mercoledì 15 febbraio 2012

pc 15 febbraio - CIE di Bari - intollerabile lager criminale - reportage di repubblica

La rabbia dietro le sbarre

"Fuggiti dalle dittature, ma qui è un lager”Viaggio nel centro devastato da rivolte e proteste. Per la prima volta, dopo lo stop alle visite imposto da Maroni e la campagna della stampa "LasciateCIEntrare", un giornalista varca la soglia della struttura di identificazione ed esplulsione di Bari
Lo sguardo rivolto all'insù. Verso il cielo. Per vedere gli aerei passare sopra la testa e aggrapparsi a quel sogno di libertà. Quando non ci sono nuvole si intravedono le scie e le luci, nelle giornate più tranquille si riesce anche a sentire il rombo dei boeing. L'aeroporto "Karol Wojtyla" di Bari è a pochissimi chilometri. Ogni tanto passa anche qualche elicottero in perlustrazione. Fuori fa molto freddo. Sono le undici di mattina e ci sono appena quattro gradi, ma non importa. Il cielo è azzurro e bisogna stare all'aperto. "Fuori, outside, dehors" ripetono in più lingue. Solo così nel Cie si riesce ancora a sperare. Quel piccolo cortile all'aperto dietro le sbarre è l'unico posto in cui ci si può sentire liberi. I migranti qui dentro sono rinchiusi. Gli operatori che forniscono loro assistenza preferiscono chiamarli ospiti del centro, ma sanno che in realtà si tratta di detenuti. Dietro la parola Cie, acronimo di centro di identificazione ed espulsione, si nasconde un vero e proprio carcere. Riservato a chi non ha il permesso di soggiorno.

L'INGRESSO
Per arrivare all'interno della struttura, a cavallo tra i quartieri San Paolo e Palese, accanto alla cittadella della guardia di finanza, bisogna attraversare una prima recinzione in muratura, una seconda vetrata anti-sfondamento alta
oltre sette metri e una terza cancellata in ferro. Solo dopo i tre anelli si può entrare nell'edificio. Circondato da camion dell'esercito, automobili della polizia e presidi dei carabinieri. È la prima volta, dopo lo stop alle visite imposto ad aprile scorso l'ex ministro all'Interno Roberto Maroni e seguito dalla campagna "LasciateCIEntrare" portata avanti da Fnsi e Ordine dei giornalisti, che qualcuno riesce ad entrare nel Cie di viale Europa a Bari.


I MIGRANTI
I migranti detenuti sono 108 su 196 posti. La maggior parte è magrebina: 70 tunisini e 11 marocchini. Ma ci sono anche tre albanesi, un egiziano e un bengalese. Qualche georgiano e persino un paio di rumeni. Chi è rinchiuso nel Cie non è detto abbia commesso reati. C'è chi arriva dal carcere, dove peraltro ha già scontato la sua pena, e deve essere espulso e chi invece è stato sorpreso per strada senza documenti e portato nel centro per essere poi rimpatriato. L'unica colpa, in questo caso, è quella di essere irregolare. Di non avere un permesso di soggiorno. "Fanno di tutto pur di uscire da queste mura" raccontano gli operatori dell'Oer, l'ente che ha in gestione il centro. "C'è chi dice di aver ingoiato le pile del telecomando per essere portato in ospedale" spiega il direttore del Cie Umberto Carofiglio. E in effetti è già capitato che qualcuno abbia approfittato del trasporto in ospedale sull'ambulanza per aprire il portellone e fuggire tra le campagne. "La libertà non ha prezzo - continua Carofiglio - ci provano in tutti i modi a fuggire".

LE PROCEDURE
All'ingresso tutti i migranti vengono schedati e visitati. Viene loro fornito un vademecum di regole da rispettare tradotto in tutte le lingue e un kit di scarpe, biancheria, spazzolino e sapone. Lasciano le valigie in una cassetta di sicurezza e sono sistemati in una stanza. All'interno di un modulo da 28 posti, rigorosamente chiuso a chiave. A lavoro, nella struttura, ci sono interpreti, mediatori culturali, assistenti sociali, medici e psicologi. Sono loro che aiutano i detenuti a sopportare il trattenimento dietro le sbarre. Il tempo di permanenza all'interno del Cie, secondo la nuova normativa, può arrivare anche a diciotto mesi. Un anno e mezzo chiusi in pochi metri quadri. In attesa di una risposta per poter rimanere in Italia.

LA STRUTTURA
Dopo aver visitato l'infermeria, la sala udienze con gli avvocati e il giudice di pace, la sala da barba dove gli operatori provvedono a radere barbe e a tagliare i capelli ai migranti a cui è vietata la detenzione di lame e forbici, la cucina e gli uffici, si entra in un lungo corridoio dal pavimento verde dove ci sono i moduli. Sette da ventotto posti. Tre sono chiusi perché distrutti dalle ultime rivolte. "Impossibile accedervi e visitarli" spiegano dalla Prefettura. Solo quattro dovrebbero essere aperti e disponibili. Si tratta di grosse celle. C'è un finestrino da cui si affacciano gli sguardi tristi e silenziosi, quegli occhi però parlano, chiedono aiuto. Una grossa chiave apre il portone in ferro: dentro ci sono le stanze con i letti. L'umidità è forte, si vede e si sente. Fa freddo anche con il cappotto imbottito. I muri sono scrostati, rotti e sporchi; i comodini sono fatti in muratura per evitare che possano essere usati come armi improprie. In un angolino gli islamici hanno messo un asciugamano sul pavimento per inginocchiarsi a pregare. I segni delle rivolte sono nei vetri rotti, nei soffitti anneriti dal fuoco, nelle porte scardinate. Molte stanze infatti hanno 'portè fatte con buste in plastica nera. I bagni rotti e in pessime condizioni igieniche. "L'acqua è fredda - racconta uno di loro - dobbiamo farci la doccia con l'acqua ghiacciata". Un altro scuote la testa. "Qui dentro stiamo benissimo - sorride - perché non venite a provare voi italiani?". Un altro ancora incalza. "E ora chi lavora nei campi se noi siamo qui? Chi raccoglie le olive e taglia l'uva? Questi sono lavori che voi italiani non volete fare, ci pagate 5 euro al giorno poi però, visto che non abbiamo il permesso, ci chiudete in questo posto". Il Cie di Bari è uno dei 13 esistenti in tutta Italia ed è anche tra i più capienti. I posti però sono diminuiti dopo le violente rivolte dei detenuti che hanno devastato e bruciato interamente tre moduli. "Ma a fine febbraio cominceranno i lavori - tranquillizzano i funzionari della Prefettura di Bari - sono già stati appaltati e riguarderanno l'intera struttura". Per vivere c'è un'altra grande stanza collettiva con sette tavoli per mangiare e giocare, un tunisino si è inventato una dama artigianale fatta con i tappi delle bottiglie. La vita si svolge tutta in pochi metri quadri. Poi c'è il cortile esterno recintato da una cancellata bianca. L'unico spiraglio di libertà.

LE MALATTIE
Non dormono, hanno crisi isteriche e compiono atti di autolesionismo. I migranti rinchiusi nel Cie prima o poi si ammalano. Ma di patologie psicologiche. Sviluppano, spiegano i medici in servizio nella struttura, malattie psicosomatiche che non si possono guarire con i farmaci classici. "Simulano crisi epilettiche, richiamano l'attenzione altrui con patologie che non esistono, vogliono sempre andare in ospedale". Qualche volta hanno ingoiato lamette o pile. L'assistenza medica è garantita, ventiquattro ore su ventiquattro, ma i problemi dei detenuti sono soprattutto psicologici.

L'ASSISTENZA PSICOLOGIA
"Provengono da percorsi difficili - spiega la psicologa del centro Nicoletta Nacci - non accettano il trattenimento. L'autolesionismo è una modalità molto frequente per attirare l'attenzione: si tratta di un atto di protesta, una richiesta di aiuto". I colloqui dei migranti con la psicologa sono frequenti. Spesso sono gli stessi detenuti a richiederli. "Chi viene preso per strada e portato nel Cie è più facile da gestire psicologicamente, accetta delle regole ma soffre di più anche se con dignità; chi arriva dal carcere invece ha già sperimentato modalità dure di protesta. I migranti - prosegue la psicologa Nacci - sono terrorizzati dall'idea di tornare nel loro paese, ed è terribile anche per me perché vedo tanti ragazzi che sarebbero capaci di riprogettarsi. Molti vengono da situazioni di sfruttamento anche lavorativo. Non hanno permesso di soggiorno, non possono avere lavoro e così alcuni si buttano nella droga. Spacciano perché, mi dicono durante i colloqui, c'è sempre domanda di pusher. È un settore quello della droga che non va mai in crisi e dove c'è sempre purtroppo un posto di lavoro".

(14 febbraio 2012)

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