lunedì 16 settembre 2013

pc 16 dicembre - giornalisti al servizio di Riva in servizio permanente effettivo - Panebianco sul Corriere della Sera


Il Corriere della Sera nell'editoriale del 15 settembre, a firma di Panebianco, si occupa della vicenda Ilva, per presentare tutta una serie di concetti fatti propri dall'intero padronato e, in maniera meno esplicita, da governo, organizzazioni sindacali, partiti borghesi.
Si tratta di un articolo che si presenta con una veste economica, ma in realtà è ideologico, utilizza dati reali ma li legge esclusivamente in chiave padronale.
Non facciamo citazioni letterali dell'articolo ma ci riferiamo agli argomenti di esso.
Si dice che la vicenda Ilva è un disastro e una tappa del processo di deindustrializzazione, lasciando dietro di sé macerie e povertà. Si nasconde che questo disastro è provocato dalla gestione padronale dell'industria, dall'uso della fabbrica a fini esclusivi di profitto che ha prodotto e produce morti sul lavoro, inquinamento, sfruttamento e poi licenziamenti, ecc.
Responsabile di tutto questo è il capitalismo non il giudice di Taranto.
Panebianco e i suoi punti di riferimento invertono la sostanza del problema. Siamo noi che possiamo dire che l'Ilva nelle mani di padron Riva significa non sviluppo industriale ma appunto disastro ambientale.
Panebianco si lamenta del processo di deindustrializzazione nel paese, ma questo è un processo da lungo tempo in atto per responsabilità di quei padroni che chiudono le fabbriche, che finanzializzano l'economia e che alla ricerca del maggior profitto delocalizzano le imprese.
Che c'entra tutto questo con l'inchiesta di Taranto che individua reati previsti dal nostro codice penale e li persegue?
Panebianco ricorda come “a nulla sono valsi i tentativi dei governi di impedire il disastro, si ricordi il braccio di ferro tra governo Monti e i magistrati tarantini”, rendendo palese ciò che dovrebbe essere compreso da tutti. I governi, da Berlusconi a Monti all'odierno Letta hanno un solo obiettivo e scopo, quello di salvaguardare Riva, la proprietà di Riva o, in caso estremo, la proprietà collettiva dei padroni sull'Ilva (chiamiamola “commissariamento” o si potrebbe arrivare fino a “nazionalizzazione”) per vincere il braccio di ferro coi magistrati e imporre la continuità della produzione per il profitto a scapito della sicurezza e della salute.
Panebianco si associa ad un altro scribacchino padronale, come il Di Vico che fa da megafono del presidente della Confindustria Squinzi dicendo che i concorrenti esteri fanno salti di gioia per la crisi attuale dell'Ilva. Quindi, si mette in luce che la gestione della fabbrica da parte di padron Riva, a scapito della condizione operaia, dell'ambiente, è parte della lotta e della concorrenza tra i capitalisti sul mercato, e che per vincere in questa concorrenza sono ben sacrificabili gli operai e i cittadini di Taranto.
Panebianco poi dice: “non si tratta poi di difendere il gruppo Riva, le sue eventuali responsabilità riguardano il Tribunale”. Appunto!! “Il Tribunale” sta quindi facendo il suo dovere... Di che si dovrebbe lamentare Panebianco? Il Tribunale dovrebbe, per caso, solo comminare sanzioni o piccole condanne come è già avvenuto, dovrebbe lasciare in pace le ricchezze accumulate e nascoste dai Riva eludendo tutte le leggi del nostro paese, per non dire la Costituzione?
Poi, per favore, lo faccia la famiglia Riva questo discorso, il cui uomo-cassa è latitante.
Panebianco aggiunge che la vicenda doveva essere “gestita con buon senso”. Ma evidentemente ha un'idea del “buon senso” che coincide con quella della famiglia Riva e dei padroni. Perchè buon senso” in questo campo dovrebbe significare mettere a disposizione tutti i fondi accumulati dalla famiglia Riva per mettere a norma lo stabilimento, per contribuire alla bonifica, al risanamento e al risarcimento, in un quadro in cui gli operai dell'Ilva di Taranto e di tutti gli stabilimenti restano al lavoro e protagonisti di questo processo. Il “buon senso” di Panebianco, invece, coincide con quello del governo di riconsegnare tutto in mano a Riva, tramite un suo uomo, Bondi che gestisca al ribasso la messa a norma, utilizzi fondi pubblici e con la storia del commissariamento tenga fuori da tutto il gioco fondi e proprietà effettive della famiglia. Un processo che avrebbe come esito inevitabile tagli e ristrutturazioni, e non tanto degli impianti della 'Riva Acciai' ora sotto tiro, ma della più grande fabbrica del gruppo Riva e conseguentemente della catena dell'Ilva di Genova e di Novi Ligure.
Avere questo esito sarebbe “buon senso”? Tutelerebbe lavoro e industria? Ma ci faccia il piacere...
Panebianco continua dicendo che il declino economico del paese è inarrestabile, che il diritto penale (evidentemente quando è usato contro i padroni) è una forma primitiva e barbarica, che addirittura usato così diventa, secondo Panebianco, il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, e allora “ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione”. Addirittura!!
Va bene stare sui 'Libri paga', direttamente o indirettamente, dei padroni ma un minimo di contegno ci vuole ogni tanto! Marx si sarebbe certamente divertito a leggere e commentare un simile zelante scribacchino che per il solo fatto che sequestrano i beni di un padrone responsabile di disastro sanitario e ambientale, arriva a parlare di “estinzione della civiltà”. Ma se la “civiltà” moderna è Riva, si capisce bene perchè questa “civiltà del capitale” è giunta al capolinea e coincide con la barbarie, a cui solo il socialismo in realtà potrà mettere rimedio.
Più insidioso è invece l'altro argomento che usa Panebianco nel paragrafo finale dell'articolo, lì dove parla della diffusione di una particolare sindrome, “un orientamento antindustriale travestito da ecologismo che punta alla decrescita, alla deindustrializzazione in quanto tale come una minaccia per l'ambiente”. Noi, dal versante opposto a Panebianco, condividiamo assolutamente questa frase, ma essa non c'entra con la giusta e necessaria inchiesta della magistratura a Taranto che sta perseguendo reati contenuti nel nostro codice di cui tutto si può dire tranne che sia stato scritto da un “ecologista antindustriale” visto che il sistema del capitale in questo paese e con questo codice ha convissuto e continua a convivere bene; ma certamente Panebianco parla degli esponenti della sua classe, borghesia, media, piccola borghesia, che effettivamente sostengono a Taranto, come su scala nazionale, posizioni reazionarie di questo genere, che effettivamente cavalcano la tigre dell'inchiesta per diffondere nelle fila operaie e popolari vecchie teorie che sono compagne di strada della fase parassitaria e putrefatta del sistema economico imperialista. Teorie che non hanno come bersaglio i padroni – si tranquillizzi Panebianco – ma la classe operaia, il ruolo generale di essa e della grande industria, la lotta per la trasformazione di questo sistema sociale.
Ma per Panebianco non sono questi gli avversari per cui utilizza questi argomenti, ma diventano uno strumento per la criminalizzazione dei magistrati impegnati nell'inchiesta nel tentativo di richiamare a sé con questi argomenti l'alleanza neocorporativa tra padroni e operai.

Tanti saluti all'industria

La vicenda dell'Ilva è un disastro in sé e l'ennesima tappa di un processo
di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.
Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.
La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.
Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.
Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l'industria in quanto tale come una minaccia per l'ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall'inquinamento) l'ecologismo è diventato un'arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull'ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l'industria italiana. (CdS)

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