emblema dello sfruttamento capitalistico nel nostro paese. È stata terreno degli interventi per lo “sviluppo” del Meridione negli anni ’50, quella industrializzazione forzata del Meridione, che a distanza di 50 anni possiamo vedere che ha prodotto reddito ma non ha creato sviluppo, in quanto intorno a queste fabbriche non si è creato un indotto, queste fabbriche non sono state moltiplicatrici di altre esperienze industriali o artigianali, ma hanno prodotto soprattutto inquinamento e anche disoccupazione negli altri settori.
Possiamo definire questo tipo di sviluppo come interno a una divisione del lavoro preesistente agli anni ’50 e ’60 per cui le produzioni più nocive si collocavano nel Sud del mondo, e, nel nostro caso, nel Sud dell’Italia.
Questa industrializzazione ha comportato un pesante sfruttamento della forza lavoro, soprattutto negli anni ’60 e ’70, perché le lotte sindacali di allora se sono riuscite a ottenere alcune conquiste, non sono riuscite a spezzare la catena della micro parcellizzazione degli appalti, responsabile anche di tante morti in fabbrica. A metà anni ’70 si avevano qualcosa come 500 micro aziende attive nell’appalto e subappalto, che moltiplicavano anche i problemi di sicurezza.
Oggi Taranto, grazie soprattutto alla grande mobilitazione delle varie associazioni e comitati ambientalisti, è finalmente diventata questione di rilievo nazionale, un obiettivo che da tanto tempo ci eravamo prefissi. E la questione Taranto negli ultimi tempi ha contribuito a riproporre a livello nazionale la questione del rapporto tra industria e ambiente. Una questione negli ultimi anni completamente assente nel dibattito nazionale. Il valore nazionale della questione Taranto sta proprio nel risollevare con forza la questione di questo rapporto.
Per noi Lega Ambiente il problema non è mai stato anteporre la salute prima del lavoro o viceversa. Abbiamo sempre ritenuto importante la salvaguardia della salute della popolazione, cosi come la salvaguardia dei lavoratori, così come il lavoro delle persone. Abbiamo sempre ritenuto la questione ambientale strettamente legata alla questione sociale e che le due questioni dovevano essere affrontate parallelamente e intrecciate.
Abbiamo affermato che oggi, per effetto di quel tipo di industrializzazione, permangono un altro livello di disoccupazione, ufficialmente intorno al 22-23% e un altissimo tasso di inquinamento. Siamo perciò di fronte a un sistema che in nessun modo possiamo considerare sostenibile né dal punto di vista ambientale, né occupazionale. Lo stanno a dimostrare la dichiarazione risalente già al ’90 e reiterata nel ’98, di Taranto come area ad elevato rischio ambientale, le ordinanze di divieto di pascolo nel raggio di 20 km dalla cintura della città, l’interdizione della mitilicoltura nelle acque del Mar Piccolo, quella che era stata un’icona di eccellenza.
Taranto non è strategica solo perché tale l’ha definita un decreto del governo. Taranto, la sua produzione di acciaio è strategica anche per applicare un modello di sviluppo alternativo, basta pensare un sistema di mobilità alternativo centrato sul trasporto su rotaia invece che su gomma, che richiede massiccia produzione di acciaio. Taranto è strategica perché sede del porto militare più importante del Mediterraneo, dopo quello della Nato in Turchia. È il sito delle riserve strategiche di idrocarburi della nazione, ecc.
Eppure, a fronte di questa strategicità su tanti fronti, abbiamo avuto un territorio abbandonato a sé stesso, con un industria che oltre l’Ilva conta anche la raffineria, due centrali termoelettriche per un parco complessivo di 1.100 megawatt, più le due interne alla stessa Ilva e alla Raffineria; un grande cementificio più altri più piccoli, tre inceneritori, due discariche di rifiuti solidi urbani, tre di rifiuti speciali, usate principalmente per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, l’80% dei rifiuti speciali stoccati in provincia di Taranto viene da fuori regione e solo il 10% proviene dalla stessa provincia, oltre alle mega discariche che, ricordate, servono per i residui della lavorazione dell’Ilva.
Venendo alle ultime vicende, noi abbiamo sempre sostenuto le inchieste della Magistratura. Abbiamo sempre affermato che quegli impianti andavano fermati, come disposto dai provvedimenti della Magistratura, ma chiarendo bene che per noi si tratta di fermata, non di chiusura. Abbiamo sempre sostenuto che alla fermata deve seguire il risanamento degli impianti, non la chiusura.
È’ ben noto che tra le varie associazioni ambientaliste ci sono posizioni diverse, c’è chi è per la chiusura senza preoccuparsi della sorte degli operai, ma questa non è la nostra posizione.
L’ultimo provvedimento del governo ha ulteriormente complicato la situazione e la domanda a cui rispondere è se esiste un qualsiasi obiettivo che legittimi che un potere, cui la Costituzione attribuisce una sua autonomia, possa essere superato da un provvedimento di un altro potere, da cui è indipendente. Già in passato abbiamo avuto violazioni dello stesso tipo, penso all’esperienza di Gela o ai provvedimenti del governo Berlusconi sulla riduzione dei tempi di prescrizione e di durata dei processi, con risultato di vanificare quelli che erano provvedimenti della Magistratura.
Sono segnali molto preoccupanti per la tenuta del nostro sistema democratico. Oggi pensiamo che, oltre che protestare per quanto avviene, occorre da subito agire per il risanamento degli impianti. Riteniamo abbastanza severo per l’Ilva il riesame dell’AIA appena approvato. Ci sono ancora dei punti che non ci vanno bene, soprattutto per quanto riguarda la tempistica, ci sono infatti tempi sensibilmente diversi di fermata e risanamenti, tra quelli contemplati dal riesame dell’AIA e quelli imposti dai provvedimenti della Magistratura. Altra cosa su cui non siamo d’accordo è il tetto della produzione fissato a 8 milioni di tonnellate, che lascia sostanzialmente il tetto attuale posto dall’Ilva, mentre riteniamo che questo debba essere decisamente ridotto, dato che in questo stabilimento meno si produce, meno si inquina, al di là delle innovazioni tecnologiche. Non ci sta bene neanche che nell’AIA non sia prevista una fidejussione, la sola che in qualche modo avrebbe potuto garantire i Tarantini dal fallimento dell’azienda, che porterebbe invece tutti i costi di bonifica a carico delle casse dello Stato e cioè a carico della collettività.
Detto questo, riteniamo che nel complesso l’AIA sia abbastanza severa, che non ha nulla a che vedere con quella spudorata rilasciata nell’agosto 2011 sotto il ministro Prestigiacomo, e che prevede tutta una serie di interventi piuttosto interessanti, che qui non abbiamo il tempo di elencare. Cito soltanto quelli a carico della cockeria, di tutte le parti dello stabilimento che comportano emissione diffusa o sono interessate a stoccaggio di materie prime.
In sintesi possiamo dire che l’AIA comunque prevede misure abbastanza restrittive, ma pur sempre interne al mantenimento di questo tipo di procedimento tecnologico, non si impone l’innovazione tecnologica, con tecnologie che oggi sono invece utilizzate in India, Cina o Sudamerica, le tecnologie corex e finex che bypassano completamente la cockeria. Abbiamo cercato di studiare l’impatto sul nostro territorio di questo tipo di tecnologie, ma non abbiamo risposte concrete sul piano tecnico. Dunque la nostra riserva resta: sono misure severe su un processo produttivo che resta lo stesso.
Per chiudere sul punto, il riesame dell’AIA dovrebbe essere completato da una valutazione del danno sanitario. Una valutazione prevista da una legge innovativa, anche se un pò farraginosa nell’applicazione, approvata di recente dalla Regione Puglia. È un fatto importante perché tutta la vicenda Ilva ci insegna una cosa: non basta rispettare i limiti di legge, all’Ilva nessuno contesta lo sforamento dei limiti alle emissioni. Ciò che la Magistratura ha appurato è che, pur nell’osservanza di questi limiti, le inchieste epidemiologiche dimostrano che gli effetti sulla salute dei lavoratori e dei cittadini sono assolutamente intollerabili.
Il problema quindi non è solo quello di ottenere il rispetto delle norme ma dei livelli di inquinamento che minimizzino l’impatto sulla salute dei cittadini.
Per Rete nodo SICILIA
ROSARIO SCIORTINO
Per quanto riguarda la Sicilia le statistiche ufficiali in questi giorni dicono ancora che in morti e gli incidenti sul lavoro sono diminuiti (-40%)”. E il “merito” di questa diminuzione viene attribuito al “Piano regionale straordinario per la tutela della salute e la sicurezza 2010-2012'”. Quanto siano efficaci questi piani regionali lo dimostrano i 44 morti, escluso quelli in itinere, fino ad oggi contati dall’osservatorio indipendente di Bologna.
E quanto queste affermazioni siano volgarmente tendenziose e di parte si capisce leggendo fino in fondo lo stesso comunicato ufficiale dove si scopre che “Rimane però il problema del lavoro nero. Infatti i dati su infortuni e morti sul lavoro sono condizionati da questo fenomeno, la cui incidenza - vista anche la crisi economica che imperversa - rimane costante nel tempo. [sottolineatura nostra]”. Quindi l’attuale crisi economica viene citata, ma come di passaggio, mentre è proprio a causa della crisi e quindi della chiusura di tante fabbriche e tanti cantieri che ci sono meno morti e incidenti invalidanti, secondo le loro statistiche.
Come si sa la Sicilia è tra le regioni meno industrializzate del Paese, e quelle poche sono concentrate nella parte orientale con il polo petrolchimico Gela-Priolo-Augusta; poi c’è la raffineria Eni di Milazzo nella parte settentrionale, ma queste poche hanno fatto molti danni con inquinamento ambientale e alla salute delle persone come purtroppo è successo con la lunga storia dell’amianto. La Sicilia è nota anche però per le cosiddette bombe ecologiche rappresentate dalle discariche che inquinano il terreno e le falde acquifere come quella di Bellolampo sopra Palermo, e tante altre realtà piccole e piccolissime di cui difficilmente si viene a sapere.
Qui vogliamo prendere in considerazione in particolare due casi tra i più eclatanti: Gela e la Fincantieri.
Il caso Gela
Lo stabilimento di Gela,voluto alla fine degli anni ’50 da Enrico Mattei in persona, già una decina di anni fa fu messo sotto sequestro per inquinamento ambientale. L’indice era puntato in particolare contro il reparto clorosoda, dove si lavorava il mercurio senza precauzioni, con conseguenze devastanti sulla salute degli operai. Un dato su tutti inquieta: a Gela il numero delle malformazioni nei bambini è più alto di sei volte della media nazionale. Tra i bambini nati negli ultimi decenni è molto diffusa l’ipospadia, una malformazione congenita all’apparato genitale, ma comuni sono anche i casi di bambini nati microcefali. Alcuni bambini nascono senza un orecchio, altri con quattro dita alle mani, altri ancora con delle malformazioni al palato.
Solo nel 2002, ben 512 bimbi sono nati malformati.
La nuova inchiesta condotta dalla Procura tenta di trovare il nesso causale in specifiche condotte e pratiche dell’azienda.
Quasi una routine i casi di malformazioni genetiche tra le famiglie di operai ed ex dipendenti del petrolchimico dell’Eni. “Quando io e mio fratello gemello siamo nati senza alcun tipo di malformazione, in famiglia si è quasi gridato al miracolo per una cosa che in realtà dovrebbe essere normale” racconta Andrea Turco, ventenne figlio di un operaio dell’indotto petrolchimico”.
Le enormi ciminiere fumanti, dicono gli abitanti, quando il vento soffia verso occidente, ammorbano l’aria rendendola irrespirabile. I residui della lavorazione vengono scaricati nel fiume Gela e infatti: “Il problema è che a Gela è inquinato tutto: dall’acqua, agli ortaggi, al cibo con cui viene allevato il bestiame” aveva spiegato il genetista Bianca, perito della procura di Gela.
Nel 2006 a Priolo, pochi chilometri a nord di Gela, si era verificata una situazione simile. In quel caso, però, la Syndial, società dell’indotto Eni, aveva deciso di risarcire alcune famiglie danneggiate mentre le indagini erano ancora aperte: 101 casi di bambini nati con malformazioni genetiche erano costate più di undici milioni di euro, ma la vertenza era stata chiusa. Oggi il responsabile delle relazioni esterne dell’Eni in Sicilia, si esprime anche sul caso di Gela. “Se dovessero essere dimostrate responsabilità dell’Eni a Gela siamo pronti ad aiutare anche quelle vittime”.
Il dottor Bianca però lancia l’allarme: “Non è una condizione che si può restringere ad alcuni casi. Il problema principale è che qui a Gela in trent’anni non è cambiato nulla: pur avendo dismesso gran parte degli impianti del petrolchimico le percentuali di malformazioni sono rimaste stabili. Quindi il vero problema di questa città non sono le generazioni presenti ma quelle future”.
Già, e non solo bambini e operai: muoiono e si ammalano in generale gli adulti come evidenzia anche una ricerca del CNR che conferma che il comune di Gela è tra le aeree più inquinate del mondo. Nel sangue dei campioni esaminati ci sono veleni di ogni tipo. Dal piombo al mercurio.
Ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scoperto che nelle vene degli abitanti scorre anche arsenico. Facendo una proporzione sul totale dei residenti, a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi più di 20 mila persone. Che a Gela si muore d’ambiente sembra provarlo anche un’altro report firmato dall’Istituto superiore di sanità: tra i lavoratori del petrolchimico, i più a rischio sono quelli che, finito il turno, tornano a casa in città. I pendolari non residenti hanno tassi di mortalità per cancro polmonare molto più bassi.
La procura indaga, ma il compito dei pm non è facile. Oggi a Gela è attiva la grande raffineria dell’Eni, ma nell’area per decenni hanno fabbricato clorosoda, acido cloridico e altri prodotti chimici. Le bonifiche già partite sono poche, la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra. E “Siamo ancora alle conferenze istruttorie”, chiosa Bianchi:
Anche a Gela come a Taranto è arrivato puntuale un decreto (n. 22/02) e come all’Ilva di Taranto il governo ha salvato di fatto l’azienda e i “posti di lavoro” (grande falsità: dai circa 10.000 di una volta adesso siamo a circa un migliaio e la metà in cassa integrazione), ma ha peggiorato, a detta degli esperti, la salute di tutti perché ha permesso di usare il pet-coke come combustibile; anche in questo decreto si parla di “migliori tecniche disponibili”, di salvaguardia dell’ambiente; dell’importanza strategica di tale prodotto per l’occupazione e l’economia nazionale.
I sindacati confederali hanno di fatto accettato con applausi questo decreto.
Anche a Gela ci sono dirigenti indagati e arrestati per inquinamento.
La Fincantieri di Palermo
Meglio conosciuta come Cantieri navali di Palermo, sono ricordati per il numero enorme di operai presenti negli anni 60 agli anni 80, circa 10.000, e per la combattività che mostravano negli scioperi. Molti di questi operai si sono ammalati e molti sono morti, non solo per le generali condizioni di lavoro senza alcuna sicurezza, ma soprattutto a causa dell’amianto che come raccontavano gli operai più vecchi era immagazzinato in sacchi che rimanevano buttati qui e là e gli operai stanchi di tanto in tanto ci dormivano pure sopra.
La pericolosità dell’amianto, killer invisibile che uccide anche dopo anni, era nota dai primi del ‘900. Ma già dal 1965, una legge impone l’adozione di misure a tutela dei lavoratori che stanno a contatto con le fibre. Invece, hanno raccontato i sopravvissuti durante il processo, alla Fincantieri di Palermo si lavorava senza mascherine e con aspiratori che non funzionavano. Alla Fincantieri le polveri di amianto raccolte sul pavimento, che dovevano essere smaltite con apposite modalità, venivano semplicemente spazzate, come fossero granelli di polvere. E mancava un servizio di lavaggio delle tute: gli operai se le pulivano a casa. Come Angelo Norfo, morto di cancro pochi mesi prima della moglie che l’asbestosi l’ha presa proprio lavando i vestiti del marito.
Negli anni sono stati fatti tanti processi, nella sostanza ci sono almeno sei filoni di indagini.
La gravità della situazione è data anche dal fatto che ad una udienza avrebbero dovuto deporre 7 operai: 5 però erano in condizioni talmente gravi da non poter esser sentiti. Due sono morti durante l’incidente probatorio. Il primo processo, vedeva gli imputati rispondere di 69 casi per omicidio colposo e lesioni gravi. Le parti offese, tra operai vivi e i prossimi congiunti, erano 128. Il secondo processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 39 casi, con circa 82 parti offese, il terzo processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 6 casi, con circa 30 parti offese, il quarto processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 8 casi, con circa 17 parti offese. Il quinto processo sono10 i casi di cui devono rispondere, con circa 16 parti offese. Tutti processi ancora pendenti. Nel sesto filone, ancora nella fase preliminare gli indagati sono chiamati a rispondere di 22 casi tra decessi e lesioni gravi, con circa 53 parti offese. 145 sono gli operai tra lesi e deceduti, mentre le parti offese circa 326.
Ma restano fuori tutti quei lavoratori deceduti prima del 1998, e quelli che, purtroppo, lo saranno nei prossimi anni a causa della latenza della malattia. Va precisato inoltre che per i marittimi (coloro che stanno sulle navi) si parla di esposizione indiretta all’amianto.
Questi processi, grazie alla partecipazione di una gran numero di testimoni e consulenti, hanno permesso alla fine di accertare l’utilizzo indiscriminato di amianto all’interno del cantiere navale di Palermo, con la conseguente esposizione - diretta e indiretta - dei lavoratori alla sostanza.
L’altra novità che mette in relazione ancora una volta Palermo con Taranto è il filone Fincantieri che va a legarsi a quello della Tirrenia. Un collegamento che sono stati i familiari di vittime dell’amianto a fare. Raccontando le loro storie, lontane eppure molto, troppo simili e in cui le parole ricorrenti sono lavoro, amianto, tumore, navi, Tirrenia, morte. È notizia di questi giorni che la Marina a Taranto era a conoscenza da tempo del pericolo amianto per i marinai.
E stiamo parlando della Fincantieri, azienda che opera nelle costruzioni e riparazioni di navi mercantili e militare e della Tirrenia navigazione Spa, è la più grande società marittima statale. Infatti entrambe sono controllate da Fintecna, l’una per il 99,3 per cento, l’altra per il 100%. E Fintecna è una società finanziaria italiana a sua volta interamente controllata dal Ministero dell’Economia e del tesoro.
La domanda, che si fa anche una giornalista è: ma lo Stato non avrebbe dovuto tutelare e salvaguardare i lavoratori? E i passeggeri che da anni viaggiano sulle navi della Tirrenia, in particolar modo gli autotrasportatori? E che fine ha fatto tutto l’amianto che dal 1992 per legge è stato vietato in Italia, con la legge 257?
L’attività giudiziaria ha quasi sempre, per così dire, fatto da supplenza all’azione sindacale che si è limitata, anche qui, a costituirsi parte civile una volta partiti i processi. Mai una campagna seria di lotta, mai una presa di posizione contro i medici competenti (o meglio quasi sempre compiacenti).
Noi abbiamo portato avanti una campagna per la sicurezza sostenendo un operaio che era stato licenziato sostanzialmente come rappresaglia per le denunce sulla sicurezza sul lavoro, il processo d’appello è ancora in corso.
Infine, tra le tante, vogliamo parlare di altre due realtà
Mineo. Dove una decina di giorni fa sono state emesse cinque condanne per l´incidente sul lavoro che 4 anni fa provocò la morte di 6 persone nel depuratore.
Secondo l’accusa, la morte dei sei operai sarebbe stata causata dall’esalazioni tossiche formatesi nel pozzetto di ricircolo dei fanghi durante le fasi della sua pulizia, che, secondo una perizia disposta dalla Procura, sarebbero state prodotte dal versamento illecito nella vasca di idrocarburi dall’autobotte della ditta Carfì che si trovava a operare sul posto.
La battaglia per la salute al Policlinico di Palermo. Dove la denuncia e la battaglia dello Slai Cobas per il sindacato di classe, contro le condizioni da quarto mondo in cui sono costretti a lavorare parecchi dipendenti del Policlinico, nonostante la persecuzione di cui è oggetto la rappresentante del cobas da parte della direzione sanitaria, che dopo averla minacciata di licenziametanto a seguito di una forte risposta l’ha mantenuta al lavoro ma trasferita, ha incoraggiato altre lavoratrici e lavoratori.
Soprattutto le donne hanno cominciato a rompere il silenzio sulle proprie precarie e rischiose condizioni di lavoro, ma anche sulle mansioni pesanti e faticose a cui sono adibiti, malgrado affetti da patologie fortemente incompatibili, che ne peggiorano lo stato di salute.