Da marzo, una volta scaduti i contratti di solidarietà, quasi 5mila dipendenti dell’Ilva finiranno in cassa integrazione straordinaria. La notizia è stata ufficializzata martedì mattina alle segreterie provinciali di Fim, Fiom, Uilm e Usb dal gruppo siderurgico, guidato ancora dai commissari straordinari Enrico Laghi, Corrado Carrubba e Piero Gnudi in attesa della cessione entro il prossimo ottobre a una delle due cordate che hanno presentato offerte per acquisirlo. I sindacati hanno rispedito al mittente la proposta, definendolainaccettabile” perché “rischia di aprire fronti incerti rispetto alle tutele occupazionali in una fase delicatissima con alle porte la cessione degli asset produttivi, oltre a produrre ripercussioni pesanti sul reddito dei lavoratori già fortemente penalizzati“. In pratica la preoccupazione dei rappresentanti dei lavoratori è che si tratti di un “assist che consegni ai futuri acquirenti la possibilità di avere elementi per eventuali dichiarazioni di esuberi strutturali nonché ulteriori danni economici per i lavoratori”. Per questo chiedono che “il tavolo di discussione sia trasferito presso il competente ministero al fine di ricercare una concreta risoluzione che tuteli l’occupazione e il reddito dei lavoratori” che “perdono, in media, dai 130 ai 150 euro al mese”. In caso contrario “non escludiamo la mobilitazione di tutti i lavoratori”, fanno sapere.Gli “esuberi temporanei” dichiarati dall’Ilva sono 4.984 tra gli impiegati nello stabilimento di Taranto più 80 operativi a Marghera, su un totale di poco più di 10mila dipendenti. Le motivazioni, stando alla nota del gruppo, sono legate al “protrarsi della crisi economico-finanziaria internazionale, che ha prodotto un progressivo deterioramento del mercato di riferimento in Europa dopo un ciclo espansivo pluriennale collocabile negli anni 2003-2008″. Segue un riferimento ai costi sostenuti per adeguarsi alle prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), costi a cui dovrebbero contribuire gli 1,3-1,4 miliardi della famiglia Riva custoditi in Svizzera e in fase di rientro dopo l’accordo con le procure.
I rappresentanti dei lavoratori chiedono ora che “il tavolo di discussione sia trasferito presso il competente ministero al fine di ricercare una concreta risoluzione che tuteli l’occupazione e il reddito dei lavoratori”. Durante l’incontro, fanno sapere, “abbiamo ribadito ad Ilva che l’eventuale accordo deve necessariamente contenere avvio della discussione sui Contratti di solidarietà in deroga al Jobs act per un periodo pluriennale e integrazione salariale“.
Nel documento consegnato alle organizzazioni sindacali durante il consiglio di fabbrica, l’Ilva fa presente che si rende necessario “effettuare fermate parziali o anche totali di tutti gli impianti a valle e a monte del ciclo produttivo a caldo di Taranto, con inevitabile riduzione del fabbisogno di risorse umane“. Di qui la “sospensione” di 433 lavoratori dell’area Ghisa, 821 dell’area Acciaieria, 988 dell’area Laminazione, 916 dell’area Tubifici-Rivestimenti tubi-Fna, 896 del’area Servizi-Staff e 939 dell’area Manutenzioni centrali (in totale 4.114 operai, 574 impiegati, 296 equiparati).
La “congiuntura sfavorevole”, aggiunge l’azienda, “ha coinvolto l’intero ciclo produttivo dello stabilimento ionico interessando dapprima il settore e i laminati piani nelle varie linee di prodotto formato e, successivamente, il settore dei tubi e lamiere ad oggi risulta interessato da fermate totali o cicli ridotti di lavorazione”. Ma a questa condizione generale del mercato, a partire dal 2012, “si è associata – spiega l’Ilva – una complessa vicenda amministrativalegislativa e giudiziaria che ha interessato l’unità produttiva di Taranto”.
In tale contesto, “l’Ilva – si legge nel documento – ha avviato il piano di adeguamento alle prescrizioni Aia che ha comportato la progressiva ‘fermata’ o la riduzione degli impianti che insistono sull’area a caldo”. Il combinato disposto tra “il progressivo attestarsi di produzione e commercializzazione su volumi insufficienti a garantire l’equilibrio e la sostenibilità finanziaria” e “gli ingenti costi di adeguamento alle prescrizioni Aia”, ricorda poi il documento, ha “progressivamente aggravato la situazione di illiquidità, che ha determinato l’inevitabilità della richiesta di accesso alla procedura di amministrazione delle grandi imprese in crisi, cui l’impresa risulta oggi assoggettata