mercoledì 31 gennaio 2018

pc 31 gennaio - I FLUSSI MIGRATORI NELLA LEGGE DEL CAPITALE - da uno scritto del Prof. Giuseppe Di Marco

PUBBLICHIAMO L'ULTIMO PARAGRAFO DI UN LUNGO SCRITTO DI GIUSEPPE ANTONIO DI MARCO: "L’ANALISI DELLA LEGGE CAPITALISTICA DELLA POPOLAZIONE IN KARL MARX E IL “GOVERNO” DEI FLUSSI MIGRATORI" - In seguito pubblicheremo altri paragrafi.

L'importanza di questa analisi per la lotta dei proletari sta nelle indicazioni finali di questo articolo: "...l’unione tra occupati e disoccupati e di conseguenza anche tra migranti e residenti, ponendo così fine a quella concorrenza tra tutti loro, che è tanto indispensabile all’accumulazione del capitale". 

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5. I flussi migratori contemporanei entro la legge della popolazione specifica al modo di produzione capitalistico, ossia della formazione della sovrappopolazione relativa

Secondo il Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, tra il 2000 e il 2015 i migranti su tutto il pianeta sono cresciuti da 173 milioni a 243,7 milioni. Nel 2015 essi hanno rappresentato il 3,3% della popolazione mondiale rispetto al 2,9% del 1990. Questi dati potrebbero non tenere «adeguatamente conto dei movimenti degli immigrati “senza documenti”», i quali costituirebbero il 10-15% dei flussi internazionali totali, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Sempre «nel 2015, su 244 milioni di migranti nel mondo, il 43% è nato in Asia, il 25% in Europa, il 15% in America latina e Caraibi […], il 14% arriva
dall’Africa». I paesi che hanno il più alto numero di migranti sono - in ordine di grandezza di popolazione migrante presente nel rispettivo territorio - gli Stati Uniti d’America con 19.000.100 di migranti, la Germania con 4.900.000, la Federazione russa con 4.800.000, l’Arabia Saudita con 4.200.000, il Regno Unito, con 3.500.000, gli Emirati Arabi, con 3.300.000, il Canada, con 3.200.000, la Francia, con 3.200.000, l’Australia, con 2.800.000, la Spagna e l’Italia, con 2.400.000». Questi 11 paesi «nel 1990 insieme arrivavano al 44% del totale internazionale» di popolazione migrante presente nei loro rispettivi territori «e nel 2015 hanno raggiunto il 53,8%. Stati Uniti e Federazione russa ospitano complessivamente un quarto del totale dei migranti internazionali». Inoltre le migrazioni non avvengono solo tra un continente e un altro, ma all’interno degli stessi continenti. Emblematico è il caso dell’Africa. Come abbiamo visto, essa getta nel mercato mondiale capitalistico degli altri continenti il 14% di migranti. Negli ultimi anni ciò è avvenuto con una crescita notevole, tale che «dal 1980 a oggi il numero di migranti africani oltre i confini continentali è notevolmente cresciuto, addirittura triplicato, passando da 5,5 milioni a 16 milioni nel 2015», con destinazioni che si sono diversificate notevolmente. Infatti il flusso che va dall’Africa all’Asia, è quello più in crescita con il 4,2% di persone all’anno. Ma al tempo stesso, «il 52% dei migranti africani si muove all'interno dei confini continentali. I movimenti interni, fra Stati africani, sono particolarmente accentuati nell'Africa occidentale (Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d'Avorio) e, nella regione orientale, dall'Eritrea. Un Paese che attrae molti migranti è il Sudafrica, così come destinazioni privilegiate sono i Paesi produttori di petrolio, come Libia e Gabon».

In questi dati, il primo punto da notare è la dimensione ormai completamente planetaria del movimento migratorio. Esso avviene tra continenti e all’interno dei continenti stessi. Sembra insomma essere ormai il continente l’unità di misura dei traffici migratori. Il secondo punto è l’accelerazione fortissima che questi flussi hanno preso nel primo quindicennio del secolo XXI: si sono mossi all’incirca ufficialmente settanta milioni di persone, ma in realtà esse sono molte di più se si includono i sempre più considerevoli flussi di migranti “senza documenti”. Il discorso che abbiamo finora fatto, seguendo Marx, sulla legge dell’accumulazione capitalistica lascia pensare che la cifra assoluta e l’incremento relativo siano destinati ad aumentare. 273 milioni di persone che si spostano in quindici anni, su più o meno sette miliardi esseri umani, potrebbero sembrare una cifra piccola, ma qui non stiamo parlando di mobilità turistica, bensì di esseri umani che si muovono mettendo in gioco, precisamente nella loro mobilità specificamente migrante, la contraddizione antagonistica tra la loro esistenza personale e le condizioni sociali generali di essa, in cui sono gettate dal modo di produzione capitalistico. Pertanto, i flussi migratori costituiscono come non mai parte integrante, se non addirittura decisiva in questa fase storica, del fenomeno della sovrappopolazione relativa capitalistica, che è il motore del suo processo di accumulazione.
Alla luce del discorso marxiano, che abbiamo seguito finora, sulla sovrappopolazione relativa come conseguenza e condizione dell’accumulazione capitalistica, uno spostamento così considerevole di masse umane nell’arco di soli quindici anni indica senza ombra di dubbio che c’è stato un aumento del capitale sociale globale complessivo di dimensioni tali che lascia pensare a un aumento enorme della sua parte costante, dunque di mezzi di produzione che devono essere messi in movimento; che ci sono, di conseguenza, un’enorme produzione su larga scala di merci riconvertibili sia in mezzi di produzione addizionali sia in mezzi di consumo, e un’espansione del mercato mondiale tale che ormai esso copre tutto il pianeta; che, di conseguenza, si sono sviluppati al massimo i mezzi di trasporto e comunicazione, e che l’estensione, l’intensità e l’accelerazione delle comunicazioni retroagiscono sullo sviluppo della produzione industriale la quale, a sua volta, crea il mercato mondiale; infine, che c’è sia un sistema creditizio che ha ormai posto le banche in una posizione di preminenza mai vista prima. E in effetti, quella che chiamiamo “globalizzazione” o, se piace di più, “mondializzazione” capitalistica e che possiamo far partire dagli anni Ottanta del secolo Ventesimo, ha come centro produttivo la rivoluzione informatica dei processi lavorativi, la robotizzazione, l’organizzazione scientifica delle attività umane e lo sviluppo del traffico umano su queste basi informatizzate, quindi lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sul terreno di queste nuove tecnologie. Questa trasformazione del processo lavorativo in chiave digitale porta all’ennesima potenza tutto quello che, come sopra abbiamo visto, Marx ha detto sullo sviluppo del processo di accumulazione capitalistico già ai tempi dell’industria meccanica. Sullo sviluppo del commercio mondiale, che consegue a questa rivoluzione del processo lavorativo che crea strumenti di comunicazione e di traffico in un’estensione, qualità e quindi velocità mai viste prima, non c’è bisogno di spendere molte parole: basta solo il temine “globalizzazione” a indicare in modo adeguato la realtà da esso espressa. Quanto allo sviluppo del sistema creditizio che, come visto, si intreccia con lo sviluppo della produzione e del commercio, ciascuno ha oggi sotto gli occhi il ruolo strapotente assunto dal sistema bancario. Se dovessi trovare, tra le organizzazioni internazionali che i paesi capitalistici e dunque tutti i paesi del mondo tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda si sono date per eseguire gli affari di tutta la classe borghese che è ormai completamente globale, ne nominerei tre significative: per il traffico. l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e per il sistema creditizio in genere, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Tutto questo processo è causa e conseguenza di un’accumulazione del capitale sociale complessivo mai raggiunta prima nel modo di produzione capitalistico.
Ebbene, poiché, come abbiamo visto, l’aumento del capitale significa in assoluto aumento del proletariato, in conseguenza di un aumento della domanda di lavoro, è chiaro che il livello raggiunto dall’accumulazione odierna, in quanto l’ambito di azione del capitale sociale complessivo coincide con tutta quanta la superficie terrestre, non può che creare in assoluto l’aumento della domanda di lavoro e quindi mettere in movimento, su tutta la terra, masse enormi ed esponenzialmente crescenti di persone. È qui che si colloca, per quantità, ossia per estensione, e per qualità, ossia per significato, un discorso sulla centralità, nel nostro immediato presente, dei flussi migratori planetari. Indubbiamente flussi migratori ci sono stati in misura considerevole dacché il processo capitalistico di accumulazione cominciò ad assumere un livello considerevole di sviluppo. Marx stesso aveva ampiamente studiato il caso dell’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti d’America, la quale formò una delle basi dell’accumulazione capitalistica nella «giovane repubblica gigantesca» che compì il fratricidio verso «l’antica regina dei mari». Ma oggi, è la dimensione globale assunta dall’accumulazione capitalistica a rendere altrettanto globale il movimento migratorio. Il fatto che, come abbiamo visto dalle cifre sopra riportate, il flusso migratorio più rilevante è da e verso l’Asia, ossia il più grande continente del mondo, e che i tre paesi che hanno più migranti sul loro territorio siano del peso degli Stati Uniti d’America, come da tradizione, della Germania, paese capitalistico di punta, e della Federazione russa, che si colloca nel quintetto dei Bircs (Brasile, India, Cina, Russia, Sudafrica – paese in ascesa di molta immigrazione intra-africana) dà la misura, ossia, dialetticamente, la sintesi di qualità e quantità del fenomeno.
Ora però, abbiamo anche visto che l’aumento del capitale variabile, ossia dei mezzi che danno occupazione a queste enormi masse di immigrati, e quindi l’aumento assoluto dei flussi migratori che è documentato da quell’incremento da 173 milioni a 243, 7 milioni di persone suddette, più quelle “senza documenti” che si vanno a stratificare nella popolazione dei paesi verso cui migrano e con cui entrano in feroce concorrenza, se viene commisurato alla crescita del capitale sociale globale complessivo e quindi alla sua parte costante in robot, piattaforme informatiche, impianti energetici, sistemi satellitari, più tutti i tradizionali impianti di estrazione di petrolio, acciaierie, industrie automobilistiche, ferroviarie, aeree, spaziali ecc., più alla quantità esponenzialmente crescente di merci che si converte in mezzi di produzione addizionali e chi più ne ha più ne metta, è un aumento relativamente decrescente. Dunque, quanto più avanza la globalizzazione capitalistica in intensità ed estensione e quindi quanto più aumentano i flussi migratori, tanto più la forbice tra i due diversi incrementi ai due poli opposti, del capitale costante, da un lato, e di quello variabile, dall’altro, si allarga. Quindi la crescita, che possiamo considerare esponenziale, delle migrazioni è inferiore alla crescita stra-esponenziale dei mezzi di lavoro - sia informatizzati che tradizionali -, dei mezzi di comunicazione e della massa di denaro che il credito mette a disposizione. Di conseguenza i migranti complessivi in aumento sono di gran lunga superiori alla massa di mezzi di sussistenza e quindi di salari che questo enorme capitale complessivo mette loro a disposizione. Pertanto, se la popolazione migrante, vale a dire la sua domanda di occupazione e benessere, è messa in moto dall’aumento esponenziale della ricchezza globale in mezzi di produzione informatizzati, merci prodotte su larga scala e a prezzi bassi, mezzi di trasporto ultraveloci ecc., viceversa essa stessa, muovendosi globalmente, mette in moto l’allontanamento di una sua parte sempre più grande dagli strumenti che le dovrebbero dare occupazione e di conseguenza anche dai mezzi di consumo. Insomma: la popolazione migrante creata dalla globalizzazione che si va a stratificare dentro tutto il proletariato capitalistico mondiale, che ovviamente non è solo migrante, crea essa stessa la sovrappopolazione relativa sia residente che migrante. La domanda di ricchezza messa in moto dalla globalizzazione è al tempo stesso offerta di miseria e questo i flussi migratori lo portano come uno stigma.
Non solo. Proprio la globalizzazione contemporanea mostra che la sovrappopolazione relativa migrante stratificata entro la più ampia sovrappopolazione relativa prodotta dall’accumulazione capitalistica, di cui quella migrante è parte cospicua, oltre a essere il prodotto dell’accumulazione è anche la sua leva. Poiché l’elasticità del credito e «la massa della ricchezza sociale che con il progredire dell’accumulazione trabocca e diventa trasformabile in capitale addizionale entra impetuosamente e con frenesia in branche vecchie della produzione il cui mercato improvvisamente si allarga, oppure in branche dischiuse per la prima volta come» – e qui al posto di «ferrovie ecc.», di cui parla Marx, poniamo tutto ciò che riguarda l’informatizzazione della produzione: tutto questo, con la “frenesia” in cui si è sviluppato nella globalizzazione, richiede che grandi masse di esseri umani devono essere spostabili da un punto all’altro della produzione nei punti decisivi senza pregiudicarne la scala della produzione negli altri punti. E poiché questa flessibilità la fornisce la sovrappopolazione, è chiaro che, con un processo frenetico di questo genere su scala planetaria, non sarebbero potuti non mettersi in moto con velocità accelerata flussi migratori su tutto il pianeta.
Prima la crisi asiatica del 1997 e poi la crisi mondiale partita dal 2008, hanno chiuso il ciclo iniziatosi con la globalizzazione degli anni Ottanta del Novecento. In tal modo si può vedere come in tutto questo processo dove si succedono periodi di vivacità media, di produzione con massima pressione, poi di crisi, contrazione e recessione, poi di ripresa più o meno timida e così di seguito; e dove gli effetti diventano a loro volta cause e viceversa: in tutto questo processo, dicevo, il capitale può descrivere le sue orbite o i suoi cicli rinascenti con la precisione meccanica dei corpi celesti solo perché ha formato il suo esercito industriale di riserva che, a seconda delle alterne vicende del ciclo e delle sue ricorrenze, può essere assorbito ora in misura maggiore ora in misura minore e può essere sempre nuovamente formato. E poiché gli spostamenti della popolazione sono planetari conformemente al carattere globale dell’accumulazione del capitale complessivo, noi possiamo vedere come il maggiore o minore assorbimento e la nuova formazione dell’esercito industriale di riserva migrante siano contemporaneamente la conseguenza e la leva delle alterne vicende del ciclo industriale, attraverso l’azione che il capitale esercita per mezzo degli Stati (e delle unioni di Stati), suoi comitati di affari, alternando fasi di maggiore apertura e maggiore chiusura dei confini.
Come abbiamo visto, l’obiettivo che il capitale persegue nel creare esso stesso una sovrappopolazione relativa ossia una popolazione di disoccupati, è la separazione tra lavoro e occupazione, di modo che la massa di lavoro possa aumentare secondo i suoi bisogni di autovalorizzazione indipendentemente dal fatto che aumenti la massa dei mezzi di occupazione degli operai. Tale obiettivo si può raggiungere grazie alla pressione che l’esercito industriale di riserva in ozio forzoso fa sull’esercito industriale attivo costringendolo al sovralavoro; la concorrenza tra occupati e disoccupati crea la disponibilità dell’occupato a fare quello che altrimenti sarebbe umano non fare. Orbene, per quanto riguarda la popolazione migrante l’obiettivo suddetto si raggiunge nel fatto che le leggi dei paesi capitalistici vincolano il soggiorno del migrante (e dei suoi eventuali familiari) nel paese in questione al possesso di un documento di lavoro che ne attesti l’occupazione. Ciò permette a ogni capitalista di ricattare il lavoratore immigrato che chiedesse un aumento del salario o la riduzione del sovralavoro a limiti umanamente accettabili, mediante la minaccia di un licenziamento che comporterebbe la perdita del documento di lavoro e di conseguenza del premesso di soggiorno. Così l’immigrato licenziato precipiterebbe nella cosiddetta immigrazione clandestina, con un probabile soggiorno temporaneo in centri di identificazione ed espulsione, dove, in attesa di essere rimpatriato, subisce trattamenti disumani, di cui un segnale sono periodicamente le esplosioni di rivolte che gli immigrati internati fanno contro le condizioni che essi trovano lì. All’espulsione o alla fuga da un’istituzione di questo genere, segue molto più probabilmente lo spostamento clandestino del migrante da un paese all’altro fino a che egli non si trovi lavoro, giacché, essendo l’immigrazione mossa dalla miseria artificiale del modo capitalistico di produzione, il ritorno nel paese di provenienza costituisce per l’immigrato un male peggiore della clandestinità.
Così, quella stessa borghesia che attraverso il suo Stato punisce l’immigrazione clandestina, proprio mediante questa criminalizzazione la crea e la ricrea continuamente, perché la riserva di popolazione migrante illegale fa pressione su quella legale e in tal modo il capitalista ottiene anche dagli operai immigrati una maggiore massa di lavoro senza aumentare l’offerta di occupazione. A sua volta, la parte di sovrappopolazione relativa costituita dagli immigrati, che il capitale divide nella concorrenza tra regolari e clandestini, ha pretese più basse rispetto alla popolazione operaia residente e così preme su di essa costringendo gli operai attivi ad accontentarsi di salari più bassi e soprattutto a lavorare per ancora più tempo supplementare, mentre l’esercito dei clandestini si aggiunge alla popolazione disoccupata residente, contribuendo ad aumentarne la domanda di lavoro di fronte a un capitale che, grazie a questa concorrenza tra le parti della sua classe operaia, può diminuire l’offerta di operai grazie alla maggiore offerta di lavoro che proviene dagli operai occupati, siano essi migranti siano essi residenti. È sulla base della concorrenza generale tra occupati e disoccupati e sulla conseguente pressione dei secondi sui primi affinché aumentino la massa di lavoro senza che il capitale aumenti l’occupazione, che nascono quei conflitti interetnici e xenofobici in cui l’ignoranza del fatto che sia il capitale stesso e non gli immigrati a creare la sovrappopolazione, si riflette nella rappresentazione rovesciata dove il nemico è l’immigrato che toglie lavoro.
In questo quadro la polemica tra opposti schieramenti politici, economisti e vari ideologi borghesi, divisi tra politiche di “accoglienza” dei migranti in quantità più o meno ampie, in nome dei diritti umani, da un lato, e politiche di forti restrizioni o addirittura di chiusura, in nome dell’occupazione e della sicurezza dei residenti, dall’altro, è, in tutte e due le posizioni e in tutte quelle intermedie, il riflesso ideologico del movimento reale e contraddittorio dell’intero ciclo dell’accumulazione capitalistica, resa possibile dal maggiore o minore assorbimento o dalla nuova formazione della sovrappopolazione relativa. Perciò il dibattito, posto in questi termini, mistifica le contraddizioni antagonistiche reali che l’intero ciclo strutturale genera e di cui si nutre. Poiché, nel ciclo in cui si alternano fasi di vivacità media, di frenesia espansiva, di stagnazione, di recessione e crisi da cui di nuovo riprende il ciclo, gli effetti diventano cause e viceversa, ecco che l’assorbimento, la contrazione e la nuova creazione di sovrappopolazione si alternano a loro volta, quindi le politiche di cosiddetta accoglienza e le politiche di freno e chiusura sono complementari, data la legge che regola la formazione capitalistica del suo esercito industriale di riserva. Aperture massime, ma non illimitate, si alternano a chiusure con manifestazioni ideologiche xenofobe oppure si intrecciano con una reciproca conversione di cause ed effetti.
Infatti gli schieramenti socialdemocratici o democratico-progressisti hanno avviato essi stessi le legislazioni contro l’immigrazione clandestina, che quindi implica limitazioni di accesso a chi non ha il permesso di soggiorno non avendo il libretto di lavoro, con l’effetto di fermare i migranti o in ipocritamente filantropici centri di accoglienza o in repressivi centri di identificazione ed espulsione onde poter redistribuire il flusso migratorio in una modalità che, stante il modo di produzione capitalistico, non può significare altro se non subordinazione alle esigenze di autovalorizzazione del capitale. E questo, quando non siano state addirittura tali forze politiche “progressiste” ad avviare la costruzione di muri alle frontiere. Viceversa, gli schieramenti conservatori o apertamente xenofobi, sostenendo protezionismi e chiusure di frontiere anche con muri, non possono certo abolire la legge naturale del modo di produzione capitalistico, che è quello della creazione della sovrappopolazione relativa essenziale alla riproduzione, a meno di non sopprimere del tutto il modo di produzione stesso. Ma posto che sia difficile una simile evenienza, essendo la tendenza a creare il mercato mondiale data immediatamente nello stesso concetto di capitale, un protezionismo estremo non sarebbe sufficiente. Infatti, come diceva Marx, «il sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò il sistema protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza all’interno di un paese». Considerando che ora la borghesia non avrebbe dinanzi il sistema feudale da cui affrancarsi, ma è essa stessa protagonista di uno sviluppo enorme della produzione, quindi è la classe dominante mondiale, inevitabilmente l’aumento della forza produttiva del lavoro con operai della propria nazione creerebbe un’accumulazione tale che se questa nazione volesse occupare tutti gli operai in essa presenti, dovrebbe creare la sovrappopolazione, necessaria alla riproduzione della sua ricchezza, al di fuori dello Stato, e di conseguenza dovrebbe riaprire i confini alla mobilità della forza-lavoro, altrimenti il suo capitale nazionale – che comunque sta dentro il mercato mondiale - non potrebbe percorrere il ciclo di sviluppo, crisi e ripresa. E infatti, al di là della propaganda più volgare, gli stessi schieramenti di questo tipo insistono sulla lotta solo all’immigrazione clandestina, anche se con forte tenenza a restringere il numero dei cosiddetti “regolari”. Diversamente, la borghesia di questa nazione, “chiusa” a parole ma nei fatti inevitabilmente inserita nel mercato mondiale, dovrebbe creare il suo esercito industriale di riserva con una quota di disoccupati al suo interno. Ma in questo caso essa introdurrebbe una dinamica di flussi migratori interni relativamente a uno strato della popolazione disoccupata e quindi si riprodurrebbero gli stessi inconvenienti di tutte le migrazioni che nascono dalla miseria della sovrappopolazione relativa. Così avvenne, ad esempio, nelle migrazioni dal Sud al Nord in Italia fino agli anni Settanta del Novecento.
Il punto è che nel modo di produzione capitalistico e specificamente dentro il movimento della sua riproduzione allargata o accumulazione, la mobilità migrante, appunto in quanto è tale, non può mai nascere dal fatto che gli uomini liberamente possano muoversi sulla superficie terrestre secondo il loro desiderio di autorealizzazione. In quanto “migrante”, la mobilità è eterodiretta nel senso che è il capitale che crea la sua sovrappopolazione e quindi la costrizione a migrare di una parte di essa, poiché esso deve continuamente mantenere il moto nella sua orbita attraverso il maggiore o minore assorbimento o attraverso la nuova creazione di sovrappopolazione, a seconda dell’alternarsi di periodi di espansione e periodi di recessione. Perciò anche le politiche dell’accoglienza non mettono in discussione tutto l’impianto fondamentale del modo di produzione capitalistico, che consiste nella sottomissione del tempo di lavoro di un uomo alle esigenze di arricchimento di un altro uomo, e di conseguenza sono continuamente ricattate da tutte le spinte xenofobe dinanzi a cui si mostrano deboli e soccombono soprattutto in periodi di crisi. D’altra parte la stessa parola “accoglienza” può avere un senso nella misura in cui il modo di produzione è quello capitalistico e per i modi di produzione precedenti, fondati sulla proprietà privata, perché presuppone che un uomo o una comunità siano proprietari di una parte di superficie terrestre in cui “accogliere”. Invece, scrive Marx, «dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra, sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive».
Ciò detto, è bene precisare che questo discorso non significa che in un radicalizzarsi dello scontro tra le due opzioni politiche suddette, nella prassi politica immediata non si debba appoggiare le rivendicazioni delle organizzazioni politiche più aperte alla mobilità di tutti gli uomini sul pianeta. Ma questo non basta, e ottenuto l’obiettivo immediato di fermare l’avanzata delle destre xenofobe, la lotta deve proseguire sulla via che porterà ad abbattere la radice stessa della condizione migrante, vale a dire quel sistema di produzione in cui la ricchezza creata di lavoratori stessi si capovolge nella loro miseria più nera.
Una tale prosecuzione della lotta è possibile solo mediante l’unione tra occupati e disoccupati e di conseguenza anche tra migranti e residenti, ponendo così fine a quella concorrenza tra tutti loro, che è tanto indispensabile all’accumulazione del capitale. Questo possono realizzarlo solo gli operai stessi «non appena […] penetrano il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura in cui lavorano di più, in cui producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza produttiva del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per loro; non appena scoprono che il grado d'intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi cercano attraverso Trade Unions ecc. di organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge di natura della produzione capitalistica ha per la loro classe». Non è un caso che proprio allora «il capitale e il suo sicofante, l'economista, strepitano per la violazione della "eterna" e, per così dire, "sacra" legge della domanda e dell'offerta. Ogni solidarietà fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati turba infatti l'azione "pura" di quella legge».

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