domenica 10 aprile 2016

pc 10 aprile - Gli operai devono lavorare di più, più rapidamente e con maggiore qualità, ovvero la scoperta del Kaizen

L’inserto della Repubblica di questa settimana, il Venerdì, riporta un interessante articolo intitolato “La filosofia del Kaizen che dà il potere agli operai” che si presta subito a battute… ma che nella spiegazione del metodo così chiamato vuole invece apparire simpatico e accattivante con frasi evocative di questo tipo: “Provate a immaginare una fabbrica dove siano aboliti decisioni e ordini rigidi calati dall’altro. Dove l’operaio possa indicare come modificare una catena produttiva per renderà più efficiente. Dove la piramide del potere sia in qualche modo rovesciata e le maestranze propongano, e dispongano anche.”
Cosa non ci si inventa pur di fare produrre di più gli operai! Questo “nuovo” metodo si chiama appunto Kaizen “un mix tra riflessione, creatività e buon senso, ma soprattutto convinzione che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali” e viene dal Giappone. Dice che lo ha utilizzato la Toyota che addirittura “è riuscita a fare di questa filosofia produttiva un modello industriale di successo”

Ce ne occupiamo in questa occasione perché l’articolo dice che “Anche in Italia oggi oltre mille aziende rivendicano di applicare il metodo Kaizen con ottimi risultati.” E quali sono questi risultati? “Meno sprechi, più redditività, maggiore qualità.” Insomma ci vuole lo zen per riproporre la
vecchissima ricetta, vecchia quanto il capitalismo stesso, che spinge gli operai a “sprecare” meno tempo e materiale di lavoro, per essere più redditivi per il capitale e per giunta produrre oggetti con una qualità maggiore!? Non basta il meraviglioso WCM-Ergo Uas applicato da Marchionne? Che prima applicava il TMC e il TMC2? E prima ancora le “isole” e il just in time… insomma tutti metodi che cronometrano i tempi per strappare agli operai quanti più secondi del tempo di lavoro necessario alla loro riproduzione (la loro vita) e “conquistare” sempre più secondi al profitto del padrone. Ma qui, pensando di fare cosa nuova, hanno rispolverato pure la vecchia cassetta dei suggerimenti affinché “le fasi della produzione non siano stabilite una volta per tutte, ma possano essere modificate continuamente, con piccoli accorgimenti, suggeriti dal basso” perché gli operai sono “quelli che hanno il know how”. Esatto, così fa il capitale! Da quando è nato assorbe progressivamente il sapere degli operai e lo incorpora nelle macchine!
E leggere come viene applicato alla Geox e alla San Benedetto, tra le altre, è interessante, ma la cosa più interessante è appunto il tentativo degli intellettuali al servizio dei padroni di trovare metodi sempre più raffinati per estorcere pluslavoro; questo tentativo parte addirittura dall’utilizzo della dialettica laddove dice che la cosa più importante è “che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali” e invita quindi a cambiarli. Giusto! Bisogna cambiare schema mentale, ma per opporsi sempre meglio allo sfruttamento capitalistico in fabbrica e fuori dalla fabbrica affinché la piramide del potere sia davvero rovesciata.

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La filosofica del Kaizen che dà il potere agli operai
Il marxismo non c’entra. Si tratta del metodo giapponese, che punta a un continuo miglioramento della produzione attraverso piccoli cambiamenti. Suggeriti dal basso

Provate a immaginare una fabbrica dove siano aboliti decisioni e ordini rigidi calati dall’altro. Dove l’operaio possa indicare come modificare una catena produttiva per renderà più efficiente. Dove la piramide del potere sia in qualche modo rovesciata e le maestranze propongano, e dispongano anche. Dove le fasi della produzione non siano stabilite una volta per tutte, ma possano essere modificate continuamente, con piccoli accorgimenti, suggeriti dal basso. La multinazionale giapponese Toyota è riuscita a fare di questa filosofia produttiva un modello industriale di successo, e nel museo di Nagoya la propone riassunta, in una prima, semplice regola: rispetto per le persone. Di mezzo ci sono zen e umanesimo. Ma, al contempo, molta praticità. Si tratta del cosiddetto metodo Kaizen, un mix tra riflessione, creatività e buon senso, ma soprattutto convinzione che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali.
Anche in Italia oggi oltre mille aziende rivendicano di applicare il metodo Kaizen con ottimi risultati. Meno sprechi, più redditività. maggiore qualità. Geox, colosso della moda quotato in borsa (l’anno scorso ha superato 870 milioni di euro di ricavi), è una delle tante. Giorgio Presca, amministratore delegato, sintetizza così: “Chiedermi come si fa una cucitura sarebbe inutile e sbagliato. Questo significa che chi è in alto nelle gerarchie non possiede tutte le competenze e quindi deve ascolta chi le ha. Ma c’è dell’altro: servono luoghi in cui chi ha le capacità manuali possa esprimere le sue idee, anche le più forti, per evitare che nella produzione si resti sempre fissati sullo stesso tipo di pensiero. La storia è piena di innovatori che sono stati derisi e denigrati. Invece è essenziale avere il coraggio di cambiare abitudini sbagliate, di coinvolgere tutti nella ricerca di nuove idee.” Quando, per esempio, Geox ha deciso di entrare nei mercati scandinavi, si è affidata al metodo Kaizen per trovare innovazioni capaci di proteggere dal freddo estremo. Chiedendo il contributo di tutti, dagli operai ai manager.
Secondo l’economista giapponese Masaaki Imai, che dalla fine degli anni Ottanta lo diffonde nel mondo, il metodo Kaizen è prima di tutto “uno stato d’animo mai soddisfatto dallo Status quo migliorato continuamente”. Imai, un uomo gentile e pacato, ha 86 anni. Ha fondato il Kaizen Institute per divulgare il suo metodo in Occidente (la sede italiana è a Bologna). E oggi è una star internazionale contesa dalle università. Sale in cattedra e racconta come, per migliorare quello che si fa, sia anzitutto necessario cercare uno sguardo diverso sulle cose.
Il Gemba, che in giapponese significa “posto reale”, è il luogo dove si svolte l’azione. Può essere un reparto della fabbrica. Potrebbe anche essere un ospedale o una qualsiasi struttura della pubblica amministrazione. È lì, dice Imai, che occorre osservare ogni oggetto, impianto o relazione con occhi nuovi, “per identificare il problema e poi risolverlo applicando il buon senso”. Cosa non sempre facile se ci si impunta su modelli di pensiero precostituiti. “Moltissimi dei problemi che affrontiamo possono essere risolti semplicemente usando il buon senso” dice. Così la mentalità manageriale caratterizzata dalla dipendenza da schemi tanto elaborati quanto rigidi appare il principale ostacolo al problem solving, il processo cognitivo che consente di analizzare una situazione ed escogitare una soluzione. Quindi contro l’arroganza intellettuale va riscoperta l’umiltà. Bel match. Con un vincitore inatteso.
Quando, qualche decennio fa, alcuni grandi gruppi industriali occidentali si accorsero che nel lontano Oriente Toyota cresceva impiegando meno capitale finanziario, cominciarono a chiedersi quale fosse il suo segreto. Lo fecero multinazionali come la General Electrics e la Chrysler negli Stati Uniti. E lo fece anche la Fiat, in Italia. Il Lingotto tentò l’emulazione durante l’era di Vittorio Ghidella, amministratore delegato tra le fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta. “Fu l’epoca del lancio del just in time, in base al quale si produce solo ciò che è stato giù venduto o si prevede di vendere davvero” ricorda Bruno Fabiano, cofondatore di Kaizen Italia. “La Fiat fece però l’errore di limitarsi a un copia e incolla del metodo, senza cercare soluzioni personalizzate”. Tante aziende sono invece riuscite a fronteggiare la crisi economica proprio modulando sullo loro esigenze specifiche la filosofia giapponese. Che poi interamente giapponese non è.
Tutto partì infatti con un ingegnere e saggista americano, Edward Deming, spedito dagli Stati Uniti in Giappone nell’abito del piano Marshall, per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale. A lui si deve la creazione del cosiddetto ciclo di Deming, per il miglioramento continuo della qualità della produzione industriale. Gli Usa però lo archiviarono rapidamente mentre i giapponesi presero Deming molto sul serio e ne fecero un eroe nazionale. Il metodo Kaizen sviluppato da Maaaki Imai parte da lì. E ora, dopo essere stato per decenni gloria del Sol Levante, ha iniziato a farsi strada anche in Europa e in America.
In Italia, per esempio, in provincia di Venezia, nello stabilimento di Acque minerali san Benedetto (quartiere generale a Scorzè), cinque anni fa decisero di concentrarsi sulla riduzione del tempo necessario a cambiare lo stampo di una bottiglia.
“Prima occorrevano quattro ore, ora ne impieghiamo solo una e mezza” dice il direttore generale del gruppo Frederic Barut. “Così abbiamo ridotto i costi e aumentato la capacità produttiva. Lo abbiamo fatto eliminando tutte le attività inutili e a ideare i vari cambiamenti sono stati gli operai, quelli che hanno il know how”. In pratica, nello stabilimento, un lavoratore ha cominciato a cronometrare i tempi produttivi, un altro quelli non produttivi, un terzo a iniziato a contare i chilometri quotidiani per andare da un luogo all’altro della fabbrica in cerca di una vite, di un bullone, di un trapano. E poi si sono cercate soluzioni semplici per accorciare i tempi.
Altrove hanno inventato invece il “supermercato” per l’approvvigionamento del materiale necessario alla produzione: “Scaffali bassi, carrellini. I dipendenti passano ed è come se facessero la spesa, diminuendo così sprechi e tempo” dice Paolo Fracassini, responsabile della produzione di ArgoTractors, a Fabbrico (hinterland di Reggio Emilia), che con oltre 1.600 dipendenti produce macchine agricole destinate per oltre l’80 per cento all’estero. Nello stabilimento più di un caporeparto all’inizio ha puntato i piedi. Poi, però, i prezzi sul mercato si son abbassati, il reddito del gruppo è cresciuto e anche i più ostili al cambiamento hanno cambiato idea.
Il Venerdì 8 aprile ’16

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