venerdì 18 marzo 2016

pc 18 marzo - Gloria eterna alla Comune di Parigi - da 'L’"Indirizzo" di Carlo Marx sull’epica impresa dei "comunardi"

LA COMUNE DI PARIGI 1871
riportiamo il 3º e il 4º capitolo dell’indirizzo di Marx tracciato alla luce dell’esperienza della Comune di Parigi, che segna una tappa nell’elaborazione del pensiero politico marxista e della concezione dello Stato. L'Indirizzo è preceduto dalla celebre lettera di Marx a Weydemeyer del 5/3/1852 in cui l’autore specifica ciò che è proprio delle sue scoperte politiche.


Lettera di Marx a Weydemeyer
... Al tuo posto osserverei, a proposito dei signori democratici en général, che costoro farebbero meglio a prendere conoscenza della letteratura borghese, prima di pretendere di abbaiare contro chi ne è l’antagonista. Questi signori per esempio dovrebbero studiare le opere storiche di Thierry, Guizot, John Wade ecc., per informarsi sulla passata "storia delle classi". Dovrebbero prendere conoscenza degli elementi primi dell’economia politica, prima di mettersi a criticare la critica dell’economia politica. Per esempio basta aprire la grande opera di Ricardo per trovare in prima pagina le parole con cui egli apre la prefazione.
"Il prodotto della terra, tutto quanto viene ottenuto dalla sua superficie con l’applicazione unita di lavoro, macchine e capitale, si distribuisce tra tre classi della comunità; cioè il proprietario della terra, il proprietario del capitale necessario a coltivarla, e gli operai con il cui lavoro la terra viene coltivata".
Ora, quanto poco la società borghese sia maturata negli Stati Uniti per rendere evidente e comprensibile la lotta delle classi, di ciò fornisce la dimostrazione più brillante C. H. Garey (di Philadelphia), l’unico importante economista nordamericano. Egli attacca Ricardo, il rappresentante più classico della borghesia e l’avversario più stoico del proletariato, come un uomo la cui opera sarebbe l’arsenale per gli anarchici, i socialisti, insomma per tutti i nemici dell’ordinamento borghese. Egli rimprovera non solo a lui ma anche a Malthus, MilI, Say, Torrens, Wakefield, MacCulloch, Senior, Whaiely, R. Jones ecc., questi capifila dell’economia in Europa, di dilaniare la società e di preparare la guerra civile, quando dimostrano che i fondamenti economici delle varie classi debbono provocare tra loro un antagonismo necessario e sempre crescente. Egli cerca di confutarli, non certo come lo sciocco Heinzen collegando l’esistenza delle classi all’esistenza di privilegi e monopoli politici, bensì cercando di dimostrare che le condizioni economiche: rendita (proprietà fondiaria), profitto (capitale) e salario (lavoro salariato), invece di essere condizioni della lotta e dell’antagonismo, sono piuttosto condizioni di associazione ed armonia. Naturalmente egli non fa che dimostrare che le condizioni "non sviluppate" degli Stati Uniti sono per lui le "condizioni normali".
Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi. Mascalzoni ignoranti come Heinzen, i quali non solo negano la lotta, ma persino l’esistenza delle classi, dimostrano soltanto, nonostante i loro latrati sanguinari e le loro pose umanistiche, di ritenere le condizioni sociali nelle quali la borghesia domina come il prodotto ultimo, come il non plus ultra della storia, di non essere che servi della borghesia, una servitù che è tanto più ripugnante, quanto meno questi straccioni riescono a capire anche solo la grandezza e la necessità transitoria del regime borghese stesso. ...


Indirizzo del consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei lavoratori

  CAP. III

All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un fragore di tuono: " Vive le Commune! ". Che cos’è dunque la Comune, questa sfinge che tormenta così seriamente lo spirito dei borghesi?

" I proletari di Parigi - diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo - in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora per essi di salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione degli affari pubblici... Il proletariato... ha capito che era suo dovere imperioso e suo diritto assoluto prendere nelle sue mani il proprio destino, e di assicurarsene il trionfo impadronendosi del potere ".

Ma la classe operaia non può accontentarsi semplicemente di prendere nelle proprie mani la macchina statale bella e pronta, e di farla funzionare per i propri fini.
Il potere centralizzato dello Stato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura - organi prodotti secondo un piano di divisione sistematica e gerarchica, del lavoro - trae la sua origine dall’epoca della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società borghese come un’arma formidabile nelle sue lotte contro il feudalismo. Il suo sviluppo fu però intralciato da ogni sorta di residui medievali: prerogative di nobili e signori, privilegi locali, monopoli municipali e corporativi, Costituzioni provinciali. Il gigantesco colpo di scena della Rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò via tutti questi resti di tempi passati, sbarazzando così in un solo colpo il sostrato sociale degli ultimi ostacoli che si frapponevano alla sovrastruttura dell’edificio dello Stato moderno. Questo fu edificato sotto il primo Impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi régimes, il governo posto sotto il controllo parlamentare, cioè, sotto il diretto controllo delle classi possidenti, non diventò solamente l’incubatrice di enormi debiti nazionali e di imposte schiaccianti; con le sue irresistibili attrattive di posti, guadagni, protezioni, divenne da una parte il pomo della discordia tra le frazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; dall’altra anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. Via via che il progresso della industria moderna sviluppava, allargava, accentuava, l’antagonismo di classe tra capitale e lavoro, il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere di una forza pubblica organizzata ai fini dell’asservimento della classe operaia, di un apparato di dominazione di classe.
Dopo ogni rivoluzione, che segna un progresso nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risulta in modo sempre più evidente.
La rivoluzione del 1830, trasferì il potere dai grandi proprietari fondiari ai capitalisti, lo trasferì dai più lontani antagonisti degli operai ai loro avversari più diretti. I repubblicani borghesi che, in nome della rivoluzione di Febbraio, si erano impadroniti del potere statale, se ne servirono per provocare i massacri di Giugno, allo scopo di convincere la classe operaia che la Repubblica " sociale " stava a significare la Repubblica che assicurava la loro soggezione sociale, e per convincere la massa monarchica della classe borghese e dei grandi proprietari fondiari che poteva tranquillamente lasciare ai borghesi "repubblicani" le cure e le proficue prerogative finanziarie del governo. Tuttavia dopo la loro unica impresa eroica di giugno, ai repubblicani borghesi non rimaneva che retrocedere dalla prima fila alla retroguardia del " partito dell’ordine " combinazione formata da tutte le frazioni e fazioni rivali della classe dei profittatori nel loro ormai dichiarato antagonismo con le classi produttrici. La forma più adeguata del loro governo di società per azioni fu la " Repubblica parlamentare " con Louis Bonaparte come presidente. Esso fu un regime di aperto terrorismo di classe e di deliberata irrisione alla " vile multitude ". Se, come diceva Thiers, la Repubblica parlamentare era il regime che "meno divideva [le variopinte frazioni della classe dirigente] ", essa denunciava per contro un abisso tra questa classe e l’intero corpo della società che era escluso dalle sue ristrette file. La loro alleanza rimuoveva gli impedimenti che sotto i precedenti governi erano posti al potere statale dalle divisioni tra le frazioni della classe dirigente. In presenza della minaccia di sollevazione del proletariato, la classe dominante riunita utilizzò il potere dello Stato, senza riguardi e con ostentazione, come pubblico strumento di guerra del Capitale contro il Lavoro. Nella sua ininterrotta crociata contro le masse dei produttori, essa fu però costretta non solo ad attribuire all’esecutivo poteri sempre più vasti, ma in pari tempo a spogliare, l’uno dopo l’altro, la loro stessa fortezza parlamentare - l’Assemblea nazionale - di tutti i suoi mezzi di difesa contro l’esecutivo. L’esecutivo, nella persona di Louis Bonaparte, li mise tutti alla porta. Il frutto naturale della Repubblica del " partito dell’ordine " fu il secondo Impero.
L’Impero, con il colpo di Stato come certificato di nascita, il suffragio universale come autenticazione e la sciabola come scettro, pretendeva di poggiare sui contadini, la grande massa di produttori che non era impegnata direttamente nella lotta tra Capitale e lavoro. Pretendeva di salvare la classe operaia mettendo fine al parlamentarismo, e insieme con questo l’aperta sottomissione del governo alle classi possidenti. Pretendeva di salvare le classi possidenti mantenendo la loro supremazia sulla classe operaia. Finalmente pretendeva di realizzare l’unità di tutte le classi risuscitando per tutte la chimera della gloria nazionale. In realtà era l’unica forma di governo possibile in un periodo in cui la borghesia aveva già perduto - e la classe operaia non aveva ancora acquisito - la capacità di governare la nazione. Esso fu salutato in tutto il mondo come il salvatore della società. Sotto il suo dominio la società borghese, liberata da tutte le preoccupazioni politiche, raggiunse uno sviluppo che essa stessa non aveva mai sperato. La sua industria e il suo commercio raggiunsero proporzioni colossali; la truffa finanziaria celebrò orge cosmopolite; la miseria delle masse faceva stridente contrasto con la sfacciata ostentazione di lusso sfrenato, dissoluto e abietto. Il Potere dello Stato, in apparenza in tranquillo equilibrio al disopra della società, era però esso stesso lo scandalo più grande di questa società e in pari tempo il focolaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizione e la decomposizione della società che esso aveva salvaguardato vennero messe a nudo dalle baionette della Prussia, ben disposta a trasferire il centro di gravità di questo regime da Parigi a Berlino. L’imperialismo è la più prostituita e insieme la più recente forma di quel potere statale che la nascente società borghese aveva incominciato a perfezionare come strumento della propria emancipazione dal feudalismo, e che la società borghese aveva infine pienamente trasformato in strumento per l'asservimento del lavoro al Capitale.
La Comune fu la diretta antitesi all’Impero. Il grido di " Republique sociale ", col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di Febbraio non esprimeva che una vaga aspirazione ad una Repubblica che non avrebbe dovuto eliminare solamente la forma monarchica del dispotismo di classe, ma lo stesso potere di classe. La Comune fu la forma positiva di questa Repubblica.
Parigi, sede centrale del vecchio potere governativo, e, nello stesso tempo, fortezza sociale della classe operaia francese, era balzata in armi contro il tentativo di Thiers e dei suoi rurali di restaurare e perpetuare il vecchio potere governativo ereditato dall’Impero. Parigi poteva solamente resistere perché, in conseguenza dell’assedio, si era sbarazzata dell’esercito e lo aveva sostituito con una guardia nazionale, la cui massa era costituita da operai. È questo stato di fatto che doveva, ora, essere trasformato in un’istituzione permanente. Il primo decreto della Comune, quindi, fu la soppressione dell’esercito permanente, e la sua sostituzione con il popolo in armi.
La Comune fu composta da consiglieri municipali, eletti a suffragio universale nei diversi circondari di Parigi. Essi erano responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma un organo di lavoro esecutivo e legislativo nello stesso tempo.
Invece di continuare ad essere lo strumento del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento della Comune, responsabile dinanzi ad essa e revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le branche della amministrazione. Dai membri della Comune fino ai gradi subalterni, le pubbliche funzioni venivano retribuite con salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti funzionari dello Stato scomparvero con i funzionari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà private delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le altre iniziative fino allora esercitate dallo Stato passarono nelle mani della Comune.
Una volta abolito l’esercito permanente e la polizia, strumenti di potere del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti; decretò la separazione della Chiesa e dello Stato disciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto ordini possidenti. I sacerdoti furono restituiti al tranquillo riposo della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. La totalità degli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le erano state imposte dai pregiudizi di classe e dal potere governativo.
I funzionari della giustizia vennero spogliati di quella finzione di indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro vile sottomissione a tutti i vari governi che si erano alternati al potere ai quali, di volta in volta, avevano prestato giuramento di fedeltà per violare in seguito tale giuramento. Come gli altri funzionari pubblici, i magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili.
La Comune di Parigi doveva, beninteso, servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il potere della Comune, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto, anche nelle province, cedere il posto all’autogoverno da parte dei produttori. In un abbozzo sommario dell’organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è detto espressamente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio e che nelle regioni rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia popolare, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi; i delegati dovevano essere revocabili in ogni momento e legati da un mandat imperatif dei propri elettori. Le funzioni, poco numerose, ma importanti, che ancora rimanevano ad un governo centrale, non dovevano essere soppresse, come venne detto falsamente in mala fede, ma dovevano venire assolte da funzionari comunali e quindi strettamente responsabili. L’unità della nazione non doveva essere spezzata, ma doveva al contrario essere riorganizzata dalla Costituzione comunale; doveva diventare una realtà attraverso la distruzione del potere dello Stato che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità, ma voleva essere indipendente dalla nazione stessa, e persino superiore ad essa, mentre non costituiva che un’escrescenza parassitaria. Mentre era importante amputare gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione dominante al di sopra della società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società. Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente dovesse " rappresentare " e calpestare il popolo al Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in Comuni, così come il suffragio individuale serve ad ogni altro imprenditore in cerca di operai e personale direttivo per i suoi affari. Ed è ben noto che le società, come i singoli imprenditori, quando si tratta di veri affari, sanno generalmente mettere a ogni posto l’uomo adatto, o se una volta tanto commettono un errore, sanno rapidamente come rimediare. D’altra parte nulla poteva essere più estraneo allo spirito della Comune, che mettere al posto del suffragio universale una investitura gerarchica.
È in generale destino di tutte le formazioni storiche interamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale, con le quali possono avere una certa rassomiglianza. Così, di questa nuova Comune, che manda in frantumi il potere dello Stato moderno, si è voluto vedere il richiamo alla vita dei comuni medievali, che prima precedettero questo potere di Stato e poi ne divennero il fondamento stesso.
La Costituzione della Comune è stata presa a torto come un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli Stati, come era stata segnata da Montesquieu e dai suoi girondini, quella unità delle grandi nazioni, che, se originariamente è stata realizzata con la violenza, è ora diventata un potente fattore della produzione sociale. L’antagonismo fra la Comune e il potere dello Stato è stato preso a torto come una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. Particolari circostanze storiche possono avere impedito in altri paesi lo sviluppo classico della forma borghese di governo che si è avuto in Francia, e possono avere permesso, come in Inghilterra, di completare i propri organi centrali dello Stato con corrotte vestries (Assemblee parrocchiali), con consiglieri comunali affaristi, feroci custodi dell’Ufficio di beneficenza nelle città, e con magistrati virtualmente ereditari nelle Contee. La Costituzione della Comune avrebbe restituito al corpo sociale tutte le forze fino allora assorbite dallo Stato parassita che si nutre a spese della società e ne paralizza il libero movimento. Con questo solo fatto avrebbe costituito la base di partenza per la rigenerazione della Francia. La classe media delle città di provincia vide nella Comune un tentativo di restaurare il controllo che il suo ceto aveva esercitato sulle campagne al tempo di Louis-Philippe, e che, sotto Louis-Napoléon, era stato soppiantato dal preteso sopravvento delle campagne sulle città. In realtà la Costituzione della Comune avrebbe messo i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei dipartimenti e avrebbe dato a loro la sicurezza di trovare negli operai delle città i naturali garanti dei loro interessi.
L’esistenza stessa della Comune implicava, come naturale conseguenza, la libertà municipale locale, ma non più intesa d’ora in avanti come un ostacolo al potere dello Stato, che era stato tolto di mezzo. Soltanto nella testa di un Bismarck - il quale quando non era preso dai suoi intrighi di ferro e di sangue, tornava volentieri al suo vecchio mestiere, così adatto al suo calibro mentale, di collaboratore del "Kladderadatsch" - soltanto in una testa siffatta poteva entrare l’idea di attribuire alla Comune di Parigi l’ispirazione di rifarsi a quella caricatura della vecchia organizzazione municipale francese del 1791 che è il regime municipale prussiano, il quale riduce l’amministrazione delle città alla funzione di semplici rotelle del tutto secondarie della macchina poliziesca dello Stato prussiano. La Comune fece una realtà di questa parola d’ordine di tutte le rivoluzioni borghesi, il governo a buon mercato, distruggendo le due maggiori fonti di spese: l’esercito permanente, la burocrazia e il funzionarismo. La sua esistenza stessa presupponeva la non esistenza della monarchia che, perlomeno in Europa, è l’abituale zavorra e la maschera indispensabile del dominio di classe. Essa forniva alla Repubblica la base per avere istituzioni democratiche. Ma né il "governo a buon mercato", né la "vera Repubblica" erano la sua meta finale; essi non facevano che da suo corollario.
La molteplicità delle interpretazioni alle quali la Comune è stata sottoposta, e la molteplicità di interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa costituì una forma politica pienamente preparata ad espandersi, mentre tutte le precedenti forme di governo non avevano messo l’accento che sulla repressione. Il suo vero segreto fu questo; che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli appropriatori, la forma politica finalmente scoperta che consentiva di realizzare l’emancipazione economica del lavoro.
Senza quest’ultima condizione, la Costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva pertanto servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe. Compiuta l’emancipazione del lavoro, ogni uomo diviene un lavoratore e il lavoro produttivo cessa di essere l’attributo di una classe.
Avviene un fatto strano. Nonostante tutti i discorsi magniloquenti, e l’immensa letteratura degli ultimi 60 anni sulla emancipazione dei lavoratori, non appena gli operai, in qualsiasi paese, prendono decisamente la cosa nelle loro mani, immediatamente si sente risuonare tutta la fraseologia apologetica dei reggicoda della società presente con i suoi due poli, capitale e schiavitù salariata (il proprietario fondiario non è che il socio passivo del capitalista), come se la società capitalista si trovasse nel suo stato più puro di verginale innocenza, come se tutte le sue contraddizioni non fossero ancora sviluppate, le sue menzogne non ancora smascherate, le sue infami realtà non ancora messe a nudo. La Comune - essi esclamano - vuole abolire la proprietà, base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa aveva come scopo l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà privata individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, oggi essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato. Ma questo è comunismo, è l’"impossibile" comunismo! Ebbene, quelli tra i membri delle classi dominanti, che sono abbastanza intelligenti da comprendere l’impossibilità di perpetuare il sistema presente - e sono molti - sono diventati gli apostoli fastidiosi e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno; se essa deve subentrare al sistema capitalista; se l’insieme delle cooperative riunite deve regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine alla costante anarchia e alle periodiche convulsioni che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista - che cosa sarebbe questo, o signori, se non comunismo, un molto " possibile " comunismo?
La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple. Sa che per realizzare la propria emancipazione, e con essa quella forma di vita più elevata alla quale tende irresistibilmente la società odierna per la sua stessa struttura economica, essa dovrà passare attraverso lunghe lotte, per tutta una serie di processi storici che trasformeranno completamente le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma soltanto liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società in via di disfacimento. Pienamente cosciente della sua missione storica e con l’eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere alle grossolane invettive dei signori della penna e dell’inchiostro, servi senza aggettivi, e della pedantesca protezione dei dottrinari borghesi di buoni propositi che diffondono la loro insipida ignoranza e le loro ostinate idee fisse col tono oracolare dell’infallibilità scientifica.
Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione, quando semplici operai, per la prima volta, osarono infrangere il privilegio governativo dei loro "superiori naturali", i possidenti, e in circostanze di estrema difficoltà, compirono la loro opera umilmente, con coscienza ed efficacia (e la portarono avanti con salari il più alto dei quali raggiungeva appena il quinto di ciò che, a voler credere un’alta autorità scientifica di Londra, il professor Huxley, è il minimo richiesto per un segretario di un certo consiglio scolastico della sua città), il vecchio mondo si contorse in paurose convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa, simbolo della Repubblica del lavoro, sventolante sull’Hótel de Ville a Parigi.
Eppure, questa fu la prima rivoluzione nella quale la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe ancora capace di iniziativa sociale, persino dalla grande maggioranza della classe media parigina - bottegai, commercianti, artigiani - eccettuati soltanto i ricchi capitalisti. La Comune li aveva salvati regolando saggiamente il problema che è alla base degli eterni contrasti all’interno stesso della classe media: la questione dei resoconti di dare e avere.
Questa stessa parte della classe media aveva partecipato alla repressione dell’insurrezione operaia del giugno 1848, ed era stata subito sacrificata ai suoi creditori dell’Assemblea costituente senza tante cerimonie. Ma questo non era il solo motivo per cui ora queste classi medie si schieravano attorno alla classe operaia. Esse avvertivano che vi era una sola alternativa: o la Comune o l’Impero, sotto qualsiasi nome questo potesse ripresentarsi. L’Impero le aveva rovinate economicamente con lo sciupio delle finanze pubbliche, con le truffe finanziarie su larga scala che aveva sempre favorito, con l’impulso dato all’accelerazione artificiale della concentrazione del capitale, e con la correlativa espropriazione di una gran parte del loro ceto. Le aveva soppresse politicamente, le aveva scandalizzate moralmente con le sue orge, aveva deriso il loro volterrianismo affidando l’educazione dei loro figli ai frères ignorantins; aveva rivoltato il loro sentimento nazionale di francesi, precipitandoli a capofitto in una guerra che non lasciava che un solo compenso per le rovine che aveva lasciato: la scomparsa dell’Impero. Di fatto, dopo l’esodo da Parigi di tutta l’alta bohème bonapartista e capitalista, il vero partito dell’ordine della classe media si era presentato sotto le sembianze dell’Union républicaine, che si schierò sotto le bandiere della Comune e la difese dalle premeditate falsificazioni di Thiers. Se la riconoscenza di questa grande massa della classe media resisterà alla dura prova odierna, solo il tempo lo mostrerà.
La Comune aveva perfettamente ragione di dire ai contadini: "La nostra vittoria è la vostra sola speranza!". Di tutte le menzogne escogitate a Versailles e riprese come un’eco dai gloriosi pennaioli d’Europa a un soldo la riga, una delle più mostruose fu che i rurali dell’Assemblea nazionale rappresentassero i contadini francesi. È sufficiente pensare all’amore del contadino francese per gli uomini a cui, dopo il 1815, aveva dovuto pagare un miliardo di indennità. Agli occhi del contadino francese, l’esistenza stessa di un grande proprietario fondiario è di per sé stessa una violazione delle sue conquiste del 1789. I borghesi, nel 1848, avevano imposto al suo piccolo pezzo di terra la tassa addizionale di 45 centesimi per franco; ma allora l’avevano fatto in nome della rivoluzione; mentre ora avevano fomentato una guerra civile contro la rivoluzione, per far ricadere sulle spalle del contadino il peso maggiore dei 5 miliardi di indennità da pagarsi ai prussiani.
La Comune, d’altra parte, in uno dei suoi primi proclami dichiarava che le spese della guerra dovevano essere pagate da quelli che ne erano stati i veri artefici. La Comune avrebbe liberato il contadino dall’imposta del sangue; gli avrebbe dato un governo a buon mercato; avrebbe trasformato le sue attuali sanguisughe, il notaio, l’avvocato, l’usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati, da lui eletti e davanti a lui responsabili. Essa lo avrebbe liberato dalla tirannia della guardia campestre, del gendarme e del prefetto; avrebbe sostituito l’istruzione del maestro di scuola al posto dell’istupidimento ad opera dei preti. E il contadino francese è, al di sopra di tutto, uomo di calcolo. Egli avrebbe trovato assolutamente ragionevole che la retribuzione dei sacerdoti, invece di essere estorta dagli agenti delle imposte, dipendesse solo dall’azione spontanea degli istinti religiosi dei parrocchiani. Questi erano i grandi benefici immediati che il governo della Comune - ed esso soltanto - offriva in prospettiva ai contadini francesi. È quindi del tutto superfluo dilungarsi qui sugli altri problemi concreti più complessi, ma di vitale importanza, che solo la Comune era in grado di risolvere e nello stesso tempo, era costretta a risolvere in favore del contadino, come per esempio quello del debito ipotecario, che pesava come un incubo sul suo piccolo appezzamento di terra; quello del proletariato rurale che cresceva di giorno in giorno per tale ragione, e della sua espropriazione che avviene ad un ritmo sempre più rapido in conseguenza dello stesso sviluppo dell’agricoltura moderna e della concorrenza dell’azienda agricola capitalista.
Il contadino francese aveva eletto Louis Bonaparte presidente della Repubblica, ma il partito dell’ordine creò il secondo Impero. Ciò di cui ha bisogno veramente il contadino francese, incominciò a mostrarlo nel 1849 e nel 1850, contrapponendo il suo sindaco al prefetto del governo, il suo maestro di scuola al prete del governo e la propria persona al gendarme del governo. Tutte le leggi fatte dal partito dell’ordine nel gennaio e nel febbraio 1850 furono misure di repressione aperta contro i contadini. Il contadino era bonapartista, perché la grande Rivoluzione, con tutti i benefici che egli ne aveva tratto, si personificava ai suoi occhi in Napoleone. Questa illusione, che si dissipò rapidamente sotto il secondo Impero (ed essa era per sua stessa natura ostile ai "rurali"), questo pregiudizio del passato, come avrebbe potuto resistere all’appello della Comune agli interessi vitali e ai bisogni urgenti dei contadini?
I rurali - ed era questa, di fatto, la loro principale apprensione - sapevano che tre mesi di libera comunicazione tra la Parigi della Comune e le province avrebbero portato ad una insurrezione generale dei contadini. Di qui la loro ansiosa preoccupazione di stabilire attorno a Parigi un cordone poliziesco come se si fosse trattato di impedire la diffusione della peste bovina.
Se la Comune era dunque la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e quindi il vero governo nazionale, era nello stesso tempo un governo operaio e sotto questo profilo, nella sua qualità di audace sostenitore dell’emancipazione del lavoro, un governo internazionale nel pieno senso della parola. Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso alla Germania due province francesi, la Comune annesse alla Francia gli operai di tutto il mondo.
Il secondo Impero era stato una grande sagra per la furfanteria internazionale, poiché le canaglie di tutti i paesi erano accorse al suo appello per prendere parte alle sue orge e al saccheggio sistematico del popolo francese. In questo stesso momento il braccio destro di Thiers è Ganesco, crapulone valacco; il suo braccio sinistro è Markovski, spione russo. La Comune ha ammesso tutti gli stranieri a morire per una causa immortale. Tra la guerra esterna perduta per il suo tradimento, e la guerra civile provocata dal suo complotto con gli invasori stranieri, la borghesia aveva trovato il tempo di manifestare il suo patriottismo organizzando battute di caccia ai tedeschi residenti in Francia: la Comune ha eletto suo ministro del Lavoro un operaio tedesco. Thiers, la borghesia, il secondo Impero, avevano continuamente ingannato la Polonia con rumorose professioni di simpatia, mentre in realtà la tradivano consegnandola alla Russia, di cui facevano il sordido interesse. La Comune ha fatto l’onore di mettere gli eroici figli della Polonia a capo dei difensori di Parigi. E per dare chiaramente risalto alla nuova era della storia che essa era consapevole di iniziare, la Comune, sotto gli occhi dei prussiani vincitori da una parte, e dell’esercito di Bonaparte, guidato da generali bonapartisti, dall’altra, abbatté quel colossale simbolo della gloria militare, la colonna Vendôme.
La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le sue misure particolari da essa varate potevano soltanto presagire la tendenza su cui si muoveva un governo del popolo per il popolo. Tali furono l’abolizione del lavoro notturno degli operai panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai delle multe sotto i pretesti più svariati, procedimento nel quale l’imprenditore riunisce nella sua persona le funzioni di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più si intasca il denaro. Un’altra misura di questo tipo fu la consegna alle associazioni operaie, sotto riserva d’indennizzo, di tutte le fabbriche e laboratori che erano stati chiusi; sia che i capitalisti in questione si fossero nascosti o che avessero preferito sospendere il lavoro.
Le misure finanziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione, non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di Parigi dalle grosse compagnie finanziarie e dagli imprenditori di lavori pubblici sotto la protezione di Haussmann, la Comune avrebbe avuto diritti per confiscare le loro proprietà, ben più validi di quelli che aveva Louis-Napoléon per confiscare quelle della famiglia d’Orleans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi che hanno tratto, sia gli uni che gli altri, una buona parte dei loro beni dal saccheggio delle chiese, furono, naturalmente, enormemente scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più di 8.000 franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici.
Mentre il governo di Versailles, appena ebbe ripreso un po’ di coraggio e di forza, ricorreva all’impiego dei mezzi più violenti contro la Comune; mentre sopprimeva la libera espressione d’opinione in tutta la Francia, giungendo fino a proibire le riunioni di delegati delle grandi città; mentre tale governo assoggettava Versailles e il resto della Francia ad uno spionaggio che superava di gran lunga quello del secondo Impero; mentre faceva bruciare dai suoi sbirri, trasformati in inquisitori, tutti i giornali stampati a Parigi e censurava tutte le lettere da e per Parigi; mentre all’Assemblea nazionale i più timidi tentativi di dire una parola in favore di Parigi erano sommersi da urla sconosciute persino alla Chambre introuvable del 1816; data la nefanda condotta della guerra che i Versagliesi portavano avanti fuori delle mura di Parigi e i loro tentativi di corruzione e di cospirazione all’interno della città, non avrebbe la Comune tradito vergognosamente la fiducia in essa riposta affettando di osservare tutte le convenzioni e le apparenze del liberalismo, come in tempi di perfetta pace? Se il governo della Comune fosse stato dello stesso stampo di quello di Thiers, non vi sarebbero stati meno pretesti di sopprimere i giornali del partito dell’ordine a Parigi, che di sopprimere quelli della Comune a Versailles.
Certo però era irritante, per i rurali, che nel momento stesso in cui essi dichiaravano il ritorno alla Chiesa come solo mezzo di salvezza per la Francia, la miscredente Comune dissotterrasse i singolari misteri del convento di Piepus e quelli della chiesa di Saint-Laurent. Ed era una bella presa in giro che mentre Thiers copriva di gran croci al merito i generali bonapartisti, come riconoscimento della loro maestria nel perdere battaglie, a firmare capitolazioni e a fumare delle sigarette a Wilhelmshöhe, la Comune destituisse e arrestasse i suoi generali, al minimo sospetto di negligenza nell’adempimento dei loro doveri. L’espulsione dalla Comune e l’arresto dietro suo ordine di uno dei suoi membri che si era intrufolato sotto falso nome e che aveva scontato a Lyon sei giorni di carcere per bancarotta semplice, non costituiva forse un insulto deliberato scagliato contro il falsario Jules Favre, che continuava ad essere ministro degli Esteri della Francia, sempre disposto a vendere la Francia a Bismarck e a dettare ordini all’incomparabile governo belga? Ciononostante la Comune non pretendeva all’infallibilità, cosa che si attribuiscono senza eccezioni tutti i governi del vecchio stampo. Essa rendeva pubblici tutti i suoi atti, le sue parole, metteva il pubblico al corrente di tutte le sue operazioni.
In ogni rivoluzione, si insinuano, accanto ai suoi rappresentanti autentici, individui di tutt’altro conio; alcuni sono superstiti di passate rivoluzioni e ne conservano il culto; non comprendono il movimento presente ma conservano ancora una grande influenza sul popolo, per la loro onestà e il loro riconosciuto coraggio, o per la semplice forza della tradizione. Altri non sono che semplici schiamazzatori, i quali, a forza di ripetere per anni la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono fatti passare per rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo, si videro riemergere alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono d’ostacolo all’azione della classe operaia, esattamente come uomini di tale stampo avevano frenato il libero sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile; col tempo ci si sbarazza di loro, ma alla Comune non ne venne lasciato il tempo.
Meravigliosa, in verità fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della depravata Parigi del secondo Impero. Parigi non fu più il ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dei latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex-negrieri e affaristi americani, degli ex-proprietari di servi russi e boiardi valacchi. Non più cadaveri alla "morgue", non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero per la prima volta dopo le giornate del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure, e questo senza nessuna vigilanza di polizia.
"Non sentiamo più parlare - diceva un membro della Comune - di assassinii, furti, aggressioni. Si direbbe veramente che la polizia ha trascinato con sé a Versailles tutta la sua clientela conservatrice".
Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori - gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e, al di sopra di tutto, della proprietà. Al loro posto ricomparvero le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e risolute come le donne dell’antichità. Una Parigi che lavorava, pensava, combatteva, dava il proprio sangue, quasi dimentica, nella gestazione di una società nuova, raggiante nell’entusiasmo della sua iniziativa storica, che i cannibali era alle sue porte!
Di fronte a questo nuovo mondo di Parigi, il vecchio mondo di Versailles - questa Assemblea di vampiri di tutti i defunti regimi, legittimisti e orleanisti, avidi di nutrirsi del cadavere della nazione - con un codazzo di repubblicani antidiluviani, che sanzionavano con la loro presenza nell’Assemblea la rivolta di questi negrieri, si affidavano per il mantenimento della loro Repubblica parlamentare alla vanità del senile ciarlatano messo alla testa del governo, e facevano la caricatura del 1789 tenendo le loro riunioni, come fantasmi del passato, nella sala del Jeu de Paume. Eccola, questa Assemblea, la rappresentante di tutto ciò che in Francia era morto, che solo il puntello delle spade di Louis Bonaparte poteva ancora infonderle una sembianza di vita! Parigi tutta verità, Versailles tutta menzogna; e questa menzogna esala dalla bocca di Thiers!
Thiers dice ad una delegazione di sindaci dei dipartimenti della Seine-et-Oise: "Potete contare sulla mia parola, alla quale non ho mai mancato".
Dice all’Assemblea stessa che "è l’Assemblea più liberamente eletta e più liberale che sia mai esistita"; dice alla sua variopinta soldatesca che è "l’ammirazione del mondo e il più bell’esercito che mai avesse avuto la Francia"; dice alle province che il bombardamento di Parigi da lui ordinato non è che una invenzione:
"Se sono stati tirati alcuni colpi di cannone, ciò non è avvenuto ad opera dell’esercito di Versailles, ma di alcuni insorti, i quali volevano far credere che combattevano, mentre non osano neanche farsi vedere". E dice ancora alle province che: "L’artiglieria di Versailles non bombarda Parigi, la sta soltanto cannoneggiando".
Dice all’arcivescovo di Parigi che pretese esecuzioni e rappresaglie (!) attribuite alle truppe di Versailles non sono che fantasie. Dice a Parigi che egli è soltanto ansioso "di liberarla dai ripugnanti despoti che la opprimono" e che di fatto la Parigi della Comune non è costituita che "da un pugno di criminali".
La Parigi del signor Thiers non era la Parigi reale della "vile multitude", ma una Parigi immaginaria, la Parigi dei francs-fileurs, la Parigi dei boulevardiers e delle boulevardières, la Parigi ricca, capitalista, coperta di soldi, infingarda, che ora ingombrava, con i suoi lacchè, i suoi ladri in guanti gialli, con la sua bohème di letterati e con le sue cocottes, Versailles, Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain; che considerava la guerra civile come una gradevole diversione, seguendo la battaglia in corso attraverso i binocoli, contando i colpi di cannone e giurando sul proprio onore e su quello delle prostitute colle quali si accompagnava che lo spettacolo era allestito assai meglio di quanto si usasse in genere al teatro della Porta di Saint-Martin. Gli uomini che cadevano erano veramente morti; le grida dei feriti erano grida sul serio; e tutto l’insieme - guardate - era così intensamente storico!
Questa è la Parigi del signor Thiers; come la emigrazione di Koblenz era la Francia del signor De Colonne.

CAP. IV

Il primo atto del complotto dei negrieri per abbattere Parigi fu di farla occupare dai prussiani; ma esso fallì per il rifiuto di Bismarck. Il secondo tentativo, quello del 18 marzo, si concluse con la sconfitta dell’esercito e la fuga a Versailles del governo, il quale obbligò tutto l’apparato amministrativo a seguirlo. Simulando poi di intavolare trattative con Parigi, Thiers trovò il tempo di prepararsi alla guerra contro di essa. Ma dove trovare un esercito? I resti dei reggimenti di fanteria erano scarsi quanto ad effettivi e poco sicuri. I suoi pressanti appelli alla provincia invitandola a soccorrere Versailles con le loro guardie nazionali e i loro volontari furono accolti da un rifiuto puro e semplice. Solo la Bretagna mandò un pugno di Chouans, che combattevano con una bandiera bianca, ognuno con un cuore di Gesù di stoffa bianca sul petto, e il cui grido di guerra era: "Vive le roi!". Thiers fu pertanto costretto a mettere assieme, in gran fretta, un’accozzaglia variopinta, formata di marinai, fucilieri di marina, zuavi pontifici, gendarmi di Valentin, guardie di città e spioni di Piétri. Questo esercito, tuttavia, sarebbe rimasto impotente fino al ridicolo senza l’aggiunta dei prigionieri di guerra dell’esercito dell’impero che Bismarck lasciava liberi via via, giusto in numero sufficiente per alimentare la guerra civile e tenere in piedi il governo di Versailles servilmente prostituitosi ai prussiani.
Durante la guerra stessa, la polizia di Valentin fu costretta a sorvegliare l’esercito di Versailles, mentre i gendarmi avevano il compito di trascinarlo al combattimento, mettendo a repentaglio la loro vita, in tutti i punti più pericolosi. I forti che caddero non vennero conquistati, ma comprati. L’eroismo dei federati convinse Thiers che la resistenza di Parigi non poteva essere spezzata dal suo genio strategico e dalle baionette di cui disponeva.
Frattanto, le sue relazioni con le province diventavano sempre più difficili. Non un solo indirizzo di approvazione venne a rallegrare Thiers e i suoi rurali. Al contrario! Arrivarono da ogni parte deputazioni e indirizzi in cui si chiedeva, in tono tutt’altro che rispettoso, la riconciliazione con Parigi sulla base del riconoscimento esplicito della Repubblica, la conferma delle libertà comunali e lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, il cui mandato era scaduto. Arrivarono in tale quantità che Dufaure, ministro della Giustizia di Thiers, nella sua circolare del 23 aprile ordinava ai procuratori dello Stato di considerare delitto "la parola d’ordine della riconciliazione"! Tuttavia, cominciando a disperare del successo di questa sua campagna, Thiers decise di cambiare tattica; ordinò che le elezioni comunali avessero luogo in tutto il paese, il 30 aprile, sulla base della nuova legge municipale che lui stesso aveva dettata all’Assemblea nazionale. Sia con gli intrighi dei suoi prefetti che attraverso le intimidazioni poliziesche, Thiers si sentiva sicuro che il verdetto delle province avrebbe dato alla Assemblea nazionale quel potere morale che essa non aveva mai avuto e di ottenere infine da essa la forza materiale necessaria per la conquista di Parigi.
La sua guerra di brigantaggio contro Parigi, che egli esaltava nel suoi bollettini, e i tentativi dei suoi ministri di instaurare in tutta la Francia un clima di terrore, Thiers, fin dall’inizio, si era preoccupato di farla seguire da una meschina commedia di riconciliazione che doveva servire a più di uno scopo. Doveva trarre in inganno le province, attirare gli elementi delle classi medie di Parigi, e, soprattutto, procurare ai sedicenti repubblicani dichiaratisi per l’Assemblea nazionale, la occasione di mascherare il loro tradimento verso Parigi dietro la loro fiducia in Thiers. Il 21 marzo, quando non aveva ancora nessun esercito, egli aveva dichiarato all’Assemblea nazionale: "Qualunque cosa avvenga, non vogliamo attaccare Parigi". Il 27 marzo, salì nuovamente alla tribuna: "Ho trovato la Repubblica come fatto compiuto, e sono fermamente risoluto a mantenerla".
In realtà egli schiacciò la rivoluzione a Lyon e Marseille in nome della Repubblica mentre i muggiti spaventevoli dei suoi rurali coprivano a Versailles anche ogni semplice menzione di essa. Dopo questa impresa egli attenuò il "fatto compiuto" riducendolo ad un puro "fatto ipotetico". I principi d’Orleans, che egli prudentemente aveva avvisati di lasciare la città di Bordeaux, avevano ora, in flagrante violazione della legge, ogni possibilità di imbastire i loro intrighi a Dreux. Le concessioni offerte da Thiers nelle sue interminabili conferenze coi delegati di Parigi e delle province, benché continuamente variate di tono e di colore a seconda del tempo e delle circostanze, si riducevano sempre, in fin dei conti, a questo: la sua vendetta sarebbe stata limitata probabilmente a quel "pugno di criminali implicati nell’assassinio di Lecomte e Clément Thomas", a condizione, ben inteso, che Parigi e la Francia riconoscessero senza riserve nella persona del signor Thiers la migliore delle Repubbliche possibili; esattamente come aveva fatto nel 1830 con Louis-Philippe.
Inoltre non si faceva scrupolo di rendere dubbie queste stesse concessioni, mediante i commenti ufficiali fatti al loro riguardo all’Assemblea nazionale dai suoi stessi ministri. Per agire egli aveva il suo Dufaure. Dufaure, questo vecchio avvocato orleanista, è sempre stato il giudice supremo dello stato d’assedio, così ora nel 1871, sotto Thiers, come nel 1839 sotto Louis-Philippe, e nel 1849 sotto la presidenza di Louis Bonaparte. Quando non aveva incarichi, si era arricchito come avvocato dei capitalisti di Parigi e si era costruito un capitale politico intervenendo nelle aule giudiziarie contro le leggi che egli stesso aveva varato. Al presente, costui non contento di far votare in tutta fretta dall’Assemblea nazionale una serie di leggi repressive che avrebbero dovuto, dopo la caduta di Parigi, estirpare gli ultimi residui di libertà repubblicana in Francia, lasciò intravvedere quella che sarebbe stata la sorte di Parigi, facendo abbreviare la procedura delle corti marziali, a suo dire troppo lenta, e introducendo una nuova draconiana legge per le deportazioni. La rivoluzione del 1848, abolendo la pena di morte per i delitti politici, l’aveva sostituita con la deportazione. Louis Bonaparte non aveva osato, per lo meno in teoria, restaurare il regime della ghigliottina. L’Assemblea dei rurali, che non aveva ancora l’ardire di insinuare che i parigini non fossero dei ribelli ma degli assassini, dovette per ora limitare le sue prospettive di vendetta alla legge di deportazione di Dufaure. In tutte queste circostanze, Thiers stesso non avrebbe potuto continuare la sua commedia di riconciliazione, se questa commedia - come del resto voleva - non avesse provocato ululati di rabbia dei rurali, i cui cervelli di ruminanti non afferravano né il suo gioco, né la necessità dell’ipocrisia, delle tergiversazioni e dilazioni.
In vista delle imminenti elezioni municipali del 30 aprile, Thiers interpretò il 27 aprile una delle sue grandi scene di riconciliazione. In mezzo ad un diluvio di retorica sentimentale egli esclamò dalla tribuna dell’Assemblea:
"Contro la Repubblica c’è una sola cospirazione ed è quella di Parigi, che ci costringe a versare sangue francese. L’ho detto ormai a sazietà: che le empie armi cadano dalle mani che le impugnano, e il castigo verrà immediatamente sospeso; noi saremo clementi, eccetto che nei riguardi dei criminali che, fortunatamente, sono solo un piccolo numero".
Di fronte alle violente interruzioni dei rurali:
"Signori, ditemelo, ve ne supplico, ho torto? Vi addolora veramente il fatto che io abbia detto che i criminali non sono che un piccolo numero? Non è una fortuna, in mezzo alle nostre disgrazie, che coloro che sono stati capaci di versare il sangue di Clément Thomas e del generale Lecomte non siano che rare eccezioni?".
La Francia però fece orecchie da mercante a quello che Thiers si immaginava fosse il canto di una sirena parlamentare. Su 700.000 consiglieri comunali eletti in 35.000 comuni che ancora rimanevano alla Francia, i legittimisti, orleanisti, bonapartisti riuniti non ne contavano che 8.000. Le elezioni supplementari che seguirono furono ancora più decisamente ostili. Così, invece di ottenere dalle province la forza materiale di cui aveva assoluto bisogno l’Assemblea nazionale perdette anche l’ultima pretesa alla forza morale, quella di essere l’espressione del suffragio universale del paese. Per completare la sconfitta, i consigli municipali appena eletti in tutte le città della Francia minacciarono apertamente l’Assemblea usurpatrice di Versailles di convocare una contro-assemblea a Bordeaux.
Il momento lungamente atteso da Bismarck per l’azione decisiva era infine arrivato. Ingiunse a Thiers di mandare plenipotenziari a Frankfurt per la definitiva conclusione della pace. Con umile obbedienza al richiamo del suo padrone, Thiers si affrettò a mandare il suo fedele Jules Favre, accompagnato da Pouyer-Quertier. Pouyer-Quertier, "eminente" cotoniere di Rouen, fervente e persino servile partigiano del secondo Impero, in cui non aveva mai trovato altro difetto che il trattato commerciale con l’Inghilterra, in quanto recava pregiudizio ai propri interessi di bottega. Non appena installato a Bordeaux come ministro delle Finanze di Thiers, aveva denunciato questo "malaugurato" trattato, lasciando intendere che sarebbe stato di lì a poco abrogato, e aveva avuto persino la sfrontatezza di tentare, anche se inutilmente (aveva fatto i conti senza Bismarck), l’immediata messa in vigore dei vecchi dazi protettivi contro l’Alsazia, alla qual cosa, sosteneva, non si opponeva nessun precedente trattato internazionale. Quest’uomo, che considerava la controrivoluzione come un mezzo per ridurre i salari a Rouen, e la cessione delle province francesi come un mezzo per fare salire i prezzi delle sue merci in Francia, non era forse predestinato ad essere designato a figurare come il degno compare di Jules Favre nella sua ultima impresa di tradimento, coronamento di tutta la sua carriera?
All’arrivo a Frankfurt di questa squisita coppia di plenipotenziari, il brutale Bismarck li accolse lì per lì con questa impressionante alternativa: "O la restaurazione dell’Impero, o l’accettazione incondizionata delle mie precise condizioni di pace!". Queste condizioni comportavano una riduzione dei termini di pagamento dell’indennità di guerra, e l’occupazione permanente dei forti di Parigi da parte delle truppe prussiane fino a che Bismarck non si fosse ritenuto soddisfatto dello stato di cose in Francia; la Prussia veniva in tal modo riconosciuta l’arbitro supremo degli effettivi interessi della Francia! In contropartita egli si offriva di liberare, per consentire lo sterminio di Parigi, l’esercito bonapartista prigioniero e di garantirgli l’aiuto diretto delle truppe dell’imperatore Guglielmo. Dava garanzia della sua buona fede facendo dipendere il pagamento della prima rata dell’indennità dalla "pacificazione" di Parigi. Una simile esca fu naturalmente subito ingoiata con avidità da Thiers e dai suoi plenipotenziari. Essi firmarono il trattato di pace il 10 maggio, e lo fecero ratificare dall’Assemblea di Versailles il 18.
Nell’intervallo che separa la conclusione del trattato di pace e l’arrivo dei prigionieri bonapartisti, Thiers si sentì tanto più obbligato a riprendere la sua commedia di conciliazione, in quanto i suoi manovali repubblicani avevano un bisogno dannato di trovare un pretesto per chiudere l’occhio sui preparativi del massacro di Parigi. Ancora l’8 maggio, egli rispondeva ad una deputazione di conciliatori della classe media:
"Quando gli insorti si saranno decisi a capitolare, le porte di Parigi saranno aperte per tutti, per una settimana, eccetto che per gli assassini di Clément Thomas e Lecomte".
Alcuni giorni dopo, interpellato violentemente dai rurali a proposito di queste promesse, rifiutò di dare qualsiasi spiegazione; non però senza aver fatto loro questo significativo cenno:
"Vi dico che vi sono tra di voi degli impazienti, della gente che ha troppa fretta. Bisogna che attendano ancora otto giorni; alla fine di questi otto giorni, non vi sarà più nessun pericolo, e allora il compito sarà all’altezza del loro coraggio e delle loro capacità".
Non appena Mac-Mahon fu in grado di assicurargli che di lì a poco sarebbe potuto entrare in Parigi, Thiers dichiarò all’Assemblea che:
"sarebbe entrato a Parigi brandendo la legge, e avrebbe preteso una completa espiazione per gli scellerati che avevano sacrificato la vita dei nostri soldati e abbattuto pubblici monumenti".
Quando il momento decisivo ormai fu vicino, disse alla Assemblea: "Sarò spietato"; disse che Parigi era condannata; e disse ai suoi sgherri bonapartisti che essi avevano carta bianca per vendicarsi di Parigi a loro piacimento. Infine, quando il tradimento, il 21 maggio, ebbe aperto le porte di Parigi al generale Douay, Thiers, il 22 maggio, rivelò ai rurali lo "scopo" della sua commedia della conciliazione, che essi così ostinatamente avevano continuato a non capire.
" Finora tutte le volte che io comunicavo delle notizie, ero costretto a dirvi che stavamo avvicinandoci al nostro scopo. E vi dicevo la verità. Oggi posso dirvi molto di più: lo scopo è raggiunto. La causa della giustizia, dell’ordine, dell’umanità, della civiltà hanno trionfato".
E si trattava proprio di questo. La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora, questa civiltà e questa giustizia mostrano il loro vero volto come pura barbarie e rozza vendetta al di là della legge, senza inutili mascherature. Ogni nuova crisi nella lotta di classe tra gli accaparratori della ricchezza e i produttori di essa mette in luce questo fatto con sempre maggiore chiarezza. Persino le atrocità dei borghesi del 1848 scompaiono di fronte all’indicibile infamia del 1871. L’eroico spirito di sacrificio col quale la popolazione di Parigi - uomini, donne e ragazzi - combatté per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi, rispecchia in maniera evidente la grandezza della loro causa, quanto le imprese efferate della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i mercenari e i difensori. Gloriosa civiltà, invero, il cui problema principale è di sapere come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri rimasti sul campo dopo che la battaglia è terminata!
Per trovare un parallelo alla condotta di Thiers e dei suoi sciacalli, bisogna risalire fino ai tempi di Silla e dei due triumvirati di Roma. Gli stessi eccidi di massa, eseguiti a sangue freddo, la stessa incuranza nel massacro di fronte all’età e al sesso; la stessa pratica di torturare i prigionieri; le stesse proscrizioni, ma ora tutto ciò coinvolgeva un’intera classe; la stessa caccia selvaggia ai capi nascosti, per paura che anche uno solo potesse sfuggire; le stesse denunce di nemici politici e privati; la stessa indifferenza per il massacro di persone inermi assolutamente estranee alla lotta. Non vi è che una sola differenza: i romani non avevano ancora le mitragliatrici per liquidare i prigionieri e non avevano "la legge nelle loro mani", né, sulle loro labbra, il grido borghese di "civiltà".
E, dopo questi orrori, guardate l’altro aspetto, ancora più rivoltante, di questa civiltà borghese, come è stato descritto dalla sua stessa stampa!
"Mentre echeggiano in lontananza spari isolati - scrive il corrispondente parigino di un giornale conservatore di Londra - e disgraziati feriti muoiono abbandonati tra le pietre tombali del Père-Lachaise, mentre 6.000 insorti vagano terrorizzati tra le angosce della disperazione nel labirinto delle catacombe, e poveri sciagurati vengono sospinti nelle strade per essere abbattuti a mucchi dalle mitragliatrici, è rivoltante vedere i caffè zeppi dei devoti dell’assenzio, del biliardo e del dòmino; vedere le puttane di questi borghesucci passeggiare in lungo e in largo sui boulevards e sentire il frastuono delle orge, che vien fuori dai salotti riservati dei ristoranti di lusso, turbare il silenzio della notte".
Il signor Edouard Hervé scrive nel "Journal de Paris", organo versagliese soppresso dalla Comune:
"Il modo con cui la popolazione di Parigi (!) ha manifestato ieri la sua soddisfazione colpiva per il suo carattere più che frivolo; e lo sarà ancora più oggi. Parigi ha adesso un’aria di festa del tutto fuori luogo; è necessario che queste cose finiscano e devono finire, se non vogliamo essere chiamati definitivamente i "parisiens de la décadence"".
Segue la citazione del passo di Tacito:
"Eppure, il giorno successivo a quella lotta terribile, anche prima che fosse del tutto terminata, Roma, degenerata e corrotta, ricominciò ancora una volta a rotolarsi nella melma delle gozzoviglie che distruggevano il suo corpo e insozzavano il suo animo: alibi proelia et vulnera, alibi balneae popinaeque (qua combattimenti e ferite, là bagni e taverne)".
Il signor Hervé dimentica semplicemente di dire che la "popolazione di Parigi" di cui egli parla non è che la popolazione della Parigi del signor Thiers, dei furfanti che ritornano in folla da Versailles, Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain, la vera "Paris de la décadence".
In tutti i suoi sanguinosi trionfi sui magnifici combattenti pieni di abnegazione per una nuova e migliore società, questa civiltà obbrobriosa, fondata sull’asservimento del lavoro, soffoca il gemito delle sue vittime sotto uno strepito di calunnie la cui eco si ripercuote nel mondo intero. La serena Parigi della Comune viene improvvisamente trasformata dagli sciacalli dell’"ordine" in un inferno. E che cosa prova questa mostruosa trasformazione allo spirito borghese di tutti i paesi? Niente altro se non che la Comune ha cospirato contro la civiltà! Il popolo di Parigi muore con entusiasmo per la causa della Comune. Il numero dei suoi caduti è superiore a quello di qualunque altra battaglia conosciuta nella storia. Che cosa vuol dire ciò? Nient’altro se non che la Comune non era il governo del popolo stesso, ma il prodotto di un’usurpazione da parte di un pugno di criminali! Le donne di Parigi offrivano con gioia la loro vita sulle barricate e davanti ai plotoni di esecuzione. Che cosa prova ciò? Nient’altro se non che il demone della Comune le ha trasformate in Megere ed Ecati! La moderazione della Comune durante due mesi di dominio incontrastato è eguagliata solo dall’eroismo della sua difesa. Che cosa prova ciò? Nient’altro se non che la Comune per due mesi ha nascosto con cura, sotto una maschera di moderazione e d’umanità, la sete di sangue dei suoi istinti demoniaci che dovevano scatenarsi solo nell’ora della sua agonia!
La popolazione di Parigi, compiendo su se stessa il suo eroico olocausto, ha travolto nelle fiamme palazzi e monumenti. Quando fanno a pezzi il corpo vivente del proletariato, i suoi dominatori non debbono più contare di poter rientrare trionfalmente nell’architettura intatta delle loro dimore. Il governo di Versailles grida: "Incendiari!" e sussurra questa consegna a tutti i suoi sgherri, fino al più perduto villaggio: dare dappertutto la caccia ai suoi nemici, sospetti di essere incendiari di professione. La borghesia di tutto il mondo, che assiste con compiacimento al massacro dopo la battaglia, rabbrividisce d’orrore nel veder profanati la calce e i mattoni!
Quando i governi danno alla loro marina l’ordine di "uccidere, bruciare e distruggere", non è una licenza di incendiare? Quando le truppe britanniche dettero deliberatamente fuoco al Campidoglio di Washington e al Palazzo d’Estate dell’Imperatore di Cina, si trattava o no di un atto da incendiari? Quando Thiers, per sei settimane, bombardò Parigi col pretesto che voleva metter fuoco solo alle case abitate [sic!] era o no un incendiario? In guerra il fuoco è un’arma legittima come tutte le altre. Gli edifici occupati dal nemico vengono bombardati per essere incendiati. Se i loro difensori sono costretti a ritirarsi, vi appiccano essi stessi il fuoco per impedire agli attaccanti di servirsi degli edifici. L’essere distrutte dalle fiamme è sempre stata la sorte inevitabile di tutte le costruzioni situate sul fronte di combattimento di tutti gli eserciti regolari del mondo. Ma nella guerra degli schiavi contro i loro oppressori, la sola guerra giustificabile nella storia, ciò non è più del tutto vero! La Comune ha impiegato il fuoco esclusivamente come mezzo di difesa. Lo ha impiegato per sbarrare alle truppe di Versailles quei viali lunghi e rettilinei che Haussmann aveva espressamente aperto per il fuoco dell’artiglieria; lo ha impiegato per coprire la ritirata, allo stesso modo che i versagliesi, nella loro avanzata, facevano uso di tutti i loro obici che distrussero per lo meno altrettanti edifici quanti ne distrusse il fuoco della Comune. Si discute ancor oggi quali edifici vennero incendiati dai difensori e quali dagli attaccanti. E i difensori non fecero ricorso al fuoco se non quando le truppe versagliesi avevano già incominciato l’assassinio in massa dei prigionieri. D’altra parte, la Comune aveva, già da molto tempo, annunciato pubblicamente che, se fosse stata spinta agli estremi, avrebbe sepolto se stessa sotto le rovine di Parigi, e fatto di Parigi una seconda Mosca, come aveva promesso di fare, ma unicamente per coprire il suo tradimento, anche il governo della Difesa nazionale. A questo scopo Trochu aveva fatto arrivare il petrolio necessario. La Comune sapeva che ai suoi nemici non importava nulla della vita della popolazione di Parigi, ma che stavano loro grandemente a cuore gli edifici da essi posseduti. E Thiers, da parte sua, li aveva avvertiti che nella sua vendetta sarebbe stato implacabile. Non appena ebbe pronto da un lato l’esercito e dall’altro i prussiani che bloccavano le uscite, egli proclamò: "Io sarà senza pietà! L’espiazione sarà completa e la giustizia sarà infallibile ".
Se gli atti degli operai di Parigi sono stati vandalismo, è stato il vandalismo di una difesa disperata, non il vandalismo del trionfo, come quello che i cristiani perpetrarono a danno dei capolavori veramente inestimabili dell’antichità pagana; e persino questo vandalismo dei cristiani è stato giustificato dalla storia come elemento concomitante inevitabile e relativamente insignificante della lotta gigantesca tra una nuova società in ascesa e una vecchia società che sprofonda. Gli atti degli operai di Parigi furono ancora inferiori al vandalismo perpetrato da Haussmann, il quale distrusse la Parigi storica per far posto alla Parigi dei perdigiorno!
Ma l’esecuzione da parte della Comune dei 64 ostaggi, con l’arcivescovo di Parigi in testa! La borghesia e il suo esercito nel giugno 1848 ristabilirono una pratica che da molto tempo era scomparsa dalla condotta di guerra: l’esecuzione dei prigionieri disarmati. Da allora questa brutale consuetudine è stata seguita più o meno fedelmente nelle repressioni di tutti i sollevamenti popolari in Europa e nelle Indie, la qual cosa prova che essa costituisce veramente un "progresso della civiltà!". D’altra parte i prussiani, in Francia, avevano ristabilito l’uso di prendere ostaggi, uomini innocenti che dovevano rispondere a prezzo della propria vita delle azioni di altri. Quando Thiers, come abbiamo visto, fin dall’inizio del conflitto, rimise in vigore la consuetudine umanitaria di uccidere i comunardi prigionieri, la Comune, per proteggere la loro vita, fu costretta a fare ricorso alla pratica di prendere ostaggi. Gli ostaggi avevano già meritato la morte mille e una volta per le continue esecuzioni dei prigionieri da parte di Versailles. Come potevano essere risparmiati più a lungo, dopo il massacro col quale i pretoriani di Mac-Mahon avevano celebrato il loro ingresso a Parigi? Si doveva far diventare una semplice burla anche la presa di ostaggi - ultima garanzia contro la ferocia senza scrupoli dei governi borghesi? Il vero assassino dell’arcivescovo Dorboy, è Thiers. La Comune, a più riprese, aveva offerto di scambiare l’arcivescovo e non so quanti altri preti, per giunta, contro il solo Blanqui, allora nelle mani di Thiers. Thiers rifiutò ostinatamente. Sapeva che con Blanqui avrebbe dato alla Comune una testa; mentre l’arcivescovo gli sarebbe stato più utile come cadavere. Thiers agì seguendo l’esempio di Cavaignac. Quali grida di orrore non gettarono Cavaignac e i suoi uomini d’ordine nel giugno 1848 per stigmatizzare gli insorti quali assassini dell’arcivescovo Affre! Essi erano a perfetta conoscenza che l’arcivescovo era stato ammazzato dai soldati dell’ordine. Jacquemet, vicario generale dell’arcivescovo, testimone oculare del fatto, ne aveva fornito diretta testimonianza.
Tutto questo coro di calunnie che il partito dell’ordine, nelle sue orge di sangue, non manca mai di scagliare contro le sue vittime, prova soltanto che i borghesi dei nostri giorni si considerano come i successori legittimi dei baroni di un tempo, per i quali ogni arma che avessero nelle proprie mani era giusto usarla contro il plebeo, mentre nelle mani del plebeo ogni arma era di per sé un crimine.
La macchinazione della classe dirigente per abbattere la rivoluzione mediante una guerra civile portata avanti sotto il patrocinio di un invasore straniero, macchinazione che abbiamo seguito dal 4 settembre fino all’entrata dei pretoriani di Mac-Mahon per la porta di Saint-Cloud, trovò il suo punto culminante con il massacro di Parigi. Bismarck rimira con soddisfazione le rovine di Parigi, in cui egli vede forse il primo passo di quella distruzione generale delle grandi città che aveva tanto desiderato fin da quando era ancora un semplice rurale alla Chambre introuvable prussiana del 1849. Egli rimira compiaciuto i cadaveri del proletariato di Parigi. Per lui ciò rappresenta non solo lo sterminio della rivoluzione, ma l’estinzione della Francia, adesso decapitata, e per opera dello stesso governo francese. Con la superficialità caratteristica propria di tutti gli uomini di Stato fortunati, egli non vede che l’apparenza esteriore di quel tremendo avvenimento storico. Quando mai prima d’ora la storia ha offerto lo spettacolo di un vincitore che corona la sua vittoria trasformandosi non solamente in gendarme, ma in mandatario stipendiato del governo vinto? Non vi era stato di guerra tra la Prussia e la Comune di Parigi. Al contrario. La Comune aveva accettato i preliminari di pace, e la Prussia aveva dichiarato la sua neutralità. La Prussia non era dunque parte belligerante. Si comportava come un mercenario, e un mercenario vile, dal momento che non correva nessun rischio; come un sicario prezzolato, dal momento che aveva contrattato in anticipo il pagamento di 500 milioni di franchi, prezzo del sangue, alla caduta di Parigi. E così, infine, usciva fuori il vero carattere di questa guerra, ordinata dalla Provvidenza come castigo della Francia atea e corrotta per mano della pia e puritana Germania! E questa violazione senza precedenti del diritto dei popoli, anche nel senso in cui lo intendevano i giuristi del passato, invece di spingere i governi "civilizzati" d’Europa a mettere al bando delle nazioni il criminale governo prussiano, semplice strumento del gabinetto di San Pietroburgo, li incita solamente a discutere se le poche vittime sfuggite al duplice cordone sanitario che circonda Parigi debbano o no essere consegnate ai carnefici di Versailles !
Che dopo la guerra più sconvolgente dei tempi moderni, il vinto e il vincitore fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti prova non come pensa Bismarck, lo schiacciamento definitivo di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della vecchia società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; ed è ora dimostrato che questa è una semplice mistificazione dei vari governi, la quale tende a ritardare ed affossare la lotta delle classi, e viene messa in disparte non appena questa lotta di classe divampa in guerra civile.
Il dominio di classe non può più mascherarsi sotto una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono tutti federati !
Dopo la Pentecoste del 1871, non vi può più essere né pace, né tregua accettabile tra gli operai francesi e coloro che si appropriano del prodotto del loro lavoro. La mano di ferro di una soldatesca mercenaria potrà tenere, per qualche tempo, le due classi sotto una stessa oppressione. Ma la battaglia riprenderà, con proporzione sempre crescente, e non può esserci dubbio su chi risulterà alla fine vincitore - il piccolo numero degli accaparratori, o l’immensa maggioranza lavoratrice. E la classe operaia francese non è che l’avanguardia dell’intero proletariato moderno.
Mentre i governi europei dimostrano così davanti a Parigi, il carattere internazionale del dominio di classe, essi si scagliano addosso all’Associazione Internazionale dei Lavoratori - controrganizzazione internazionale del lavoro alla unione cosmopolita del Capitale - loro fonte prima di tutti questi mali. Thiers la denunciava come despota del lavoro, pretendendo di esserne il liberatore. Picard dette l’ordine di tagliare tutte le comunicazioni tra gli Internazionalisti francesi e quelli degli altri paesi; il conte Jaubert, questa vecchia mummia, già complice di Thiers nel 1835, dichiara che il grande problema per tutti i governi civili è quello di estirpare l’Internazionale. I rurali dell’Assemblea nazionale vomitano il loro livore contro di essa, e tutta la stampa europea si unisce al coro. Un onorevole scrittore francese, completamente estraneo alla nostra Associazione, esprime la sua opinione in questi termini:
"I membri del Comitato centrale della Guardia nazionale e così pure la maggior parte dei membri della Comune, sono le menti più attive, più intelligenti ed energiche dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori... uomini profondamente onesti, sinceri, risoluti, puri e fanatici nel senso migliore della parola".
Lo spirito borghese, tutto imbevuto di pregiudizi polizieschi, si figura naturalmente l’Associazione Internazionale dei Lavoratori come una sorta di setta segreta, il cui organismo centrale comanda, di quando in quando, le insurrezioni nei diversi paesi. La nostra Associazione, in realtà, non è altro che il legame internazionale che unisce gli operai più avanzati di tutti i paesi del mondo civile. Dovunque, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi condizione, lo scontro di classe prenda consistenza, è del tutto naturale che i membri della nostra Associazione si trovino al primo posto. Il terreno su cui essa sorge è la stessa società moderna. Essa non può venire sradicata da nessun massacro, per quanto spargimento di sangue esso comporti. Per sradicarla, i governi dovrebbero sradicare il dispotismo del Capitale sul Lavoro, condizione stessa della loro esistenza di parassiti.
La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come manifestazione di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti.
Londra 30 maggio 1871
Il Consiglio Generale

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