La recente
tornata elettorale in Sicilia è stata considerata, da tutte le aree
politiche, un significativo banco di prova per l’intero panorama
politico nazionale. Così è stato a tutti gli effetti. I risultati sono,
solo in apparenza, sorprendenti.
“I partiti dei socialisti –
rivoluzionari di destra e dei menscevichi conducono, in realtà,fuori
dalle mura dell’Assemblea costituente la lotta più accanita contro il
potere sovietico facendo appello apertamente,nei loro giornali,
all’abbattimento di questo potere definendo arbitrario il legame tra
repressione – da parte delle classi lavoratrici – della resistenza degli
sfruttatori, repressione necessaria per liberarsi dallo sfruttamento,
difendendo i sabotatori al servizio del capitale, giungendo fino
all’appello diretto al terrore che “gruppi ignoti” hanno già cominciato
ad applicare. È chiaro che in forza di ciò l’altra parte dell’Assemblea
costituente avrebbe potuto soltanto avere la funzione di coprire la
lotta dei controrivoluzionari per l’abbattimento del potere sovietico.
Perciò il Comitato Esecutivo Centrale decide: l’Assemblea costituente è
sciolta.” (Lenin, Decreto di arresto dei capi della guerra civile contro
la rivoluzione)La percentuale delle astensioni alle
elezioni siciliane è stata di circa il 53% mentre, il numero di coloro
che hanno dato il loro consenso ai partiti governativi, si è attestato a
1.450.207 voti. Circa il 33% degli elettori. Un terzo della società.
Ciò ha ben poco di regionale ma corrisponde esattamente, per intero,
allo scenario nazionale. Nonostante, per la prima volta dal dopo guerra,
una tornata elettorale abbia chiuso il bilancio in passivo, la cosa non
ha suscitato troppo scalpore. Tutti i partiti di regime non si sono
soffermati più di tanto sul fenomeno, preoccupati solo di mettere a
punto, a partire dalle indicazioni siciliane, le strategie in vista
delle prossime politiche. In poche parole ciò che in un’altra epoca
avrebbe mandato in fibrillazione l’intero mondo politico, oggi, è
tranquillamente metabolizzato. Bersani grida alla vittoria; Casini gli
ricorda che solo l’alleanza con lui e i “moderati” può garantire il
successo, mentre Berlusconi e il PDL sembrano preoccupati soltanto di
trovare una via d’uscita dal tracollo in cui sono precipitati e a
ritagliarsi un qualche ruolo nel prossimo esecutivo. I vari schieramenti
“antisistema” si crogiolano nei loro, più o meno elevati successi, ma,
al pari della troika di governo, non si mostrano particolarmente attenti
al fenomeno astensione. Un fenomeno, intorno al quale occorre, invece,
porre non poca attenzione anche perché, l’obiettiva crisi di
rappresentanza mostrata dalle elezioni siciliane, è ben lungi
dall’essere il semplice specchio di una crisi del sistema politico bensì
il risultato di una trasformazione radicale delle nostre società.
Per comprenderlo poniamo per ipotesi che, un dato simile, fosse uscito
dalle urne del 1978. Indubbiamente le reazioni del mondo politico
sarebbero state di ben altro tenore e la scollatura tra mondo della
politica e paese reale osservata con occhi ben diversi. Nessuno, dotato
di un minimo di buon senso, avrebbe potuto tirare dritto o addirittura
cantare vittoria. Il problema, assolutamente reale, di una complessiva
riconquista del consenso in gran parte degli ambiti sociali sfuggiti al
sistema della rappresentanza sarebbe stato l’obiettivo strategico di
tutte le forze politiche. Perché? Perché in quel contesto era
impensabile pensare di poter governare avendo dalla propria parte
soltanto un terzo della società. Le retoriche dell’epoca, intorno alla
società dei due terzi, avevano pur un qualche grano di verità. Con ogni
probabilità, soprattutto in virtù della presenza di organizzazioni
comuniste rivoluzionarie saldamente radicate e attive nel Paese,
l’astensione sarebbe stata letta come possibile spostamento di masse
rilevanti di popolazione verso ipotesi e indicazioni politiche
decisamente antagoniste al sistema rappresentativo della democrazia
imperialista. Un risultato elettorale simile, dal sistema politico
legittimo di allora, più che un campanello d’allarme sarebbe stato
percepito come una vera e propria campana a morto. Certo, con ogni
probabilità, l’astensionismo di massa, in quel contesto, si sarebbe
sommato ad altrettante mobilitazioni e insorgenze di massa delineando
una situazione in cui, i più, mostravano di non essere più disposti a
essere governati da quella classe politica. Un dato astensionista di
quel tipo sarebbe stato percepito come delegittimazione politica di
massa, con tutte le conseguenze del caso.
Di tutto ciò, oggi, non vi è, almeno in apparenza, traccia.
Il risultato “siciliano”, pertanto, deve essere letto sotto un duplice
profilo. Da un lato è possibile sicuramente registrare il distacco, o
più realisticamente la nausea, della maggioranza delle masse nei
confronti di quell’autentica stalla d’Augia che è il parlamentarismo
imperialista, dall’altra, però, va sottolineata la modifica che, dentro
la fase imperialista contemporanea, è venuta a maturare nel sistema
della rappresentanza politica. Due lati della questione che vanno
continuamente tenuti a mente poiché delineano esattamente il nodo di
Gordio che il movimento comunista è chiamato oggi a recidere. Osservare
unicamente la scollatura tra masse e istituzioni politiche potrebbe
portare a una sopravalutazione del fenomeno, tanto da ipotizzare persino
il delinearsi di una situazione pre – insurrezionale mentre, osservare
unicamente la ridefinizione dei modelli del potere imperialista,
significherebbe ignorare l’esperienza che, spontaneamente, le masse
hanno fatto e, in conseguenza di ciò, le indicazione che la soggettività
politica deve ricavarne per una prassi cosciente all’altezza dei tempi.
Si tratta, quindi, di cogliere la dialettica propria del fenomeno e non
appiattirsi su uno dei due poli.
Centrale, pertanto, diventa
capire che cosa vi è alla base della frattura della quale, la tornata
elettorale siciliana, è stata eccellente esemplificazione. Il dato più
ovvio è il definitivo venir meno dei partiti – massa. Una tendenza che
non nasce da oggi ma che, di fatto, ha preso corpo e sostanza
immediatamente dopo l’89. Ma cosa significa il venir meno di questo
contenitore? Su quali basi strutturali si consuma la sua messa in mora?
Quale tipo di società prefigura l’estinguersi dei partiti – massa?
Nonostante le molteplici sfaccettature che un simile passaggio comporta,
andando al sodo, una pare decisiva e fondamentale: l’eclisse delle
relazioni industriali tenute a battesimo nel corso del Novecento e in
particolar modo dello scenario venutosi a delineare nel secondo dopo
guerra. Uno scenario di cui, il nostro Paese, è stato per molti versi
l’elemento paradigmatico. La presenza permanente dello spettro
proletario e comunista ha obbligato le classi dominanti a tenere sempre
bene a mente gli umori delle masse e ad agire al fine di arginarne le
sempre possibili derive rivoluzionarie. Veicolo centrale di tale
passaggio, la cui repentina accelerazione è avvenuta in seguito al
formidabile ciclo di lotte operaie e proletarie degli anni Sessanta e
Settanta, è stato la costituzionalizzazione del lavoro operaio e
subalterno insieme alla concessione di un numero non irrilevante di
diritti sociali. Sulla legittimazione politica e sulle conseguenti
garanzie sociali per quote importanti di masse subalterne si reggeva il
sistema dei partiti – massa. Questo sistema, palesemente, è naufragato.
Ma che cosa lo ha fatto implodere? Ancora una volta occorre andare a
cercare nella sfera della produzione gli arcani della politica.
La fine dei partiti di massa ha conciso esattamente con il venir meno
di un determinato modello lavorativo e, con questo, di quella tipologia
di rappresentanza politica che finiva con l’inglobare gran parte degli
ambiti sociali. La società dei due terzi si fondava sui partiti – massa e
tutto ciò che questi si portavano appresso. Ma se muta radicalmente il
modello delle relazioni industriali inevitabilmente non può che crollare
l’intero sistema politico che, di queste, ne era al contempo specchio e
garanzia. La modellistica lavorativa contemporanea ha reciso alla
radice l’insieme di certezze che le lotte operaie e proletarie
novecentesche avevano tenuto a battesimo. Dobbiamo realisticamente
riconoscere che, oggi, non vi è nulla di conquistato e registrato. La
cornice entro la quale la lotta di classe si manifesta ha ben poco da
attingere dalla storia che l’ha preceduta. Per le masse, quel modello di
rappresentanza politica che ha a lungo dettato, almeno in parte, i
tempi della politica si mostra del tutto inappetibile. Quel mondo, il
mondo della politica, o almeno il mondo della politica istituzionale non
può che avere un vero interesse solo per quei blocchi sociali
direttamente legati agli interessi imperialisti. Di ciò, del resto, ne
sono testimoni non vergognosi gli stessi uomini leader dei partiti
imperialisti. La stessa democrazia imperialista ha cambiato pelle. La
governance è data e garantita da un ristretto numero di consorterie, in
stretto legame con gli organismi politici, economici e militari
sovranazionali, insieme alle loro ristrette clientele. L’unica
dialettica ammissibile in tale scenario è data, dalle frizioni
momentanee che, volta per volta, possono porre in disaccordo le sopra
ricordate clientele. Si tratta, però, di frizioni che non incidono in
alcun modo sugli assetti strategici del blocco imperialista egemone il
quale, al contrario, sulle scelte di fondo sfiora ampiamente il
monolitismo. In tale ottica che una corporazione entri momentaneamente
in conflitto con un’altra, è del tutto inessenziale. Per tutti, questo
il dato certo ed essenziale, la strategia di esclusione politica e
sociale dei subalterni è un dogma più certo del Vangelo.
Rimane
infine, tornando allo specifico delle elezioni siciliane, la
constatazione di come la crisi sia più forte della stessa criminalità
organizzata. A quanto pare, la Mafia e la sua presa sui territori, è
direttamente proporzionale alla delegittimazione dei partiti politici.
Ciò non deve stupire poiché, quel modello criminale, era del tutto
interno a un determinato ciclo politico ed economico imperialista. Non
ne rappresentava, diversamente da quanto argomentato e sostenuto dalle
anime belle della sinistra legalitaria, il cono d’ombra bensì la sua
esatta e necessaria complementarietà. Con la crisi di quel modello
imperialista non può che venir meno anche questa sua non secondaria
forma di consenso. Anche per la Mafia, quindi, si pone il problema di
ridefinire il suo operato cogliendo il passaggio dalla società dei due
terzi alla società di un terzo. Non è difficile immaginare che,in uno
scenario simile, la Mafia, da istituzione fondata sul consenso, si
trasformi in appartato coercitivo finalizzata a eseguire i lavori
sporchi indispensabili per l’attuale fase imperialista. Non è difficile,
infatti, immaginare che l’organizzazione mafiosa venga utilizzata
dall’attuale blocco imperialista come strumento e apparato di terrore
nei confronti delle possibili insorgenze e insubordinazioni di massa. In
fondo, per la Mafia, si tratterebbe di un “ritorno alle origini”
all’epoca in cui, la sua principale funzione si riduceva a “braccio
armato” dei grandi proprietari terrieri o, come durante il Ventennio,
fornitrice di investigatori e sicari per l’Ovra fascista. Nonostante le
retoriche di cui gli “uomini d’onore” amano ammantarsi, in loro a
primeggiare è sempre uno spirito questurino. Ciò ha ben poco di
localistico e/o folcloristico poiché, la presenza e l’utilizzo di forze
direttamente attinte dalla criminalità organizzata, è un fenomeno
presente sull’insieme del territorio nazionale. Il reclutamento dei
crumiri, la gestione del caporalato, le rappresaglie squadristiche
contro i lavoratori in lotta, le vicende delle cooperative milanesi ne
sono, al contempo, conferma e avvisaglia, mostrano esattamente come,
dentro la crisi e la ridefinizione complessiva degli assetti politici,
economici e sociali le organizzazioni criminali giochino un ruolo di
assoluta complementarietà. Non è così escluso che, il movimento di
classe, si troverà ad affrontare “concretamente” questa modellistica di
conflitto dove la criminalità organizzata si presenterà diretta gestrice
della forza lavoro salariata. Un’esperienza che, da tempo, quest’ultima
sta maturato nella gestione della forza lavoro immigrata.
Abbiamo così una ridefinizione degli assetti politici, che risultano
sempre più fondati su un sostanziale principio di esclusione che, almeno
come suggestione, riporta alla mente gli albori della società liberale e
il suo principio di cittadinanza declinato sull’individuo proprietario
avente come corrispettivo diretto quello del proletariato “senza volto” :
servus non habet personam. La società legittima restringe
abbondantemente i margini reali della rappresentanza mentre, la gran
massa della popolazione, che in teoria di tale rappresentanza potrebbe
usufruire, ne ha maturato la completa estraneità. Due mondi, tra loro
incommensurabili, hanno così finito con il delinearsi. Qualunque cosa
accada nel cielo della politica istituzionale, un po’ come nel vecchio
dispotismo orientale, non ha ricadute di un qualche tipo per quella
massa sempre più numerosa di proletari senza volto le cui condizioni di
lavoro, il cielo della politica, ha rese eterne. Dentro tale contesto si
pongono le sfide del presente per la soggettività comunista la quale,
oggi, si trova esattamente tra due rive. Vediamole.
Da un lato
osserviamo prendere corpo tutte le tentazioni che provengono dalle
esperienze passate e che portano a ipotizzare la reiterazione di
logiche, formule e retoriche del tutto interne alla composizione di
classe figlia delle relazioni industriali novecentesche (in primis tutto
l’armamentario del parlamentarismo). Su questo occorre urgentemente
fare chiarezza. Facciamolo tenendo a mente Lenin e i suoi insegnamenti. È
noto come Lenin abbia a lungo polemizzato, almeno sin dal 1906, contro
gli antiparlamentaristi e come, la discussione intorno alla tattica
parlamentare, abbia occupato un ruolo di primo piano dentro il secondo
congresso dell’Internazionale comunista. Ma in quale contesto tutto ciò
si colloca? Questo il punto. La tattica parlamentare - tattica e non
strategia come invece diventerà per i partiti comunisti declinati in
chiave socialdemocratica - da Lenin è non solo ammessa ma auspicata.
Infatti Lenin considera il ruolo centrale che il parlamento ricopre e la
lotta serrata che la borghesia conduce, da un lato per ridurre al
minimo la presenza delle forze comuniste dentro il suo fortino
istituzionale, dall’altro, e questo diventerà quanto mai evidente sin
dal momento in cui l’autocrazia smetterà i panni dell’assolutismo, per
catturare dentro il gioco parlamentare, cioè dentro i partiti borghesi
che lo sostanziano, le masse che si sono messe in movimento. La Russia,
contrariamente a quanto pensano i vari raggruppamenti piccolo borghesi è
già un paese capitalista e borghese e, anche sotto il profilo della
“questione sociale”, non può che ricalcarne le orme.
Dopo il
1905, il consenso non può più poggiare sulla semplice reiterazione
dell’atavica osservanza delle gerarchie. Il 1905 ha infranto, una volta
per sempre, le certezze e la solidità del regime zarista. Inoltre,
aspetto per nulla secondario, le masse premono per partecipare
attivamente alla vita politica e il parlamento e la partecipazione a
questo ne è un aspetto. Al proposito è sempre bene ricordare che, sino
al luglio del ’17, la parola d’ordine della Assemblea Costituente è
ancora maggioritaria dentro i Soviet. Il parlamentarismo, quindi, per
quanto in maniera contraddittoria è anche dentro l’orizzonte delle
masse. Di ciò, Lenin, tiene costantemente conto. Non diversamente, anzi,
vanno le cose se lo sguardo si sposta dalla Russia al mondo
occidentale. Il parlamentarismo è fortemente dentro la pratica del
movimento operaio e non è sufficiente certo un proclama o un tratto di
penna per azzerarlo. Inoltre, proprio la “mobilitazione totale” a cui la
guerra imperialista ha obbligato, impone alle stesse borghesie
imperialiste di adottare nei confronti della classe operaia e del
proletariato una politica anche politicamente e socialmente inclusiva.
L’appoggio che tutta la borghesia imperialista offrirà ai partiti operai
nazionali va esattamente in questa direzione ed è colto con non poca
lucidità da Lenin negli scritti a ridosso del 4 agosto 1914. L’intera
vicenda della socialdemocrazia tedesca, della Repubblica di Weimar e via
dicendo ne sono esemplificazioni più che note.
Per quanto, a
un primo e superficiale sguardo, possa sembrare paradossale è proprio la
borghesia imperialista che necessita che le masse abbiano una
rappresentanza politica e che, al contempo, siano oggetto di una certa
forma di inclusione sociale. Sotto tale aspetto, la guerra e la forma
che ha assunto, sono risultate decisive. Dentro tale contesto, dove il
governo, il controllo e un certo grado di consenso delle masse diventa
un’esigenza strategica per le borghesie imperialiste anche l’arena
parlamentare diventa un fronte del conflitto di classe. Questo lo
scenario oggettivo all’interno del quale, Lenin, “obbliga” la tattica
dell’Internazionale. È a partire da questa dimensione “concreta” della
politica che prende forma l’uso leninista del parlamento imperialista.
Però, come ricorda Lenin, la “linea di condotta” comunista è sempre il
frutto di una valutazione “concreta” di una situazione “concreta”. La
strategia comunista non può prescindere da un’analisi del contesto
oggettivo in cui si trova a operare, il marxismo non è un dogma ma una
guida per l’azione. In un mondo in cui il parlamentarismo gioca un ruolo
effettivo nella e per la vita delle masse, in un contesto in cui, le
classi dominanti, sono costrette a catturare il consenso dei
subordinati, l’azione parlamentare diventa, per forza di cose, un
terreno doverosamente da praticare. Nessun rimpianto. Lenin, però, nel
momento stesso in cui cerca di portare alla ragione gli “ultrasinistri”,
al contempo, ammonisce l’insieme delle forze comuniste ad agire,
sempre, avendo a mente il ciclo storico in cui si è immessi. La tattica
dei comunisti deve essere sempre il frutto di un’attenta analisi del
mondo reale per questo: senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento
rivoluzionario. Ma che cos’è, per Lenin, la teoria rivoluzionaria se
non la capacità della soggettività politica di leggere le tendenze in
atto della società e le sue ricadute sul fronte della lotta di classe?
Che cos’è, per Lenin, la teoria se non lo strumento attraverso cui il
partito si arma per combattere in uno scenario che il capitalismo e il
suo sviluppo hanno bellamente modificato? La teoria come guida per
l’azione, appunto. Chiediamoci, allora, oggi, che cosa resta dello
scenario in cui Lenin si spese anche per il parlamentarismo.
Non
assistiamo, forse, a un movimento che va esattamente in direzione
opposta? Le borghesie imperialiste non vanno, forse, in altra direzione
mentre, le masse, si mostrano del tutto disinteressate a quel modello
politico. Ciò che la stampa di regime chiama “disgusto per la politica”
non è forse, in realtà, la presa di congedo delle masse subalterne da un
modello politico a loro ormai del tutto estraneo? Per quanto in maniera
istintiva e non cosciente le masse non hanno forse compreso che questa
politica è loro del tutto estranea e, soprattutto nemica? Non hanno
forse dimostrato la loro estraneità, e quindi nemicità, a un sistema che
non solo non vuole ma neppure può offrir loro qualcosa, neppure il
classico piatto di lenticchie? Il parlamentarismo non è forse superato,
nei fatti, dalla pratica sociale? La sua funzione non è semplicemente
quella di ratificare scelte e decisioni degli organismi politici,
economici e militari sovranazionali? Se le cose stanno in questo modo,
per il movimento comunista, alcune non secondarie decisioni vanno prese.
In primis l’abbandono di ogni illusione elettoralistica ma non solo.
Ciò che va immediatamente posto all’ordine del giorno è un programma
politico in grado di offrire uno sbocco storico alla condizione
proletaria contemporanea. Sotto tale aspetto, con ogni probabilità, la
“vecchia” parola d’ordine della dittatura proletaria si mostra ben più
fresca delle tante alchimie innovatrice elaborate dal ‘89 in poi dalla
cosiddetta sinistra post – comunista. Al nuovo proletariato occorre dare
una prospettiva politica non effimera, una prospettiva politica al
centro della quale si pone, senza malintesi di sorta, la questione del
potere politico e dell’esercizio della dittatura rivoluzionaria.
È in questa direzione che, ogni embrione di partito, deve avere il coraggio di muoversi con le spalle rivolte al futuro.