martedì 24 maggio 2016

pc 24 maggio - Non stancarsi mai di denunciare e informare sull'orrore dei campi di concentramento nazisti

Abbiamo pubblicato tempo fa una intervista a una scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm che ha scritto un libro sul lager nazista per sole donne di Ravensbruck - una ricerca e denuncia quanto mai importante di fronte allo svilupparsi di forze e tendenze naziste in tutta Europa, che cavalcano la tigre della crisi e dell'immigrazione per far avanzare la loro orda nera.
In questa intervista in alcune frasi finali la scrittrice, democratica antinazista ma non certo comunista, accenna a quello che sarebbe avvenuto in Crimea con Stalin - sono evidentemente cose che consideriamo ispirate alla ben nota e reazionaria campagna antistalinista...
Alcuni lettori ce lo hanno giustamente segnalato.
Ripubblichiamo, quindi, il testo di questa intervista senza queste ultime frasi, perchè comunque resta necessario utilizzare anche questo libro nell'azione su tutti i campi contro le forze nazifasciste

L'orrore nazifascista da non dimenticare.
Ravensbruck, il campo delle reiette
Intervista. con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm sul suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno»,
È stato l’orrore nazi­sta decli­nato al fem­mi­nile, Raven­sbruck, il campo di con­cen­tra­mento per sole donne, aperto nel mag­gio 1939 a nord di Ber­lino. Vi veni­vano rin­chiuse e tor­tu­rate donne defi­nite aso­ciali: senza fissa dimora, malate di mente, disa­bili, testi­moni di Geova, oppo­si­trici poli­ti­che, atti­vi­ste della resi­stenza, comu­ni­ste, zin­gare, lesbi­che, vaga­bonde, pro­sti­tute, men­di­canti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne con­si­de­rate di razza infe­riore e reiette che anda­vano cor­rette, punite ed estir­pate dalla società per evi­tare che con­ta­gias­sero gli ariani. Una strut­tura voluta da Himm­ler e da
cui in sei anni tran­si­ta­rono circa 130mila pri­gio­niere, pro­ve­nienti da più di venti paesi euro­pei. Si stima che le vit­time furono fra le trenta e le novan­ta­mila donne, un dato incerto per la scarsa docu­men­ta­zione rima­sta dopo che le carte furono distrutte per insab­biare i cri­mini com­piuti alla vigi­lia della libe­ra­zione. Nel campo le donne subi­rono sevi­zie, espe­ri­menti medici, tor­ture, ste­ri­liz­za­zioni e aborti, ese­cu­zioni som­ma­rie oltre a ritmi este­nuanti di lavori for­zati. Dal campo di Mal­chow, un sot­to­campo di Raven­sbruck, fu libe­rata nel ’45 l’italiana Liliana Segre.

La sto­ria dell’unico campo di con­cen­tra­mento fem­mi­nile, rima­sta per molti anni nell’ombra, è al cen­tro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo ori­gi­nale If this is a Woman, para­fra­sando Primo Levi) della gior­na­li­sta inglese Sarah Helm, da poco uscito in Ita­lia, edito da New­ton Comp­ton

Per­ché ha deciso di rac­con­tare la sto­ria di Raven­sbruck?
Avevo già scritto di Vera Atkins, straor­di­na­ria ebrea tede­sca che lavo­rava per l’intelligence bri­tan­nica a un’operazione segreta voluta da Chur­chill, reclu­tando e adde­strando donne a para­ca­du­tarsi in Fran­cia per aiu­tare la resi­stenza. Dopo la cat­tura, le agenti non tor­na­rono più e non furono mai cer­cate. Atkins seguì le loro tracce, que­ste la por­ta­rono a Raven­sbruck, dove molte erano state rin­chiuse. Rac­colse molte testi­mo­nianze e il pro­cesso per cri­mini di guerra per­pe­trati nel campo fu istruito dalle auto­rità bri­tan­ni­che gra­zie alle sue ricerche.

Che attua­lità assume oggi que­sto rac­conto a distanza di settant’anni?
Le testi­mo­nianze, le sof­fe­renze e il corag­gio di quelle donne sono cen­trali. È una sto­ria rima­sta ai mar­gini dei mar­gini. Si è trat­tato di un cri­mine con­tro l’umanità. Le donne furono tor­tu­rate, fatte sof­frire in maniera inau­dita, sepa­rate dai bam­bini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu com­piuta una ste­ri­liz­za­zione di massa, oltre ad aborti atroci. A Raven­sbruck i nazi­sti pra­ti­ca­rono il con­trollo della ripro­du­zione, fu un labo­ra­to­rio per appli­care sui loro corpi vari metodi e stu­diare come rea­gi­vano ai trat­ta­menti. Le vit­time pra­ti­ca­rono sistemi di soprav­vi­venza estremi e uno straor­di­na­rio corag­gio. Si rea­liz­za­rono forme di soli­da­rietà da parte delle dot­to­resse del campo e di pic­coli gruppi di soste­gno a chi aveva perso i fami­liari. Si creò un’anomala forma di società. Le guar­die erano donne, altro aspetto non tra­scu­ra­bile, i cri­mini quindi erano com­messi da donne sulle donne. Aver mar­gi­na­liz­zato la sto­ria di Raven­sbruck ha signi­fi­cato accan­to­nare que­sta cru­deltà. La più ter­ri­bile sto­ria di orrore fu appli­cata nella stanza dei bam­bini. Le Ss cer­ca­rono di pre­ve­nire ed evi­tarne la nascita: vole­vano far estin­guere le razze con­si­de­rate infe­riori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le pri­gio­niere in stato di gra­vi­danza rag­giun­sero numeri tali che la situa­zione sfuggì al con­trollo e non si riu­scì più a pra­ti­care in tempo la ste­ri­liz­za­zione né l’aborto. Si per­mise di far nascere i bam­bini nella con­sa­pe­vo­lezza che sareb­bero morti. Dif­fi­cile imma­gi­nare qual­cosa di più cru­dele: per­met­tere alle donne di dare alla luce i loro pic­coli per vederli morire di stenti. A Raven­sbruck que­sta è forse stata una delle più orri­bili azioni di cru­deltà nazi­sta che era asso­lu­ta­mente neces­sa­rio ricordare.

Cosa rende atro­ce­mente spe­ciale e diverso dagli altri il campo nazi­sta di Raven­sbruck?
La capa­cità delle donne di resi­stere e com­bat­tere con­tro quello che stava acca­dendo. Soprav­vi­vere. È una sto­ria di corag­gio, deter­mi­na­zione e volontà. Le gio­vani stu­den­tesse polac­che di Lublino, ad esem­pio, arri­vate nel 1941, e scelte per gli espe­ri­menti medici. I coni­gli, come furono sopran­no­mi­nate per la loro anda­tura zop­pi­cante, subi­rono atroci espe­ri­menti alle gambe. Himm­ler chiese ai dot­tori di ricreare le con­di­zioni dei campi di bat­ta­glia, le ragazze furono muti­late e infet­tate con la gan­grena gas­sosa per testare i far­maci che pote­vano essere effi­caci per i sol­dati. Le testi­mo­nianze degli espe­ri­menti sono det­ta­gliate. Una gio­vane polacca volle far sapere al mondo quello che stava acca­dendo gra­zie alla scrit­tura con un inchio­stro invi­si­bile usato a mar­gine delle let­tere indi­riz­zate alla fami­glia. Le mis­sive rag­giun­sero i parenti, in par­ti­co­lare una madre a capo di un gruppo di resi­stenza a Lublino che mandò le infor­ma­zioni alla Sve­zia che le girò a Lon­dra che, a sua volta, le inviò al comi­tato inter­na­zio­nale della croce rossa sviz­zera, che tut­ta­via le ignorò. Que­sto ebbe con­se­guenze ter­ri­bili. Dopo la fuga di noti­zie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti.
Il rac­conto delle effe­ra­tezze com­piute ai Raven­sbruck ha inse­gnato qual­cosa alle gene­ra­zioni future?
Vor­rei rispon­dere di sì, ma non posso. Molte delle donne inter­vi­state non ave­vano mai par­lato prima. Pen­sa­rono che la loro testi­mo­nianza fosse neces­sa­ria per impe­dire che la bar­ba­rie si ripe­tes­sero, ma non è stato così. Le con­ven­zioni di Gine­vra per la pro­te­zione dei civili sono con­ti­nua­mente igno­rate. Basti guar­dare a cosa accade in Siria, nes­suno si sta impe­gnando per pro­teg­gere la popo­la­zione, lo stesso è avve­nuto con i bom­bar­da­menti a Gaza l’estate scorsa. La mia impres­sione è che si stia regre­dendo e non si sia impa­rato nulla da ciò che è suc­cesso in passato.

Milena Jesenskà
Nel campo fini­rono donne con­si­de­rate arbi­tra­ria­mente peri­co­lose, deboli, reiette. Que­sto fa pen­sare che nes­suna possa dirsi mai al sicuro…
È vero, chiun­que potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazi­sta arre­stava donne di ogni estra­zione, ori­gine, nazio­na­lità e colore. C’erano con­tesse fran­cesi, senza fissa dimora, pro­sti­tute, espo­nenti della resi­stenza, donne dell’armata rossa, infer­miere. Molte scrit­trici, gior­na­li­ste, arti­ste, come Milena Jesen­skà, intel­let­tuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minac­cia nazi­sta, ma biso­gna man­te­nere alta l’attenzione. Vivere in una demo­cra­zia, avere libertà di espres­sione, non mette al riparo da derive peri­co­lose, come non si può igno­rare ciò che ci accade intorno. La rea­liz­za­zione del libro è stato un pro­cesso lungo e lento, come met­tere insieme diversi tas­selli di un puzzle. Con­vi­vere con una sto­ria così ter­ri­bile per tanto tempo è stato pos­si­bile gra­zie agli incon­tri con per­sone che mi sono state di grande ispi­ra­zione.  

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