martedì 19 marzo 2019

pc 19 marzo - In Basilicata il miserabile candidato del centro sinistra che si oppone a Salvini/Di maio dichiara di essere un ammiratore di Almirante

da contropiano

Almirante? Un servo dei nazisti



Come Almirante collaborava con i nazisti.               
L’Osservatorio : … quando l’uso della memoria è finalizzato alla riscrittura della Storia. E’ il caso di Ladispoli dove il trentaseienne Alessandro Grando, eletto sindaco con i voti di una coalizione fortemente connotata a destra, ha deciso con il beneplacito del Prefetto di Roma di intitolare a Giorgio Almirante la piazza antistante la parrocchia del Sacro Cuore. Come riportato nell’intervista a Emanuele Rossi de Il Messaggero lo scorso 16 marzo, la figlia di Almirante Giuliana De’ Medici ha ringraziato il parroco:  «Benedirà la piazza e speriamo dica ai giovani chi era mio padre».
Questo perché nei giorni scorsi il sacerdote aveva detto che per lui quella  «si chiamava piazza della Chiesa e non piazza Almirante».
Cominciamo noi a ricordare chi era Almirante riportando la storia dell’assoluzione dall’accusa di falso giunta dopo lunghe vicissitudini giudiziarie al quotidiano “L’Unità” per  aver titolato il giornale del 27 giugno 1971 : Un servo dei nazisti. Come Almirante collaborava con gli occupanti tedeschi ”  
da Archivio la Repubblica.it;                                                                                     Almirante e gli scheletri di Salò
In Maremma lo chiamavano il “manifesto della morte”. Era il maggio del 1944, apparve una mattina di primavera sui muri dell’ alta Toscana, tra le pendici dell’ Amiata e la Val di Cecina, nei paesi sopra Grosseto già occupati dalle insegne di Hitler. Vi era riprodotto l’ ultimatum rivolto il 18 aprile da Mussolini ai militari “sbandati” dopo l’ 8 settembre 1943

e ai ribelli saliti in montagna: consegnatevi ai tedeschi o ai fascisti entro trenta giorni, oppure vi aspetta la fucilazione. Morte era minacciata anche a chi avesse dato aiuto o riparo ai partigiani.
Fu il sigillo, quel decreto legge voluto dal duce di concerto con Rodolfo Graziani, per un’ indiscriminata caccia all’ uomo e per rastrellamenti feroci, in una terra insanguinata dalle stragi. Solo in Maremma, tra il 13 e il 14 giugno, furono ammazzati a Niccioleta ottantatré minatori.
Ma il manifesto che quel tragico ultimatum sunteggiava non era firmato da un comando militare della Rsi o da un presidio delle SS. Era firmato da Giorgio Almirante, allora capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura Popolare che curava la Propaganda della Repubblica Sociale. Una figura non di seconda fila – quella del trentenne Almirante – approdata al governo filonazista di Salò dopo una robusta esperienza giornalistica da caporedattore nel quotidiano Il Tevere e da segretario di redazione della Difesa della Razza, la rivista ufficiale dell’ antisemitismo sulla quale scrisse articoli intonati al più convinto “razzismo biologico”.

È lo stesso Almirante al quale oggi il sindaco Gianni Alemanno vuole dedicare una strada di Roma. Se la vicenda del manifesto è stata sfiorata appena dalle cronache di questi giorni, meno conosciuta è la storia del processo che proprio sul clamoroso episodio vide negli anni Settanta il leader della Fiamma inizialmente nelle vesti dell’ accusatore-querelante, poi arretrato nel ruolo di “imputato morale”. Una vicenda giudiziaria lunga sette anni, dall’ andamento lento, che si concluse con assoluzione piena per l’ Unità, il quotidiano querelato per aver pubblicato un documento giudicato da Almirante “vergognosamente falso” e “calunnioso”.
Per il fondatore del partito neofascista italiano fu una sconfitta irrevocabile. La possiamo ricostruire oggi grazie alla documentata ricerca realizzata nel corso di anni da uno dei testimoni, Carlo Ricchini – giornalista di lunga esperienza, allora direttore responsabile del quotidiano comunista, inventore delle prime iniziative editoriali dell’ Unità – per un libro che deve essere ancora pubblicato (Il manifesto della morte con la firma di Almirante).
La sentenza avversa al leader missino era scontata fin dalle prime udienze, ma un complicato intreccio politico-giudiziario ne rallentò il cammino. Quel che nelle intenzioni dei promotori doveva essere il battesimo pubblico dell’Almirante in doppio petto, utilizzato in alleanze dirette e indirette con la Dc, da liturgia assolutoria si trasformò, grazie a un’ imbarazzante documentazione, in spinoso teatro d’ accusa. Da qui le pratiche dilatorie, le ritirate strategiche, le eccezioni procedurali mosse dagli avvocati di Almirante, che trascineranno il dibattimento per  tutti gli anni Settanta, fino all’epilogo sancito soltanto nel 1978.
Il manifesto di Almirante venne alla luce nell’estate del 1971, scovato da alcuni storici dell’università pisana negli archivi di Massa Marittima. L’Unità lo pubblica il 27 giugno sotto il titolo Un servo dei nazisti. Come Almirante collaborava con gli occupanti tedeschi.
D’intonazione analoga Il Manifesto, che lo propone con un severo commento di Luigi Pintor. «Ci apparve subito evidente», racconta Ricchini, «che era stata scoperta una prova della partecipazione diretta di Almirante alla repressione antipartigiana, da lui tenuta nascosta, come se il posto occupato a Salò fosse stato un impiego come un altro e la sua divisa da brigatista nero un obbligo dovuto alle circostanze».
Intanto il manifesto firmato Almirante, quasi sempre con la soprascritta “Fucilatore di partigiani”, riempie i muri d’Italia. Da Reggio Emilia a Catanzaro, da Terni a Trapani, da Modena ad Avellino, le associazioni partigiane si mobilitano per denunciare il segretario del Movimento Sociale. Almirante replica con una pioggia di querele, uscendone ovunque sconfitto. Ma non a Roma, dove il processo più importante, quello intentato contro i due quotidiani di sinistra, mostra un percorso alquanto accidentato.
Fin da principio Almirante nega tutto. Nega l’autenticità del manifesto, sostenendo che sia un falso stampato ad arte contro di lui. Nega di essere stato già allora capo di gabinetto di Mezzasoma (sposta in avanti la data). Nega che il ministero della Cultura popolare potesse dare esecuzione al bando di Mussolini. Nega che i ministri di Salò potessero prendere simili iniziative in territori controllati dalle forze armate germaniche.
Anche la prosa illetterata del documento gli risulta estranea, “non ho mai firmato manifesti o comunicati di tal genere in quel periodo, né rientrava nelle mie attribuzioni firmare manifesti a nome del ministro”. Insomma, s’è trattato “d’una vergognosa campagna di stampa”, il titolo di fucilatore “un’ignobile infamia”. La prima udienza si svolge sul finire del 1971. Sono chiamati a difendersi dall’accusa di “falso e diffamazione” i giornalisti Carlo Ricchini e Luciana Castellina, allora direttore responsabile del Manifesto.
In realtà non è difficile dimostrare l’autenticità del documento: la copia fotostatica è autenticata da un notaio che attesta la conformità con l’originale. «Le prove di oggi sarebbero già sufficienti», dichiara il pubblico ministero Vittorio Occorsio, autorevole magistrato già impegnato in quegli anni contro il terrorismo nero. Propone sia chiamato a deporre il sindaco di Massa Marittima invitandolo a esibire l’originale del manifesto. La nuova udienza è fissata per il 25 gennaio del 1972, la conclusione appare prossima.
All’appuntamento di gennaio si presenta anche l’ onorevole Almirante: sorridente, impeccabile nel vestito fumo di Londra, cravatta blu con piccoli cerchietti bianchi. Al principio della deposizione chiama in causa il Parlamento e le istituzioni che, nonostante il suo passato,  hanno legittimato l’elezione a deputato. «Faccio presente che sono deputato in Parlamento dal 18 aprile del 1948», esordisce con toni rassicuranti. «Allora, oltre le regole costituzionali, vi erano norme eccezionali che vietavano di entrare in Parlamento a coloro i quali avessero assunto cariche o ricoperto determinate responsabilità nella Rsi. Personalmente non ho mai subito alcun procedimento penale né fruito di amnistie. Se c’era qualcosa da dire, quella era l’epoca più adatta, per freschezza di ricordi, vivacità di polemiche, presenza di testimoni».
In altre parole, se non sono state fatte rispettare la Costituzione e le leggi, la colpa non è mia. E il confino di polizia al quale Almirante fu condannato nel 1947? Un legale gli ricorda il grave provvedimento subìto per il collaborazionismo con i tedeschi e per le attività successive alla guerra. Ma il segretario missino ha ricordi confusi. Gli interessa soltanto rimarcare la totale estraneità al manifesto pubblicato sui giornali e al bando di morte pronunciato da Mussolini e Graziani.
«Curare la diffusione del comunicato o meglio del bando Graziani rientrava nelle competenze del ministero dell’Interno o di quello delle forze armate», ribadisce con piglio determinato. Lui boia o assassino di partigiani? Ma non scherziamo. A nulla sembrano valere le nuove prove documentali portate dal sindaco di Massa, un operaio di taglia robusta dal buffo nome di Rizzago Radi che sfila dalla cartellina l’ originale del documento firmato da Almirante, insieme alla lettera della Prefettura che accompagna l’invio dei manifesti e la missiva del vicecommissario prefettizio che rassicura sull’ affissione.
Il manifesto, dunque, non è un falso. Il processo potrebbe rapidamente chiudersi, come incoraggia Occorsio. Ma l’assoluzione dei giornalisti implica la colpevolezza di Almirante. I suoi avvocati sono costretti a cambiare strategia. L’unico modo per ritardare la sentenza è accorpare il processo romano ai tanti processi in corso nella penisola in seguito alle querele di Almirante. Il tribunale, presieduto da Carlo Testi, sembra acconsentire alla proposta. L’udienza è aggiornata.
La prima sorpresa, nel prosieguo del dibattimento, è la sostituzione del pubblico ministero Occorsio con Niccolò Amato, futuro direttore degli istituti di pena. Il suo orientamento appare capovolto rispetto alle convinzioni del predecessore, facendo proprie le tesi difensive di Almirante. Il processo slitta, si arriva a un nuovo rinvio per l’aprile. Alberto Malagugini, difensore dell’Unità e futuro magistrato della Corte Costituzionale, non ha dubbi: «Pur di prendere tempo sono state poste le più strabilianti eccezioni procedurali. Non appena sono apparse chiare le responsabilità del querelante per l’infame comunicato del 1944, non appena il tribunale è stato posto in condizione di decidere e il pubblico ministero di udienza l’ha fatto intendere, la difesa ha cominciato la sua manovra di sganciamento».
Intanto in tutta Italia i processi intentati da Almirante si vanno chiudendo con l’ assoluzione dei querelati. Per tutti gli altri collegi giudicanti Almirante è un fucilatore di partigiani, a Roma devono ancora certificarlo. Eppure i supporti documentali sono ovunque gli stessi. Passano ancora due anni. Nel giugno del 1974, dopo accurate ricerche, viene prodotta in aula la “prova delle prove”: un telegramma dell’ 8 maggio 1944, spedito dal ministero della Cultura Popolare all’indirizzo della prefettura di Lucca. È stato trovato negli archivi di Stato, è firmato Giorgio Almirante, e corrisponde parola per parola al manifesto conservato a Massa Marittima.
Un foglietto giallo, tipico dei messaggi telegrafici di quel periodo, con il decreto di morte pronunciato nell’aprile da Mussolini. Il capo di gabinetto ne sollecita l’affissione in tutti i comuni della provincia. Il funzionario che nel maggio del 1944 ha mandato il telegramma nella tipografia Vieri di Grosseto per la stampa del manifesto s’è dimenticato di levare la firma di Almirante. Una distrazione che inchioda il leader del Movimento Sociale alle sue pesanti responsabilità.
Dagli archivi affiorano anche altre carte compromettenti. Una circolare del 24 maggio 1944, firmata sempre dal capo di gabinetto di Mezzasoma, ordina ai capi delle province di divulgare non solo i manifesti che provengono dal ministero della Cultura Popolare ma anche dalle autorità tedesche. Almirante è sbugiardato su tutti i fronti: è lui che cura la propaganda del bando Graziani, ed è sempre lui che segue sollecito l’ affissione dei comunicati del Fuhrer. La sua difesa annaspa.
Vittorio Occorsio, tornato a ricoprire la pubblica accusa, chiede ironico: «Volete sostenere che è falso anche questo documento, che ci viene inviato da un ufficio statale e su richiesta del tribunale?». Il processo è sufficientemente istruito, non resta che chiuderlo. «Dopo la sentenza», annuncia severo il pubblico ministero, «chiederò che gli atti siano restituiti alla pubblica accusa per procedere per i reati di calunnia e falsa testimonianza nei confronti di Almirante. Calunnia per aver affermato che il manifesto era apocrifo, falsa testimonianza per tutte le menzogne dichiarate davanti ai giudici».
Bisogna aspettare ancora altri quattro anni per assistere alla “condanna morale” del fondatore del Movimento Sociale. Un primo pronunciamento assolutorio non soddisfa a pieno il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, mentre il Manifesto preferisce fermarsi al traguardo. Solo l’8 maggio del 1978, dopo un intervento della Cassazione, arriva una sentenza priva d’ ombre, che assolve l’Unità «per avere dimostrato la verità dei fatti» e condanna Almirante alle spese processuali, anche al risarcimento dei danni.
«Ma l’Unità non ha mai chiesto i danni», ricorda Ricchini in chiusura del suo prezioso memoriale. L’unico che non poté leggere la sentenza fu il pubblico ministero che Occorsio era rimasto vittima di un agguato, per mano di terroristi ne con passione civile e rigore più l’aveva sostenuta. Due anni prima Vittorio  Due anni prima Vittorio Occorsio era rimasto vittima di un agguato, per mano di terroristi neri.
SIMONETTA FIORI

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