lunedì 31 ottobre 2016

pc 31 ottobre - Un giorno da profugo: ecco come vivono i migranti arrivati a Torino

Una testimonianza

La storia di Bara e Mbaye, ospitati nell’ex hotel di Cavoretto: passano le ore tra attese infinite e la difficoltà di farsi capire


30/10/2016
torino
Senza soldi si può vivere. Ma non senza scarpe. Se le hai ti sposti, vai, cerchi fortuna, sfidi la pioggia e la neve. Se non le hai stai lì, prigioniero di giornate piene di niente. Mani e braccia forti che diventano inutili. Per fortuna Bara, 24 anni, originario di Kaula, Sudan e il suo amico Mbaye, 23 anni, di Dakar, hanno buone scarpe da ginnastica. E come dicono nel loro francese zoppicante: «On va». Andiamo.
Questa è la storia di Bara il lungo e Mbaye il meccanico, profughi sudanesi sbarcati quattro mesi fa a Cavoretto. Collina ricca di Torino, dove però non abbondano le persone che parlano il Wolofe, l’unica lingua che «il lungo» e il suo amico capiscano. E stare lì, 24 ore su 24, senza parlare con gli altri 30 ospiti tra nigeriani ed eritrei, che provano a farsi capire con l’inglese, è un inutile gioco del silenzio. Senza vittorie e senza prospettive.

E allora, in questo sabato che di autunnale ha poco: «On va», si va. Ad affrontare la metropoli, a Porta Palazzo. Alla ricerca di un cavo per accendere il vecchio portatile Acer. Con un po’ di fortuna e col wi-fi del ricovero potranno parlare con la famiglia. Ma prima si devono pulire i pavimenti, rispettando i turni che i mediatori hanno scritto sulla lavagna. «Clean» pulizie, «Kitchen» corvè in cucina e via elencando. Poi si va. Con un tesoro: 5 euro che Bara tiene infilati dentro alla tasca davanti dei jeans. Porta Palazzo, con il mercato delle cianfrusaglie del sabato, è la boutique dove rifornirsi. In questo viaggio che dura un’ora e un bel po’- da piazza Freguglia a piazza della Repubblica - c’è il tempo di parlare, di sapere. Bara è stato prigioniero in Libia. «Mauvais» cattivi i libici. Botte. Una banana al giorno di cibo. E ancora botte. Anche Mbaye è stato in prigione lì. E ha visto morire altri ragazzi: sudanesi, nigeriani, ghanesi. Come? «Bum - bum» e mima il gesto della pistola. Perché? «Libian mauvais». Cattivi. Chi non paga muore. O sta in galera.
Visto con i loro occhi il rifugio di Cavoretto, nel vecchio albergo riadattato, dove hanno un letto e due pasti al giorno, è come essere all’hotel Waldorf Astoria di New York, a quattro passi dalla Fifth Avenue. E Porta Palazzo è il loro Rockefeller Center, dove c’è tutto, ma a poco prezzo. E poi ci sono tanti «fratelli neri» scappati anche loro dalle terre dei padri. Per un cavetto da computer, qui, che vuoi che ti prendano? Ma c’è da camminare, frustare suole. Cercare. Tra montagne (ancora) di scarpe di seconda mano e un’infinità di carabattole.
Prima stuoia. Cavetto e adattatore recuperato. Ma è da 12 volt e al pc serve un’adattatore da 19 volt. È una fregatura. Si torna indietro. Discussione tra chi parla in pseudo francese e chi un italiano approssimativo. Cambio merce accordato. È meglio provarlo, stavolta. Ma è rotto. Altra discussione, l’affare salta.
Si riprende a camminare. «Solo il sabato veniamo qui. Gli altri giorni stiamo su: vengono gli insegnanti, anche di italiano. Ma solo per due o tre ore qualche giorno la settimana. Il resto del tempo stiamo lì». Sospesi nel vuoto. In una bolla immobile che sfinisce, più di un camion di cassette da scaricare. Terza stuoia: c’è l’adattatore. Dieci euro: sono quattro giorni di aiuto economico. Troppi. Ancora avanti. Sesta. Settima stuoia. «Sono profughi, fagli lo sconto». «Non mi importa - dice il fratello maghrebino -. Se non vuoi lascialo lì». Quindicesima stuoia. Tre euro. Ma è da provare. «Vai da lui, ha elettricità» suggerisce il venditore. È un attimo. Il generatore alimenta le prese: funziona. Mbaye s’inchina: «Merci» e se ne va. L’altro lo afferra alle spalle. Gli strappa il computer di mano. «Devi pagare, tu hai usato la mia corrente. Tu paghi». Lite. Spintoni. In ballo ci sono 50 centesimi per la prova. E il vecchio Acer rischia di sparire. Folla che assiste senza dire una parola finché un ragazzo marocchino capisce, si lancia in mezzo. Paga lui i 50 centesimi, si riprende il computer e lo dà al meccanico. Il «fratello» che ha fatto fare la prova «non sa cos’è la solidarietà» dice Mbaye. Stuoia numero ventidue. C’è l’adattatore. Costa tre euro. Va bene. Affare fatto. «Qui nessuno vuole bene a nessuno», si dispera Bara. Non ci sono fratelli, amici o altro. Meglio andare via. Meglio tornare a Cavoretto. Stasera almeno si parla con casa. «C’èst bien ici». Si sta bene qui. Non c’è nulla. E un po’ ti spegni ogni giorno. Ma se ce la fai a resistere, e se ottieni lo status di rifugiato, puoi provare a costruirti il futuro.

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