Il 26 di giugno, è la giornata internazionale delle Nazioni unite per le vittime di tortura. Lunedì prossimo sarà passata un’altra settimana senza che l’Italia abbia riconosciuto la tortura quale un crimine specifico da codificare nel proprio ordinamento. Ilaria Cucchi, una donna la cui incredibile tenacia ha fatto forse più di tante sollecitazioni istituzionali europee ed internazionali, poche ore fa ha consegnato al ministro della Giustizia Andrea Orlando le oltre 200mila firme raccolte dalla sua petizione, nomi e cognomi di persone che chiedono che l’Italia si adegui agli standard mondiali. Orlando ha pronunciato parole chiare: “C’è, nel nostro Paese, un vuoto normativo”, ha detto. Questo vuoto va colmato con una legge che renda la tortura un esplicito reato. Spesso le nostre istituzioni sono state ben distanti da questa linea.
Due sono gli argomenti che ho sentito apportare, da governatori vari nel corso degli ultimi decenni, per giustificare la pigrizia nell’introdurre il reato di tortura nel codice penale italiano. Il primo – un tantino meno di moda negli anni più recenti per ovvie ragioni di evidenza storica – sosteneva che la tortura fosse roba da terzo mondo, lontana dal riguardare una democrazia avanzata quale la nostra. Falso. Genova, Asti, Stefano Cucchi (nel processo per la morte del quale il procuratore generale, non l’avvocato di parte civile, ha pronunciato la seguente frase, avvicinando i funzionari italiani e quelli egiziani di Al-Sisi: “Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni”). Il secondo argomento sosteneva che, anche di fronte a casi conclamati di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine, quel reato fosse superfluo, ridondante, già coperto dalla varia intersezione e sovrapposizione di altre fattispecie criminose ben punite dal nostro codice.
Falso anche questo. Dovrebbe passare di moda, e in fretta, anche questa seconda strada argomentativa. Al processo di Genova sappiamo com’è finita. A quello di Asti il giudice ha dovuto scrivere nella sentenza di essersi trovato di fronte episodi di brutale tortura, ma di non avere avuto strumenti normativi tali da poter punire i colpevoli poiché il reato non è codificato. L’Argentina si è vista negare dall’Italia l’estradizione del cappellano militare Don Reverberi, accusato di essere complice di atroci torture inflitte dal regime di Videla durante la dittatura e rifugiatosi opportunamente nel nostro paese, con la motivazione che, da noi, la tortura non è reato. I torturatori di Giulio Regeni, se mai nel mondo della fantasia venissero, dall’Egitto, consegnati al nostro paese, non potrebbero venire processati con l’accusa di tortura. E con il processo per la morte di Stefano come finirà?
Non lasciamo passare un altro 26 giugno senza il reato di tortura scritto a chiare lettere nel nostro ordinamento