mercoledì 30 marzo 2016

pc 30 marzo - La grande mobilitazione in Francia contro il jobs act alla francese

Da clash city workers

Il progetto di legge El-Khomri

Alcune delle modifiche in questione sono già contenute, in parte, all'interno della legge Macron (Emmanuel Macron è l’attuale ministro francese dell’economia, rappresentante dell'ala liberista del Partito Socialista), un provvedimento pletorico emesso in piena crisi greca, con l’obiettivo di rassicurare gli investitori privati e la Commissione Europea. Esse sono state poi sviluppate all'interno del progetto di legge El-Khomri, questa volta con il chiaro intento di riformare il code du travail. Nel riassumere i punti della riforma ci riferiremo indifferentemente a entrambi i provvedimenti.
1) Possibilità per gli accordi aziendali di andare in deroga ai contratti di categoria e allo stesso codice del lavoro: questa è certamente la modifica più importante. Essa dispone la fine del principio di favore, ossia la regola principe del diritto del lavoro per la quale qualsiasi accordo sindacale può discostarsi dai contratti nazionali e dalle leggi solo nel caso in cui sia favorevole al
lavoratore. La riforma conferma che in caso di accordo aziendale, siglato dai sindacati in possesso della maggiore rappresentatività, esso potrà andare in deroga alle fonti gerarchicamente superiori pur essendo favorevole all’impresa! Un po’ quanto previsto, in Italia, dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e soprattutto dall’articolo 8 della legge 148, figlia del Governo Monti. Se poi non vi fosse maggioranza sindacale, ossia se i delegati dei lavoratori rifiutassero l’accordo peggiorativo, una qualunque delle sigle sindacali potrebbe richiedere che venga svolto un referendum all’interno dell’azienda. È evidente che in questo caso il lavoratore verrebbe lasciato solo di fronte ad una falsa scelta: quella tra la paventata delocalizzazione dell’impresa ed il peggioramento delle proprie condizioni di lavoro. E’ quanto già avvenuto alla Bosch di Vénissieux, alla General Motors di Strasburgo, alla Continental di Clairoix o alla Dunlop di Amiens. Ma, d’altronde, non è questo un ricatto che i lavoratori FIAT di Pomigliano d’Arco o i lavoratori italiani del gruppo Electrolux, conoscono fin troppo bene?
2) Possibilità di licenziare…: se grazie al governo di Nicolas Sarkozy (2008), all’Accordo Nazionale Interprofessionale siglato da Stato, padroni e sindacati concertativi (CFDT E CGC) e alla legge socialista di “sécurisation de l’emploi” del 2013 è già possibile ridurre i salari, aumentare tempi e ritmi di lavoro e licenziare in caso di “difficoltà economiche”, la nuova legge ridefinisce in maniera fantasiosa il concetto di “difficoltà economiche”. Esse consisterebbero in “un abbassamento del giro d’affari “ o nella “perdita di redditività”, dell’impresa lungo un intervallo di “diversi trimestri”. Non è specificato quanti trimestri, ma possiamo immaginare l’interpretazione che ne faranno i padroni: “diversi” si potrà tranquillamente tradurre con “più di uno”. Non sarà difficile provare un calo del giro di affari lungo un periodo di 6 mesi, né tantomeno sarà difficile organizzarlo! Infatti la legge specifica che, perché sia possibile licenziare, il calo debba verificarsi a “livello di impresa” e non più “a livello di gruppo”! E’ evidente come un gruppo composto da diverse filiali disseminate sul territorio di uno o più paesi potrebbe in questo modo spostare la produzione dove risulti più conveniente, senza doversi minimamente “sporcare le mani” con le “spiacevoli” conseguenze sociali delle proprie scelte. In aggiunta nel nuovo testo viene colpito l’obbligo di ricollocamento che riguarda i licenziamenti economici: mentre in precedenza, durante la procedura di licenziamento le imprese erano obbligate a proporre al lavoratore il ricollocamento in un’altra filiale del medesimo gruppo, questa responsabilità sociale verrebbe ora, semplicemente, eliminata.
Per ciò che riguarda i licenziamenti illegittimi, con la nuova legge l’impresa avrebbe la possibilità di calcolare in anticipo i costi di un licenziamento. In Francia, pur non esistendo l’articolo 18 come lo abbiamo conosciuto in Italia, in caso di licenziamento considerato illegittimo il lavoratore può ricorrere ai giudici del lavoro1, che definiscono la natura del licenziamento, lo convalidano o, più spesso, condannano l’impresa al reintegro o al pagamento di un’indennità. La nuova legge elimina il limite minimo di questa indennità (6 mensilità), e ne fissa un limite massimo (6 mensilità per i dipendenti con meno di cinque anni di anzianità; 15 mensilità per i dipendenti con più di 20 anni di anzianità). In questo modo, per liberarsi dei lavoratori scomodi o poco produttivi, le imprese avrebbero la possibilità di calcolare in anticipo i costi massimi del licenziamento.
Questa parte della legge è un attacco diretto al core della classe lavoratrice francese. Se è infatti vero che il 90% dei nuovi contratti stipulati sono “contratti precari”, ancora nel 2014 l’86% dei contratti esistenti, sul totale dei 23 milioni dei dipendenti francesi, erano contratti a tempo indeterminato (CDI). È evidente dunque l’obiettivo del governo Hollande-Valls: rendere più precari e ricattabili i cosiddetti “garantiti” – più protetti e sindacalizzati – fornendo al contempo un’infrastruttura giuridica più vicina alle imprese, in grado cioè di garantire il primato della contrattazione aziendale e di provocare in breve tempo lo scivolamento verso il basso delle condizioni di lavoro e dei salari francesi. Tutto ciò non assomiglia tanto alla filosofia sta dietro al Jobs Act di Renzi?
sacrifici per profitti3) …e attacco al salario di disoccupazione. Il debito dell'Unedic (organismo creato nel 1958 per gestire le indennità di disoccupazione) ha raggiunto nel 2015 la cifra record di 25 miliardi. Il governo francese vorrebbe quindi riformare (leggi ridurre) l’erogazione del sussidio di disoccupazione per ridurre il deficit. Le trattative tra governo, MEDEF2 e sindacati, iniziate a fine febbraio, sono tuttora in corso, e dovranno concludersi prima della fine di giugno 2016, data di scadenza dell’accordo attualmente in vigore. Nonostante governo e imprese stiano accusando i lavoratori di “aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità” e di non voler “fare i giusti sacrifici”, diversi studi dimostrano come il deficit annuale dell’Unedic non sia tanto legato al funzionamento della cassa del sussidio di disoccupazione ma a precise scelte politiche. Infatti i contributi versati annualmente dai lavoratori risultano eccedenti rispetto ai sussidi di disoccupazione erogati dall'Unedic. Nel 2014 il saldo tra le due voci era in attivo di circa 2,7 miliardi di euro. Dove cercare dunque le ragioni del debito? L'Unedic è assurdamente obbligata a finanziare ogni anno il 10% del budget del Pole Emploi (centri per l'impiego). Il deficit annuale è dunque in larga parte generato da questo finanziamento, ossia da una deresponsabilizzazione dello Stato e delle imprese nei confronti degli chomeurs (disoccupati).
V’è dunque il rischio che la responsabilità morale e materiale di questo debito sia fatta pesare sulle spalle dei disoccupati, e che d’altronde una riduzione delle tutele per chi perde il lavoro possa aumentare la ricattabilità di chi attualmente sta lavorando. Va infine tenuto in conto che nella Francia della crisi il ricorso ai contratti a tempo determinato (CDD) è letteralmente esploso. Più del 90% delle nuove assunzioni riguardano ormai contratti a tempo determinato o interinali, mentre diminuisce anno dopo anno la durata media dei contratti. È evidente che un taglio ai sussidi di disoccupazione andrebbe a colpire tanto i giovani precari, quanto i “nuovi” disoccupati vittime dei licenziamenti.
4) Estensione della giornata lavorativa. La Francia è considerata – a torto – il paese delle 35 ore, introdotte ex lege nel 1998 dall’allora governo Jospin. In realtà, le 35 ore calcolano la durata normale della settimana lavorativa, oltre la quale è obbligatorio pagare gli straordinari. Le imprese ne hanno guadagnato in flessibilità e in sgravi fiscali. Infatti le 35 ore rappresentano la media settimanale calcolata però su tutto l’anno solare. Ciò vuol dire che attualmente è possibile avere giornate di lavoro di 10 ore, e che fino a 12 settimane consecutive (!) è possibile usufruire di un lavoratore per una media di 46 ore senza pagare straordinario alcuno. In linea con questa impostazione, l’attuale governo vorrebbe andare oltre e cancellare definitivamente l’idea delle 35 ore. Nel progetto El-Khomri, infatti, si prevede che, in periodo di accresciuta attività produttiva, la giornata di lavoro, previo accordo sindacale, possa raggiungere le 12 ore; che il pagamento degli straordinari venga ridotto dal 25% al 10%; che si possa lavorare per 46 ore settimanali per 16 (e non più 12) settimane consecutive (e 48 ore in caso di sovrappiù produttivo), e che questa media possa raggiungere le 60 ore settimanali in caso di ispezione amministrativa positiva (!). Le nuove misure andranno a colpire il “diritto all’ozio” (anzi no, il diritto a rifiatare) di tanti lavoratori, anche perché la nuova legge prevede la possibilità di frazionare le 11 ore di riposo obbligatorie tra un turno di lavoro e l’altro. Queste norme si faranno sentire soprattutto in quei settori, come quello del commercio, dove alle imprese è già permesso di tutto: in determinate zone della Francia ricche di centri commerciali e nei pressi delle stazioni è possibile tenere i negozi aperti sette giorni su sette fino a mezzanotte; a queste domeniche “a ciclo continuo” si aggiungono le 12 domeniche di apertura straordinaria previste dalla loi Macron dello scorso anno, che possono essere concesse su delibera dei prefetti o delle municipalità in tutto il territorio francese.

Note1. In Francia i giudici del lavoro sono una componente elettiva: essi formano il conseil de prud’hommes, per metà composto da giudici non professionisti eletti dai lavoratori, e per metà composto da giudici non professionisti eletti dalle imprese. Qualora in primo grado non si ottenga nessuna maggioranza, il giudizio passa ad un componente della magistratura, che ha il compito di prendere la decisione definitiva.
2. MEDEF sta per Mouvement des entreprises de France. E’ il corrispettivo di Confindustria

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