Migranti, le domande della vergogna: "Ti hanno stuprata? E perché sei fuggita in Italia?"

DI ANTONELLO MANGANO 

«Sei stata violentata? Perché hai cambiato paese e non quartiere?». M. è una donna eritrea. Sta raccontando la sua storia alla commissione territoriale, una di quelle che decidono quali migranti possono restare in Italia e quali no. Ha studiato ad Addis Abeba, dove voleva fare il meccanico. «In quel paese si può fare un lavoro da uomo», spiega. Nel 2010 sposa un etiope col matrimonio tradizionale. Ma tradizionale è pure la famiglia di lui, che la rifiuta. Per gli etiopi è e sarà sempre una spia eritrea. Non può proseguire gli studi né lavorare e così decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Da sola. Ed è proprio a Khartum che il cognato la violenta: «Se avessi parlato mi avrebbe ucciso», dice. Ha paura di rivolgersi alla polizia e scappa in Libia.
Qui iniziano i dubbi del suo intervistatore. Perché ha lasciato il Sudan? Khartum è molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere. Perché ha deciso di cambiare nazione?
Le linee guida Unhcr consigliano un tono rassicurante e domande pertinenti. Invece l’audizione per M. diventa un interrogatorio. «Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perché non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perché non conosce i motivi dell’arresto di sua madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?».
La stupreranno anche il padrone di casa dove lavora come domestica e i trafficanti. Il tono dell’intervista però non cambia: «Perché non è rimasta in Libia?». M. arriva
finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Consiglia solo di «fare visite mediche». Ci vorranno due anni perché il tribunale ribalti la decisione.
Si tratta di un caso isolato? Non proprio. Siamo entrati nel mondo chiuso - e finora inesplorato - delle commissioni che decidono sulle domande di asilo. Abbiamo letto centinaia di pagine di documenti ufficiali. È venuta fuori una lotteria: domande da telequiz, errori di copia-incolla, una vera e propria inquisizione.

Le donne nigeriane sono spesso vittime di tratta. Le aspettano interrogazioni del tipo: «Anche oggi sono morte cento persone nel Canale di Sicilia, l’altra opzione era fare la prostituta in Libia. Capisce che non ha molto senso che sia venuta in Italia solo perché glielo ha consigliato un uomo che conosceva da due mesi?». Quelle del Corno d’Africa scappano da dittatori e guerre endemiche. Subiscono numerose violenze di ogni tipo prima di arrivare in Europa.
Una donna ha visto una collega uccisa dai terroristi nello spiazzo di un supermarket. In commissione le chiedono: perché è venuta in Italia? «Non esistono posti sicuri in Somalia?». I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima. C’è chi si sente dire: «Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola». Oppure: se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro.

F. ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il mare che lo separava dall’Europa. È un sopravvissuto. Ma non aveva previsto l’ultimo ostacolo, i quiz della commissione. «Come si chiama lo stadio di Goa?», «Non lo so». «E il ponte sul fiume», «Non lo so». «E il fiume?», «Niger».
Il commissario si fida sempre meno. «Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?», «Non so, erano località piccolissime». Arriva il diniego, soltanto «i positivi segnali di integrazione» lo salvano dall’espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo...

Le domande si basano spesso sulla credibilità del soggetto intervistato. La Convenzione di Ginevra parla invece dell’oggetto, cioè il fondato timore di subire una persecuzione in patria. Da poco si sta imponendo un nuovo criterio, quello dei «positivi segnali di integrazione». Un concetto non definito dal diritto e spesso arbitrario.
Prendiamo il caso di G., che si salva dall’espulsione per un paio di parole in italiano. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra; che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente; che tornare lì significa rischiare la vita perché ci sono aree in conflitto di cui non si parla.
La commissione non gli crede. Citando qualche sito web, dice che la guerra è finita. Il destino sembra segnato. Tra lui e l’espulsione c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde nel dialetto bambara, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i «positivi segnali d’integrazione» gli valgono un permesso umanitario.
L’integrazione è un criterio soggettivo, ma piace sempre più sia ai tribunali che alle commissioni. J., per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa («un appartamento idoneo») e la madre ormai parla italiano. Ha anche fatto politica nel suo paese rischiando la pelle, ma questo non è preso in considerazione.

Alcune risposte sono decisive. Per esempio, quelle alla domanda-chiave: «Cosa teme tornando al suo paese?». Un nigeriano risponde: «Non so cosa potrebbe accadermi» e si auto-condanna all’espulsione.

Poi ci sono decisioni che sembrano già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria. Ci sono commissioni che hanno considerato paesi sicuri anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra civile.
C’è poi chi ama le domande di controllo. Sono quelle che servono a capire se l’intervistato sta mentendo. Ma possono diventare un tribunale delle scelte personali: «Perché è andato a vivere da solo?». Oppure: «Se suo padre era benestante, perché non l’ha fatta studiare?» E ancora: «Hai avuto altre donne prima di tua moglie?».

Infine ci sono le sottigliezze giuridiche. N. è al centro di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota la commissione, non si può parlare esattamente di faida perché non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.

Dinieghi
Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60 per cento dei migranti arrivati in Italia. Per il senso comune è la prova che si tratta di finti profughi. Ma è davvero così?

Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65 per cento dei rifiutati ha presentato ricorso. E nel 75 per cento dei casi ha vinto. In tre casi su quattro, la magistratura ha ribaltato le decisioni delle commissioni.

Di queste strutture ce ne sono venti in tutta Italia. Ognuna è composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell’Unhcr. Poi c’è l’interprete, decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto africano che nessuno comprende. L’intervista spesso è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato di chi si tratta. Nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123.600 richiedenti.
Il decreto Minniti - Orlando, recentemente approvato dal Parlamento, affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello. Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. «Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che creano solo marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario», protesta Lorenzo Trucco, presidente dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Si crea così un «diritto processuale civile speciale» basato sulla nazionalità.

Alcune norme sembrano inoltre complicate da applicare. Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Oppure i responsabili dei centri di accoglienza che diventano “pubblici ufficiali” e dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Un’altra novità che ha già suscitato le proteste degli operatori.