sabato 11 agosto 2012

pc 11 agosto - ILVA NOTIZIARIO N.3

NOTIZIARIO ILVA 3 - 10-11.8.12

IN FABBRICA

La sentenza del riesame è stata accolta in fabbrica con un misto di parziale sollievo e di diffidenza. Il parziale sollievo è dato dal fatto che essa secondo le notizie finora conosciute – non sono però uscite ancora le motivazioni del dispositivo del riesame – scongiurerebbe l’ipotesi della chiusura dell’Ilva per indirizzare verso il risanamento degli impianti; dall’altro però c’è diffidenza circa l’effettiva volontà di Riva di andare in questa direzione, diffidenza circa gli effetti che potranno esserci comunque sul piano della continuità lavorativa, e – qui condiviso anche dall’ala operaia e popolare più preoccupata per gli effetti sull’ambiente - circa comunque le dimensioni di questa bonifica che sia in grado realmente di attaccare la gravità e profondità dei danni alla salute e all’ambiente che l’azione dei dirigenti dell’azienda prima e di Riva dopo ha prodotto.
E intorno a questi problemi che si muove ora tempestivamente l’azione dello Slai cobas per il sindacato di classe. Innanzitutto togliendo dubbi su un punto: affidarsi in fabbrica a Riva e fuori a Magistratura e a Istituzioni è una linea perdente e illusoria che non salverà né lavoro né salute.
Riva senza la lotta degli operai farà fatica ad ottemperare alle ordinanze, alle prescrizioni, egli vuole fare solo quello che permette di salvaguardare la continuità dei suoi profitti che, come tutti hanno detto e alcuni tardivamente scoperto, fanno dell’Ilva la fabbrica più grande del paese e il principale centro siderurgico d’Europa, con forti influenze sull’economia e sul sistema industriale italiano. Senza la lotta degli operai le dimensioni degli interventi in Ilva saranno di stampo ultraparziale, graduale e concertativo e quindi non in grado di raggiungere l’attuale obiettivo che dovrebbe essere comune tra operai e movimento popolare di fermare i danni alla salute e all’ambiente – teniamo anche conto che già sul piano degli interventi di “messa a norma” vi è di fatto un contrasto che vede da un lato Riva/Governo e Istituzioni locali, in primis Regione di Vendola che nel Tavolo Regionale hanno siglato un intesa che prevede piccoli e insignificanti interventi, prevalentemente di sistemi di controllo, e in larga parte già scritti in passato e non attuati da Riva, e dall’altro le prescrizioni della Magistratura più estese e radicali.
Senza la lotta degli operai fondi e sostegno dello Stato vogliono essere un’ancora di salvataggio per padron Riva piuttosto che quel radicale intervento che le lotte di queste giornate richiedono con forza. Senza la lotta, gli operai non avranno un ruolo di riferimento e direzione come classe di tutto il movimento di lotta della città.

Nell’incontro di questa settimana tra azienda e sindacati confederali questi sono tornati a svolgere il solito ruolo, quello di portavoce essenzialmente degli interessi di Riva. Il segretario della Fim Panarelli sembra parlare come Ferrante: “Si, l’Ilva si aspetta al più presto le motivazioni, perché da quello che scriveranno i giudici si comprenderà la direzione di marcia… Dall’interpretazione del dispositivo del riesame fornita dall’azienda non si evince la fermata degli impianti e quindi gli impianti dovrebbero continuare a marciare. D’altra parte i soldi devono pure venire fuori, un’azienda inattiva, che non produce non potrebbe reggere a lungo, se gli impianti non vanno spenti devono produrre. Ferrante ci ha chiesto di diffondere un messaggio di serenità…”.
E’ chiaro che con questa posizione ogni effetto del riesame sarà scaricato sugli operai, una riduzione della produzione viene giustificata a priori e di conseguenza lo sarà il ricorso alla cassintegrazione, che peraltro era già annunciata per effetto di alcune difficoltà sul mercato.
Anche in questo incontro, però, si è riproposto che, ove ci fosse come applicazione del dispositivo una interpretazione restrittiva, i sindacati convengono con Ferrante che lo stabilimento sarebbe comunque a rischio.

Lo Slai cobas per il sindacato di classe affronta gli stessi problemi e pone agli operai un altro approccio. Primo, la continuità della fabbrica che noi rivendichiamo è legata alla continuità dell’attività lavorativa degli operai al cui obiettivo occorre piegare i piani Ilva e la compatibilità tra i piani e l’indirizzo della sentenza volta al risanamento. E’ soprattutto necessario togliere ogni alibi all’azienda circa lo scarico sugli operai degli effetti della sentenza. Già nel giugno scorso lo Slai cobas denunciava l’accordo segreto già esistente tra operai e sindacati circa una nuova cassintegrazione per 2.900 operai, rinviata a luglio e poi entrata nel vortice della situazione attuale. Già nella precedente fase della crisi 2008/2009 l’Ilva teneva bene sul mercato, ciononostante è stata fatta e autorizzata una cassintegrazione ordinaria prima e straordinaria dopo per migliaia di lavoratori. Riva cavalcava la crisi, gonfiandone effetti per aumentare i numeri dei cassintegrati ben oltre le necessità. La cosa è stata così evidente che l’azienda non è riuscita neanche a farla integralmente questa cassintegrazione, gli operai in cig sono risultati alla fine meno di quelli richiesti inizialmente dall’azienda e la stessa cassintegrazione ha trovato poi una sostanziale sospensione. Aveva quindi ragione lo Slai cobas per opporsi ad essa e chiederne un netto ridimensionamento. Ma la cig richiesta aveva anche un altro scopo, da sempre utilizzato in Ilva, di pressione ricatto verso gli operai per mantenerli ben saldi sotto il controllo dell’azienda per il tramite dei sindacati confederali, collaborazionisti, collusi e in parte anche venduti. Anche su questa base che vi sono state le aperture dell’Ilva sul problema del cambio tuta con concessioni volte a dare un po’ di soldi ai lavoratori in cambio di un diritto rubato e svenduto. E’ in questa fase che circa 1000 operai si sono schierati con lo Slai cobas per il sindacato di classe e una parte di essi si è organizzata nello Slai cobas, compresi alcuni attivisti ex Fiom noti anche nelle vicende di questi giorni. Così lo Slai cobas ha potuto prendere corpo e forza in seno alla fabbrica divenendo un pericolo reale per l’azienda a cui l’Ilva ha reagito non riconoscendo le deleghe, perseguitando alcuni lavoratori iscritti, creando un clima di alleanza infame con dirigenti sindacali e delegati confederali per impedire che questo pericolo reale si trasformasse in lotta e in rovesciamento dei rapporti di forza in seno alla fabbrica.
L’esplosione della vicenda ambientale è servita all’azienda a ricompattare, di fronte al pericolo della chiusura, gli operai intorno al suo sostegno e ridimensionare anche l’influenza crescente dello Slai cobas.
Della pressione repressiva aziendale e dell’emergenza chiusura fabbrica sono state vittime anche alcune avanguardie che si erano avvicinate al cobas Ilva; questi operai/ex delegati hanno avuto timore che la mancata copertura sindacale ne potesse provocare il licenziamento, e quindi sono passate alla Fim sulla base di queste sole ragioni; salvo poi impegnarsi, alcuni in maniera decisa e totale, nel movimento ambientalista, visto anche come opportunità di ribellione ai diktat di Riva e di contestazione generale ai sindacati confederali.
Lo Slai cobas tiene duro e continua a ritenere che vada colta l’opportunità dell’attuale crisi per andare ben oltre la contestazione ambientalista e costruire il sindacato di classe e di massa fondato sui cobas, che può essere la vera arma vincente, capace di rafforzare il peso in fabbrica degli operai più coscienti e ribelli e guidare su posizioni di classe il movimento esterno popolare.

Una doppia lotta che in queste giornate viene nettamente alla luce. Come i sindacati confederali in fabbrica intorno alla continuità della produzione pro Riva cercano di riconquistare una credibilità perduta soprattutto contro il pericolo rappresentato dallo Slai cobas, così nel movimento esterno alla fabbrica, guidato in parte da un gruppo di operai protagonisti della contestazione del 2 agosto, tenta di mettere le grinfie l’ambientalismo borghese e piccolo borghese che vuole la fabbrica chiusa, gli operai assistiti, in uno scenario tipo Bagnoli, a cui danno manforte alcune “mosche cocchiere” presenti nell’area dei sindacati di base e del movimento cittadino, che del tutto estranei agli operai e alla fabbrica e spesso alla stessa popolazione dei quartieri, ora cavalcano la tigre della contestazione per togliervi il carattere di classe, e soprattutto minare il ruolo degli operai in quanto direzione di classe per ricondurli nell’area di innanzitutto di “cittadini che hanno a cuore l’ambiente, la salute e il futuro di Taranto”.
E’ del tutto chiaro che quest’area vede nello Slai cobas l’ostacolo alla sua azione. Quindi il discorso “siamo tutti cittadini”, “niente bandiere” è per far emergere l’unica bandiera quella del cittadino interclassista che non può che finire nella contrapposizione tra operai e città, tra salute e lavoro, e così via.
Questa linea si è organizzata dando vita al “Comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti”, che anche nella sua sigla, non a caso, teorizza visibilmente questa concezione volutamente interclassista e di effettivo contrasto a discorsi e prassi di classe.
Nell’assemblea che il Comitato ha fatto l’8 agosto ai Tamburi – di cui parliamo in seguito – a fronte di una positiva ribellione degli abitanti del quartiere, gli interventi dei promotori del comitato, tra cui anche ex delegati Fiom Ilva, sono stati quelli più sbagliati: operai che dicono che loro parlano e si sentono soprattutto cittadini piuttosto che operai, e di fatto ora sono attivi fuori dalla fabbrica ma in fabbrica non fanno e propongono niente; operai che, dandosi la classica “zappa sui piedi” hanno detto che la l’Ilva può chiudere, che ci possono anche togliere il lavoro, che lo Stato deve espropriare e ridare l’economia in mano ai tarantini, come se Taranto fosse un isola socialista. Poi ci sono i movimentisti piccolo borghesi, camuffati da “cittadini”, tra cui il rappresentante del morto Cobas confederazione, uscito improvvisamente da anni di inattività, che gridano con una irresponsabilità demagogica che i cittadini dei quartieri devono andare a “bloccare l’Ilva, le portinerie!”, minando la ricerca di unità tra operai e popolazione dei quartieri che invece è stata espressa da vari altri interventi.
Una visione pericolosa e dannosa, a cui le avanguardie operaie sono chiamate a riflettere e ragionare, ad assumere un ruolo importante, di fronte ad un’opportunità anche storica di cambiare realmente le cose nella più grande fabbrica del paese e assumere un riferimento con influenza nella classe operaia a livello nazionale.

Chiaramente, però, questa battaglia ha riproposto in maniera clamorosa, attraverso una rivolta operaia e il movimento cottadino di contestazione i temi e le battaglie che lo Slai cobas per il sindacato di classe ha sviluppato e costruito, non solo su scala cittadina ma anche su scala nazionale. Prima tra tutte, la battaglia contro le morti bianche con la costruzione dell’associazione ‘12 giugno’ formata da familiari, operai Ilva attivi sulla sicurezza, ma anche tecnici, giuristi, intellettuali, artisti, da cui si è tratta ispirazione per la costruzione della Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro che attraverso due straordinarie campagne ha costruito due manifestazioni di classe e di massa, prima alla Thyssen e poi a Taranto il 18 aprile del 2008, che hanno fatto diventare effettivamente l’Ilva una questione nazionale, conosciuta e che ha attirato ben prima degli ambientalisti operatori dei mass media ed energie anche sul campo culturale – basti pensare alla spettacolo di Attricecontro “Se questo è un operaio, viaggio nell’inferno dell’Ilva”, all’importante documentario di Valentina D’Amico “La svolta”. E tutto questo non ha mai avuto come obiettivo quello di cancellare la fabbrica, bensì quello di elevare la coscienza di classe degli operai e stringere tutti intorno alla battaglia che si conduce in fabbrica, al fianco degli operai contro il sistema Riva, una delle forme del fascismo padronale ancor prima di Marchionne.

Lo Slai cobas intorno a battaglie quali quella sulla “palazzina Laf”, i processi contro le morti bianche, il caso “Nuova Siet” che riguardava il sistema di truffa ed estorsione negli appalti Ilva e non solo, aveva già colpito, sia pur principalmente nelle aule del Tribunale, Riva e incoraggiato i magistrati a fare con più decisione la loro parte. La definizione “Riva assassino” sui muri dell’Ilva, per la quale la dirigente dello Slai cobas è stata processata e assolta in un confronto/scontro diretto con padron Riva in persona, ha indicato la strada, per la quale vi sono ora condizioni migliori, purchè non se ne abbandoni l’orientamento di classe e di guerra al capitale.
Ora che l’Ilva è tornata in forma così evidente all’attenzione nazionale, tutte le realtà di classe del nostro paese sono chiamate a scendere in campo, cosa possibile solo se sanno distinguere l’apparenza dalla sostanza, l’autonomia operaia, l’organizzazione, la lotta di classe.

ASSEMBLEA POPOLARE AI TAMBURI

Il “Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti” ha tenuto l’8 agosto, dopo una prima assemblea, una nuova assemblea in piazza ai Tamburi – il quartiere più vicino all’Ilva e più inquinato con un tasso di morti di tumore da record nazionale - di oltre 200 persone, dando così continuità alla contestazione del 2 agosto e anche una prima risposta alle 41 denunce con cui questura e sindacati confederali hanno risposto alla contestazione.
Operai Ilva, pensionati Ilva, giovani disoccupati, rappresentanti dei miticultori danneggiati dalla diossina, ma soprattutto donne del quartiere e anche di altre realtà che hanno raccontato in forme vive, molto commoventi quanto alto sia il prezzo di vite che si sta pagando per responsabilità dei padroni (privati e prima pubblici) del siderurgico e delle Istituzioni, dei politici e dei sindacati confederali, che si sono posti al loro servizio, fino a vendersi anche concretamente, come comincia ad emergere anche dall’inchiesta parallela sulla corruzione. Sono proprio le donne, insieme ai giovani, ad essere l’anima nuova di questa battaglia del quartiere con 18 mila abitanti e a 200 metri da uno dei settori più nocivi dell’Ilva: i parchi minerali. Le donne, prendendo coraggio anche dal loro dolore per i morti, le sofferenze, le preoccupazione dei figli - alcune parlavano in piazza per la prima volta – hanno fatto forti appelli a scendere in piazza tutti, ad alzare la testa e riprendere la dignità, perché indietro non si può tornare; dall’altra hanno posto con più nettezza il fatto che la battaglia per la salute e il lavoro devono andare insieme, che i lavoratori Ilva continuino a lavorare ma la fabbrica si deve mettere realmente a norma.
Questa chiarezza è necessaria a fronte di altri interventi e posizioni che in maniera superficiale e oggettivamente demagogica sostenevano che l’Ilva deve chiudere, che se si perde il lavoro basta poi “rimboccarsi le maniche”, che a Taranto vi sarebbero “tante possibilità di lavoro” se ci si libera delle fabbriche inquinanti, dei territori occupati dalla Marina, ecc.
I giovani, provenienti anche dall’area ultras, hanno dato linfa alla volontà di ribellione e rivolta che non tocca solo il problema di non volere una fabbrica produttrice di morte e inquinamento ma anche di volere una città libera dalla disoccupazione, precarietà, mancanza di futuro – a Taranto – ha detto un operai Ilva vi sono tante grandi aziende, ugualmente inquinanti (vedi Eni, Cementir, Evergreen, Marcegaglia, ecc.), ma c’è il 40% di disoccupazione.
Forte è stata anche la denuncia del voluto disinteresse, abbandono del quartiere da parte di Comune, Provincia, politici, del ruolo connivente di Tv e stampa locale, sui libri paga di Riva; così come del fatto che gli abitanti dei Tamburi stanno subendo tutti i mali e i guasti delle scelte economiche e politiche e gli viene negato anche un minimo di contropartita – Tamburi – ha detto qualcuno – dovrebbe essere almeno considerata “zona franca” per gli abitanti, perché non paghino le tasse, l’Imu sulle case piene di minerale dell’Ilva, perché i malati per l’inquinamento ambientale abbiano le cure gratuite, ecc.
Tornando all’Ilva si è denunciato il legame governo/Riva: come fa un governo che ha avuto soldi freschi da Riva per l’Alitalia ad andargli contro? Come mai oggi si dice che l’Ilva è un bene di tutto il paese, ma nel ’95 si è svenduta a Riva e oggi non si dice che sia lo Stato a riprendersi la fabbrica? Si è denunciato, infine, in più interventi che lo stanziamento da parte del governo di 336 milioni è una presa in giro, tenuto conto poi che una parte di questi soldi è destinata ad altro, al porto.

Un’assemblea popolare nel senso pieno della parola che si prende il diritto di parola e intende chiamare a raccolta anche gli altri quartieri della città. L’assemblea si è aggiornata dopo ferragosto.
Effettivamente pensiamo che una rete popolare di Comitati di quartiere, a partire dai Tamburi, serva a far avanzare questa battaglia, ed essere parte di un fronte unito con gli operai in fabbrica. Questa battaglia cominciata deve andare fino in fondo.

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